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di Massimo Rubboli

L’uso di simboli religiosi tradizionali da parte del patriarca Kirill della Chiesa ortodossa russa nella guerra contro l’Ucraìna non costituisce una novità. Già nell’agosto 2009, Kirill donò un’icona della Vergine Maria all’equipaggio di un sottomarino nucleare nella base navale di Severodvinsk. Una settimana dopo l’invasione russa, durante una funzione religiosa che si è tenuta nella Chiesa del Salvatore a Mosca, Kirill ha donato una copia dell’icona di “Nostra Signora di Augustówa Viktor Zolotov, capo della Guardia nazionale russa, dicendo: “Possa questa immagine ispirare i giovani soldati che prestano giuramento e che si apprestano a difendere la Patria”. Zolotov ha risposto: “Crediamo che questa immagine proteggerà l’esercito russo e accelererà la nostra vittoria. […] le cose non vanno così velocemente come vorremmo” (1). L’icona, che rappresenta la presunta apparizione della Madonna ai sodati russi durante la II guerra mondiale, è conservata nella grande Cattedrale delle Forze armate russe, vicino a Mosca, dedicata nel 2000; qui si trovano anche affreschi che celebrano le recenti guerre in Georgia e in Siria e l’annessione della Crimea del 2014.

Il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, a Roma il papa e a Fatima il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere, hanno consacrato al Cuore immacolato di Maria i popoli della Russia e dell’Ucraìna. Nella basilica vaticana, il pontefice vescovo di Roma ha consacrato alla Madonna l’umanità e, in particolare, i popoli di Russia e Ucraìna:

Santa Madre di Dio, mentre stavi sotto la croce, Gesù, vedendo il discepolo accanto a te, ti ha detto: «Ecco tuo figlio» (Gv. 19: 26): così ti ha affidato ciascuno di noi. Poi al discepolo, a ognuno di noi, ha detto: «Ecco tua madre» (v. 27). Madre, desideriamo adesso accoglierti nella nostra vita e nella nostra storia. In quest’ora l’umanità, sfinita e stravolta, sta sotto la croce con te. E ha bisogno di affidarsi a te, di consacrarsi a Cristo attraverso di te. Il popolo ucraino e il popolo russo, che ti venerano con amore, ricorrono a te, mentre il tuo Cuore palpita per loro e per tutti i popoli falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria.
Noi, dunque, Madre di Dio e nostra, solennemente affidiamo e consacriamo al tuo Cuore immacolato noi stessi, la Chiesa e l’umanità intera, in modo speciale la Russia e l’Ucraina. (2)

Pochi giorni prima, il settimanale cattolico “Famiglia cristiana” aveva fatto notare polemicamente che esiste una “differenza abissale fra il gesto del patriarca e quello che ci accingiamo a compiere nella nostra chiesa. Noi, infatti, non affideremo all’intercessione di Maria solo uno dei due popoli in conflitto, ma entrambi, consapevoli del fatto che entrambi sono vittime di una guerra sempre ingiusta, come affermato da papa Francesco”.(3)

Il gesto del papa è certamente stato motivato dalle migliori intenzioni, ma da una prospettiva storica solleva più di una perplessità sulla sua opportunità in questo contesto bellico.

Il rito di consacrazione fa riferimento alle presunte apparizioni della Vergine Maria a tre giovanissimi pastori (Giacinta Marto, Francesco Marto e Lúcia dos Santos) nel villaggio di Fatima tra la primavera del 1916 e l’autunno del 1917. Tra le profezie e richieste ricevute dai pastorelli, una riguardava la consacrazione della Russia (in quel tempo nel mezzo della Rivoluzione) al Cuore immacolato di Maria affinché si convertisse.

Questo evento viene letto in modo diverso nelle due tradizioni cristiane: in quella cattolica, come una risposta alla minaccia del comunismo ateo; in  quella ortodossa, alla luce di un millennio di lotte (non solo dottrinali!) tra il cristianesimo orientale e quello occidentale, come una possibile nuova aggressione. Infatti, alla rottura formale della comunione tra la Chiesa latina e i quattro patriarcati storici della Chiesa orientale nel 1054, seguirono una serie di scontri che culminarono nel saccheggio di Costantinopoli da parte dell’esercito crociato nel 1204. Nell’immaginario identitario della cultura ortodossa, la Chiesa cattolica e l’Occidente hanno continuato ad essere percepiti come aggressori e conquistatori.

Inoltre, la “consacrazione” prevede un coinvolgimento e assenso personale di chi viene consacrato che in questo caso sono mancati.

Poi, per quanto riguarda il dogma cattolico dell’Immacolata Concezione, che risale al 1854, bisogna ricordare che non è condiviso dalle chiese ortodosse, che non ne accettano il presupposto teologico, cioè la dottrina agostiniana del Peccato originale. Quindi, consacrare due paesi a stragrande maggioranza ortodossa al Cuore immacolato di Maria rischia di alimentare i timori della parte più conservatrice del mondo ortodosso di uno sconfinamento della Chiesa cattolica.

Ancor più, da parte ortodossa questo gesto può essere interpretato come un’affermazione dell’autorità spirituale universale del papa. Infatti, quando il pontefice affida e raccomanda due paesi alla Beata Vergine Maria, lo fa in virtù delle sue prerogative di pastore universale della Chiesa e Vicario di Cristo. Perciò, il patriarca della Chiesa ortodossa russa, che considera il papa non come suo superiore ma come uguale, sarà indubbiamente infastidito da questa intrusione nel mondo russo (Russkij mir), sul quale esercita una giurisdizione esclusiva. Inevitabilmente, ciò raffredderà o congelerà i rapporti tra le due chiese, che sembravano avere intrapreso un nuovo cammino dopo l’incontro all’aeroporto dell’Avana il 12 febbraio 2016.

Chi prevedeva che un prossimo incontro tra Francesco e Kirill avrebbe fatto compiere un altro passo al dialogo ecumenico sarà certamente deluso. Ma non è da escludere un nuovo gesto del papa che, approfittando delle discordie interne alla Chiesa ortodossa russa acuite da questa guerra, potrebbe nominare un  vescovo della Chiesa greco-cattolica russa in comunione con Roma, la cui sede è vacante da oltre mezzo secolo.

Massimo Rubboli
(si veda il suo Instant Book La guerra santa di Putin e Kirill, Edizioni GBU)

 

NOTE

(1) Putin’s war in Ukraine is blessed by Church icon, says Kremlin boss, “The Times”, 14 marzo 2022, thetimes.co.uk/article/bdd711f0-a39f-11ec-9909-6547dd4945b7?shareToken=45095f78b5e3ae786e0cc1c52fc641da (visto il 15/3/2022).

(2) Atto di Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, https://ift.tt/1CqgbdF (visto il 27/3/2022).
Cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, Art. 9: Credo “la santa Chiesa Cattolica”. Par. 6: Maria – Madre di Cristo, Madre della Chiesa, I. La maternità di Maria verso la Chiesa, § 975 “Noi crediamo che la santissima Madre di Dio, nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in cielo il suo ruolo materno verso le membra di Cristo”.

(3) Pino Lorizio, Maria, madre di tutti e non icona guerriera, “Famiglia cristiana”, 18 marzo 2022, https://ift.tt/IugOdsn (visto il 19/3/2022).

 

 

 

 

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Iniziamo oggi la pubblicazione – settimanale – di otto paragrafi del libro del teologo di orgine croata Miroslav Volf, che sarà in libreria a Maggio, dal titolo Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie. Il libro è una raccolta di brevi scritti, alcuni dei quali hanno poi visto un loro ampliamento in libri tematici.

Si può essere buoni senza Dio?
Alcuni hanno suggerito che gli scandali nel mondo degli affari, della politica e della ricerca sono conseguenze pratiche di una visione del mondo che ha messo fuori Dio. La moralità ha bisogno di Dio, sostiene l’argomentazione, e senza Dio la società sarà lacerata dall’avidità incontrollata, dalla concupiscenza del potere e dalla lotta per la gloria.

Si può tuttavia avere chiaramente una buona dose di “immoralità” anche con Dio che occupa un posto centrale nella nostra visione del mondo. Gli scandali nelle comunità religiose sono la riprova di questo fatto, caso mai ci fosse bisogno di prove. Inoltre, le concezioni di Dio talvolta stanno esplicitamente dietro ad atti riprovevoli come l’avidità e la violenza, giustificate sulla base di motivazioni religiose. Cosa dovremo concludere dal fatto che coloro che credono in Dio fanno del male e legittimano le loro azioni con il credere in Dio? Unicamente che il credere in Dio è compatibile con una vita “immorale”, e non che la moralità non abbia bisogno di Dio.
Ma la moralità ha bisogno di Dio? Un libro bello e accessibile sull’argomento è Why Bother Being Good? The Place of God in the Moral Life di John Hare, professore di filosofia al Calvin College. È uno dei più importanti filosofi cristiani di etica che scrivono oggi (si vedano anche The Moral Gap e God’s Call). Egli sostiene in maniera forte che la moralità non ha bisogno di Dio. Il suo punto di vista non è quello di chi ritiene che una persona che non crede in Dio non possa essere buona; ci sono tante persone di tal genere e alcune di esse vivono vite paragonabili a quelle dei santi. Il moralmente rigoroso Immanuel Kant, filosofo del XVIII secolo, considerava il filosofo ebreo razionalista del XVII secolo, Baruch Spinoza, una persona di tal genere. Ma poiché gli atei santi hanno una vita migliore rispetto alla bontà delle loro credenze, sostiene Hare, essi mancano di alcune convinzioni che sostengono la vita che conducono. Non possono dare un senso alla loro propria vita morale.

Una maniera classica di sostenere che la moralità ha bisogno di Dio è mostrare che bisogna appellarsi a Dio se vogliamo dare una risposta adeguata alla domanda: «Perché dobbiamo essere buoni?». Nella seconda parte del suo libro Hare offre una propria versione di questa argomentazione, rigettando in primo luogo le alternative disponibili in quanto ritenute inadeguate. L’autorità della moralità non è solo ovvia, e neanche solo basata sulle esigenze della ragione. Ancor più, non può provenire dal dal fatto di dover essere vera sia per la nostra natura umana sia per la comunità a cui apparteniamo. Ci vorrebbe troppo spazio per spiegare le ragioni per cui Hare ritiene inadeguate queste maniere di costruire le ragioni, il perché dobbiamo essere buoni. Ma facendo ricorso al procedimento per eliminazione Hare può sostenere che l’autorità della moralità può provenire soltanto dalla volontà e dalla chiamata di Dio.

Spesso coloro che sostengono che la moralità abbia bisogno di Dio si fermano subito dopo aver mostrato che Dio sia la sola, adeguata fonte dell’autorità morale. Hare non lo fa. Diò è importante non solo per il perché dobbiamo essere buoni, ma anche per il come possiamo essere buoni. Il problema infatti è la nostra capacità a essere buoni. Tutti noi abbiamo esperienza di un’esigenza morale che è avvertita come «troppo alta per noi, date le capacità naturali con cui siamo nati». Abbiamo provato diverse strategie per aiutarci, come quella del «gonfiare le nostre capacità» o quella del «ridurre le esigenze». Ma queste strategie sono chiaramente inutili, sostiene Hare, perché la nostra capacità naturale rimane senza speranza sia in ragione dei suoi limiti sia per l’altezza dell’esigenza morale.

Per poter essere morali ci occorre «la fede morale: …la fede nel fatto che per noi è possibile essere moralmente buoni nei nostri cuori e la fede che ci porta a credere che il mondo fuori di noi abbia un senso morale». Le persone morali devono credere sia che «le loro capacità siano state trasformate dal di dentro» sia che «il mondo là fuori sia il tipo di posto in cui la felicità è sicuramente legata a una vita moralmente buona».

Una maniera diversa di parlare di questa seconda condizione è dire semplicemente che «una persona morale ha bisogno di credere che non deve fare ciò che è moralmente sbagliato per essere felice». Il punto sembra ben centrato: se siamo persuasi che non possiamo soddisfare le esigenze morali e che siamo dei miserabili quando lo facciamo, non dovremo cercare di essere morali. Hare sostiene che la «fede morale» necessaria per condurre vite morali richiede la fede in Dio, colui che può trasformare i cuori e provvidenzialmente condurre il mondo in maniera tale che (alla fine) la virtù si unirà con la felicità.

Siamo così tornati all’assunto che non si può condurre una vita morale senza non credere in Dio? Non proprio. Perché sia che crediamo in Dio sia che non crediamo, Egli può essere al lavoro nel cuore delle persone nella provvidenziale conduzione del mondo. Ma se Hare ha ragione, allora la «moralità con cui siamo familiari richiede un retroterra teologico per avere un orizzonte di senso». Questo non prova che le dottrine teologiche siano vere. Dimostra solo che, «se vogliamo tenerci stretta la moralità e rigettare la teologia, allora dovremmo trovare un sostituto per fare il lavoro che la teologia di solito fa. Non sarà così facile trovare un tale sostituto».

Di fronte agli scandali che scuotono la fiducia delle persone negli affari, nel governo, nella ricerca e nelle comunità religiose, i leader delle chiese cristiane spesso vestono il mantello dei critici che si lamentano dello stato del “mondo” e, meno di frequente, prendono su di sé il mantello dei riformatori che offrono maniere per migliorarlo. Se Hare ha ragione, non dovremmo rinnegare il nostro compito primario che è quello di testimoniare del Dio di Gesù Cristo. Per questo dobbiamo appellarci a Dio per rispondere alle due domande centrali che sono al cuore di qualsiasi crisi morale: «Perché dovremmo essere moralmente buoni» e «Come possiamo essere moralmente buoni?».
(M. Volf)

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di Elena Ammirabile

“La Russia cambia il mondo” questo è il titolo del secondo fascicolo di Limes del 2022 arrivato alla sua terza ristampa. Il 24 Febbraio del 2022 il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin annuncia un’operazione militare nel Donbass in difesa delle autoproclamate repubbliche indipendentiste, inizia così una guerra di cui oggi  a un mese di distanza, non riusciamo a vedere la fine.

Questa non è l’unica guerra o conflitto armato in corso, l’ACLED ne conta 27 nel mondo ma è  la prima invasione di uno stato nel continente  europeo da quella cecoslovacca del 1968 che sancì la fine del sogno del comunismo sovietico come governo del popolo per il popolo.

Da una parte abbiamo l’aggredito: l’Ucraina, stato sovrano, tornata indipendente nel 1991 con lo scioglimento dell’URSS, in un percorso sofferto sia nell’affermazione dello stato di diritto, base di una democrazia compiuta che prevede la tutela di tutte le minoranze politiche e linguistiche, sia nel suo posizionamento strategico, con una faglia aperta tra chi vuole accelerare il percorso di avvicinamento all’Unione Europea e chi preferirebbe l’allineamento con la Federazione Russa che dal 2014  alimenta il conflitto nella regione del Donbass tra regioni indipendentiste e stato centrale.

Dall’altra abbiamo l’aggressore: la Federazione Russa considerata una democratura, regime che della democrazia mantiene solo la forma ma in cui il potere politico è saldamente in mano ad un autocrate, Vladimir Putin, dal 2000. Putin ha risollevato la Federazione Russa dalla terribile crisi economica e finanziaria degli anni Novanta, dovuta al drastico passaggio da l’economia socialista a quella del libero mercato, a scapito delle libertà civili. La politica estera della Federazione Russe  nell’era Putin è stata aggressiva nei confronti dei suoi vicini, ne hanno fatto le spesa la Georgia, la stessa Ucraina nel 2014 e la Moldavia dove, con il pretesto della difesa delle comunità russofone ha sollecitato e finanziato secessione di regioni, dove non è entrata in armi,  ottenendone de facto il controllo.

Con l’invasione dell’Ucraina la Federazione Russa ha scelto di mettersi fuori dalla Comunità internazionale violando il diritto internazionale, violazione sancita dalla condanna  da parte dell’Assemblea dell’ONU passata con 141 voti favorevoli, solo 5 negativi e 58 astenuti.

Per quanto fosse inaspettata per i più l’invasione era programmata da tempo, lo dimostra il progressivo dispiegamento  di forze sul confine, voleva essere una guerra lampo nella speranza di una sollevazione da parte dei cittadini ucraini russofoni che avrebbe portato alla destituzione del governo in  carica, invece le città a maggioranza russofona stanno ancora resistendo all’occupazione russa.  Il governo e la popolazione si è stretta intorno al suo presidente che ha dimostrato grandi capacità comunicative  ed ha trovato  il sostegno immediato dell’Unione Europea e degli Stati Uniti attraverso l’invio di armi e sanzioni che stanno portando al tracollo l’economia russa, il rublo ha perso il 30% del suo valore rispetto all’euro, che si basa principalmente  sull’esportazione di materie prime.

È difficile prevedere quale sarà il compromesso che porterà al cessate il fuoco, se il conflitto si allargherà o se potremo ancora parlare di uno stato ucraino indipendente ma possiamo vedere delle traiettorie di lungo termine che sono state innescate o accelerate da questa guerra: il fallimento della globalizzazione; transizione ecologica come soluzione; rincorsa al riarmo; gli sfollati ucraini capovolgono il paradigma dell’accoglienza; l’Unione Europea e il suo status di potenza; la disinformazione online come arma di guerra.

Questa guerra ha mostrato il fallimento della globalizzazione, la fiducia che in un mondo in cui i confini nazionali sfumavano a vantaggio degli scambi economici, l’interdipendenza economica avrebbe reso sconveniente ed irrazionale una guerra soprattutto tra i paesi sviluppati, la globalizzazione non solo ha amplificato le diseguaglianze ma non ha fiaccato il nazionalismo, probabilmente neanche la stessa Federazione Russa si sarebbe aspettata una condanna così netta da paesi che paesi con una così accentuata dipendenza energetica, in particolare Italia e Germania. Bisognerà quindi iniziare, come è già successo con le scelte europee sui semiconduttori a pensare gli scambi commerciali in termini di politica estera, come d’altronde fa la Cina da sempre. Di conseguenza la dipendenza energetica è diventata un problema non solo economico ma di sovranità, in particolare per l’Italia, questo potrebbe imprimere un’importante accelerazione alla transizione ecologica con un duplice output positivo geopolitico ed ambientale.

Inizia  ufficialmente la corsa al riarmo, gli Stati Uniti hanno spostato da tempo il baricentro strategico nel Pacifico il confine l’altra potenza mondiale, la Repubblica Popolare Cinese, senza il protagonismo americano e della Nato il progetto dell’esercito europeo diventa la vera unica alternativa con una guerra ai confini dell’Europa  e con esso la scelta di molti stati, prima la Germania poi l’Italia di portare al 2% del PIL la spesa per la difesa. Viene così  sancito il cambio di scenario, non siamo più in un mondo unipolare, in cui gli Stati Uniti sono stati il gendarme, l’uscita dall’Afghanistan e la scelta di Biden di non diventare l’interlocutore di Putin, né sono la prova, torniamo ad un assetto multipolare in cui l’Unione Europea deve definire la sue scelte di politica estera. Già l’emergenza Covid ha portato l’unione Europea ad agire in modo più coordinato e coeso, questa guerra è l’occasione per smussare le divergenze anche in ambiti come la difesa e la politica estera verso un’integrazione politica maggiore.

L’invasione ha innescato un esodo di civili, in tre settimane 3,3 milioni milioni persone hanno lasciato l’Ucraina, il 7% della popolazione totale (dati ISPI), principalmente accolti nei paesi limitrofi, gli stessi stati che non volevano partecipare alla redistribuzione per quote dei migranti arrivati via Mediterraneo si trovano ora a chiedere una presenza maggiore dell’Europa e di quote per l’accoglienza degli ucraini. Se da una parte viene denunciato un double standard, porte parte per gli europei e chiuse per chi viene da fuori, evidente anche in piena crisi lungo il confine polacco, prepariamoci a nuove ondate dal nord Africa dove la mancanza delle forniture di grano ucraino e russo inciderà in modo pesante. Dovremmo ora ripensare alle politiche migratorie per farle uscire dall’ambito dell’emergenza, sappiamo che ormai sono strutturali e come tali andrebbero regolate.

Infine abbiamo visto la pervasività della “dottrina Gerasimov” o altrimenti detta “guerra ibrida”, dal nome del generale capo dello stato maggiore russo che l’ha teorizzata e messa in atto. Essa prevede sia la guerra combattuta dagli eserciti, azioni terroristiche, quando cioè si prendono di mira i civili non l’esercito nemico, disinformazione, propaganda e finanza speculativa. Soprattutto la disinformazione si è rivelata un’arma potente nel condizionare parte dell’opinione pubblica degli stati occidentali, opinione pubblica che ha  il potere di influenzare le scelte dei governi democraticamente eletti manipolata da un governo che disprezza la libera informazione (caso Politkovskaja) e qualsiasi forma di manifestazione  pubblica di un pensiero dissidente rispetto alle scelte presidenziali.

Noi come credenti come possiamo essere “operatori di pace” in questa situazione? Prima di tutto dando il nome giusto alle cose, abbiamo una vittima ed un invasore; quindi informandoci per non essere, anche inconsapevolmente, strumenti di propaganda; terzo ricordandoci di odiare il peccato e non il peccatore quindi non entrando in una spirale maniche per cui ci sono buoni e cattivi, noi sappiamo che c’è  il peccato che alberga nel cuore degli uomini; quarto ma non ultimo ricordandoci della vedova e dell’orfano, categorie che pensavamo fossero non più contemporanee e che invece corrispondono al 90% degli sfollati, prendendo i cura di loro, ciascuno in base alle sue possibilità per dimostrare quell’amore che Cristo ci ha offerto gratuitamente.

 

Elena Ammirabile, Dottoressa in Relazioni Internazionali presso la Cesare Alfieri di Firenze, membro del Consiglio di amministrazione del Centro Evangelico di Poggio Ubertini.

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Un paio di settimane fa Susanne Waldner, insegnante alla scuola biblica IBEI, ha condotto un webinar per i coordinatori del GBU. Qui di seguito un articolo che lei stessa ha realizzato partendo dalle riflessioni presentate agli studenti.

Avanti tutta!

“Avanti tutta!”. Questa espressione descrive una nave che viaggia con la massima potenza dei motori. Figurativamente intende qualcuno che si impegna con tutte le sue forze. Come cristiani spesso viviamo così il nostro servizio per Cristo. Attività evangelistiche, studi biblici, incontri a tu per tu e altro spesso ci richiedono tante energie.

Riflettici un attimo – per quale servizio specifico hai una passione forte, dove desideri andare “Avanti tutta!”?

Infatti, siamo impegnati per il Signore dei signori e la Bibbia stessa ci invita a servirlo con “gioia” (Salmo 100:2), ma anche con “zelo” (Romani 12:11). Non esiste nessuna causa più nobile e nessun Dio più degno a cui dedicare la nostra vita!

Per questo, spesso ci pare di non avere affatto il tempo per prenderci cura di noi. Oltretutto, ciò sembrerebbe anche egoistico. Meglio curarci degli impegni affidatici, non di noi stessi!

Con l’acqua alla gola 

Questa espressione ricorda una nave danneggiata durante una tempesta. Sta per affondare, i passeggeri rischiano di annegare. Simbolicamente si descrive così una persona in estrema difficoltà, arrivata al limite.

Viaggiare sempre col massimo impegno richiede tanta energia. A questo si aggiungono delle “tempeste”, pressioni come l’ansia prima di un grande evento o tensioni con i collaboratori. Per affrontarle servono altre risorse ancora – risorse che però si esauriscono. Finiamo così “con l’acqua alla gola”.

“L’unico essere senza limiti nell’universo è Dio. Ogni altra cosa e ogni altro essere è stato creato da Dio stesso con dei limiti. E non funziona mai, non porta mai a niente di buono, cercare di vivere e servire andando oltre a quei limiti.”[1]

Tutti noi abbiamo dei limiti[2]:

  • Delle volte stiamo svolgendo dei compiti che superano le nostre competenze, semplicemente perché “se no, non lo fa nessun altro”.
  • Abbiamo a disposizione 24 ore al giorno. Non di meno, ma neanche di più. Spesso, però, riempiamo questo tempo oltre limite.
  • A volte si esauriscono le nostre energie fisiche, mentali o emotive. Ci sentiamo stanchi, scoraggiati o fatichiamo a concentrarci.
  • In alcune sfide invece ci mancano la maturità e l’esperienza necessaria. Anche certe tentazioni ci portano al limite delle nostre forze.

In quali situazioni ti sei senti con “l’acqua alla gola”? Quali sono dei limiti che a volte non rispetti?

Il porto sicuro

Quanto appena detto sottolinea la necessità di entrare ogni tanto in qualche porto per fare rifornimento di provviste, riparare eventuali danni alla nave e ripartire. Abbiamo bisogno di fermarci regolarmente, curarci e ricaricarci, per poi ripartire con nuove forze. Infatti, la Bibbia stessa varie volte ci invita a riposare.

Compreso questo, però, abbiamo afferrato la verità solo parzialmente: significherebbe un riposo nel porto solo in vista di un viaggio ancora più veloce. L’enfasi rimarrebbe sul nostro impegno e attività. Ma Dio desidera comunicarci un’altra cosa!

Il comandamento sul sabato (Esodo 20:10-11) fa riferimento a Dio che riposa dopo la creazione del mondo. L’idea, quindi, non è quella dell’uomo che dopo tanta fatica si merita un attimo di respiro per poi ripartire immediatamente. Ma è un riposo regalato dalla grazia divina – perché Lui, non noi, ha già fatto tutto. Infatti, già i primi uomini potevano godersi un creato perfetto senza aver mai lavorato.

Tanti altri passi biblici ci invitano similmente a riposare prima di tutto nella consapevolezza che le cose dipendono dall’opera di Dio, non dalle nostre attività e dalle nostre forze limitate. Il creatore del mondo agisce ancora oggi. Questo è un porto sicuro, non dove arrivare con le ultime nostre forze, ma dal quale partire! 

È proprio questo il messaggio del vangelo: la verità che Cristo, non noi, ha già fatto tutto, offre riposo e sicurezza. I cristiani a un certo punto della storia hanno cominciato a fermarsi e a incontrarsi la domenica, quindi il primo giorno della settimana ebraica, ricordando il sacrificio, ma anche la risurrezione di Cristo: hanno iniziato la settimana col riposo, partendo dal porto sicuro dell’opera già compiuta di Cristo.

Viaggiare a gonfie vele

Prendersi cura di sé, in senso biblico, significa ricordarsi che né la nostra salvezza, né il nostro servizio per Dio dipendono da noi: Cristo ha già provveduto per tutto e continua a operare in e attraverso di noi. Partendo da questo porto sicuro la nostra vita non è più una barca a remi da spingere avanti con le nostre forze, ma un veliero che deve solo spiegare le vele per essere spostato dal vento

Con questa consapevolezza possiamo proseguire il nostro viaggio a gonfie vele – svolgendo le nostre attività con gioia e zelo, ma anche riconoscendo e rispettando i nostri limiti: 

  • …imparando ad accontentarci di risultati imperfetti, laddove le nostre capacità sono insufficienti
  • …cancellando delle attività quando la nostra agenda è troppo piena
  • …regalandoci dei momenti di riposo fisico o mentale per ricaricare le nostre energie
  • …cercando un compagno di viaggio più maturo di noi stessi per ricevere incoraggiamento, accompagnamento e stimoli per crescere. 

Affida i tuoi limiti al Dio illimitato che arriva ai Suoi scopi e realizza i Suoi piani anche nella nostra limitatezza.

Nel giro della prossima settimana, prenditi un momento speciale nel “porto sicuro” con Dio, godendo semplicemente il fatto che le cose non dipendono da te, ma da Lui che ha già fatto tutto!

Susanne Waldner

______________________

[1] Tripp, Paul 2020. Lead: 12 Gospel Principles for Leadership in the Church. Wheaton: Crossway, p. 72.

[2] Ibid. 73-86,

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(di Filippo Falcone)

Quando un secolo fa esatto T. S. Eliot pubblicava The Waste Land (La Terra Desolata), l’Europa era da poco uscita dal primo conflitto mondiale e il poeta era ormai entrato nel secondo lustro di quel matrimonio con Vivien Eliot che egli notoriamente descrive come “utter hell” (“un vero e proprio inferno”). Se Eliot in “Tradition and the Individual Talent” invoca l’impersonalità dell’opera, il poema si fa carico in pieno delle ansie interiori universali dell’uomo e dunque di quelle dell’autore. La Terra Desolata è il manifesto poetico di quella che Auden chiama “the age of anxiety” (“l’età dell’ansia”). L’assenza di significato, la frammentazione dell’io, il relativismo gnoseologico e la ricerca mai compiuta di riferimenti, di una tradizione che dia vita segnano qui lo scarto più profondo con il Positivismo e ne annunciano la fine. La versificazione fatta di frammenti e segmenti giustapposti in cui tutta la tradizione letteraria si sovrappone in un continuum temporale ben riflette la frammentarietà dell’uomo e della sua esistenza, nonché una visione interamente nuova del tempo e della storia.

Nell’ultima sezione del poema, “What the Thunder Said” (“Ciò che disse il tuono”), Eliot restituisce immagini di morte e aridità. Il titolo della sezione è tratto da un’antica leggenda della fertilità indiana in cui ogni essere trova la forza per riportare la vita, ascoltando la voce del tuono. Là dove la terra desolata di Weston è permeabile a tale speranza, in Eliot essa si tramuta in tuono lontano. L’io poetico è alla ricerca di acqua, che dà vita e significato, in una terra desolata e sterile, dove vi è soltanto roccia e dove le cavità non contengono sorgenti, ma sono bocche piene di denti cariati:

 

Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia[1]

Il tuono è rumore di morte. Esso non porta acqua nella terra arida, ma annuncia soltanto che “Colui che viveva” — Cristo — “ora è morto” e, di conseguenza, “Noi che vivevamo” — l’umanità — “stiamo ora morendo”.

Il verso si fa frammentato, come il significato. Segmenti di immagini si sovrappongono fino a diventare nel verso singola parola (“And water”, “A spring”), che si carica dell’anelito, del bisogno insoddisfatto, per lasciare poi il posto alla cicala, cantore della siccità, e da ultimo all’onomatopea, puro suono disincarnato, come il suono del tuono che non è realtà, ma soltanto lontana allusione:

 

Se vi fosse acqua
E niente roccia
Se vi fosse roccia
E anche acqua
E acqua
Una sorgente
Una pozza fra la roccia
Se soltanto vi fosse suono d’acqua
Non la cicala
E l’erba secca che canta
Ma suono d’acqua sopra una roccia
Dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini
Drip drop drip drop drop drop drop
Ma non c’è acqua

La scena ora cambia. Si apre uno squarcio sui due discepoli sulla via di Emmaus. L’io poetico si identifica con uno dei due. Colui che è morto è là accanto all’altro, ma non si rivela come il vivente. La sua presenza non è risposta, ma interrogativo: “Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?”.

 

Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
Io non so se sia un uomo o una donna
– Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?

Non trovando risposta là dove la cerca, lo sguardo poetico volge ora a oriente. Forse troverà acqua nel Gange. Forse la religiosità orientale saprà dare significato, la sua tradizione riferimenti, vita rigenerativa. Anche là, tuttavia, altro non vi è che siccità e attesa della pioggia, speranza distante e disattesa:

 

Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate
Attendevano pioggia, mentre le nuvole nere
Si raccoglievano molto lontano, sopra l’Himavant.

Una volta di più, la ricerca rimane incompiuta e si declina in figura del suono. Come la spiritualità occidentale nell’onomatopea, quella orientale sfuma qui nell’allitterazione:

Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih

 

L’anno 1927 segna la conversione di Eliot al cristianesimo. Come Barry Spurr non manca di notare[2], essa è tutto fuorché improvvisa e trionfale. È piuttosto graduale, progressiva e non scevra di dubbi, lacerazione e ricerca. Il suo è il viaggio dei magi, viaggio pieno di asperità, sofferenza e ripensamento, ma anche viaggio fatto di un’anticipazione nuova, accompagnata da nuove immagini narrative, ora lineari, che qualificano la versificazione nel segno dell’armonia:

 

Fu un arduo avvento per noi,
Proprio il tempo peggiore dell’anno
Per un viaggio, e per un viaggio lungo come questo:
Le strade affondate e la stagione rigida,
Nel cuore fitto dell’inverno.»
E i cammelli irritati, gli zoccoli doloranti, restii,
Che si stendevano sulla neve che si andava sciogliendo.
Ci furono momenti in cui rimpiangemmo
I palazzi estivi sui pendii, le terrazze,
E le fanciulle di seta che portano i sorbetti.
Poi i cammellieri che sbottavano in bestemmie e lamentele
E se ne scappavano, e rivolevano i loro liquori e le loro donne,
E i falò notturni che si spegnevano, e l’assenza di ripari,
E le città inospitali, e ostili le cittadine,
E sporchissimi i paesini che vendevano a prezzi esosi:
Sono stati momenti durissimi per noi.
Alla fine preferimmo viaggiare intere nottate,
Dormendo a tratti,
Con le voci che ci cantavano nelle orecchie, che dicevano
Che era tutta una pazzia.

 

Sulle rive del Gange prosciugato Eliot aveva lasciato il lettore nella terra desolata. Ora da Oriente lo riconduce idealmente a ritroso. La terra sterile, arida, terra di morte e desolazione lascia il posto a una valle temperata, piena di vegetazione, dove scorre quell’acqua che dà vita e significato:

 

Poi all’alba scendemmo in una valle temperata,
Umida, sotto la coltre di neve, odorante di vegetazione,
Con un ruscello che scorreva ed un mulino ad acqua che picchiava il buio.

 

Oltre all’acqua, elemento pervasivo che, muovendo le pale del mulino, percuote le tenebre, si vedono “[…] tre alberi sotto l’orizzonte”, rimando al Calvario. La ricerca ora si compie:

E arrivammo di sera, senza un istante di anticipo
Trovando il luogo; fu (a dir poco) soddisfacente.

Tutto questo è successo molto tempo fa, lo ricordo,
E lo farei ancora, ma appuntatevi
Questo appuntatevi
Questo: siamo stati condotti per tutta quella strada per
Una Nascita o per una Morte? Vi fu una Nascita, certamente,
Ne abbiamo avuto la prova e mai un dubbio. Avevo visto le nascite e le morti,
Ma avevo creduto che fossero diverse; questa Nascita fu
Una dura e amara agonia per noi, come la Morte, la nostra morte.
Tornammo nei nostri possedimenti, in questi Regni,
Ma non più a nostro agio qui, coi vecchi ordinamenti,
Tra un popolo straniero aggrappato ai propri dèi.
Sarei lieto di un’altra morte.

 

L’esito della ricerca dei magi viene definito “soddisfacente”, ma l’io poetico si interroga su quale fosse la ragione del loro essere condotti fino a quel luogo. È per trovare la vita, rappresentata da quell’acqua tanto agognata, o per trovare la morte? Certo di fronte a loro vi è una Nascita, la fonte stessa della vita, ma parteciparvi comporta una morte, la loro morte al proprio io. I magi fanno ritorno ai propri regni, alla vecchia dispensazione dell’uomo naturale e della legge, là dove l’uomo tiene stretti i propri dèi, idoli dell’io. Qui l’io poetico non si sente più a casa, ma desidera un’altra morte. Solo così può conoscere la vita.

L’incontro con Cristo è per Eliot sofferto, perché il poeta deve percorrere lo spazio interiore che lo separa dalla valle di Betlemme, ma è sofferto anche perché è scontro con lo scandalo, pietra d’inciampo che presuppone la decostruzione di ogni identità, la rinuncia a ogni prerogativa di giustizia e forza, al fine di partecipare alla vita di Cristo, che proletticamente è già offerta alla croce (vd. “tre alberi sotto l’orizzonte”). La vita di Cristo prelude alla sua morte, la sua morte alla vita.

Le identità e gli idoli dell’io continuano a dominare le nostre vecchie dispensazioni e ciò che sembrava eradicato per sempre torna a fare capolino, ricordandoci quello che C. S. Lewis chiama il “grande peccato” dell’uomo, l’egocentrismo. I frutti dell’io sono ben noti – odio, contese, dissidi, identitarismi, nazionalismi, alienazione, frammentazione, perdita di significato, aridità, solitudine e morte. È ancora tempo per l’uomo di percorrere la strada lunga e impervia che porta a Betlemme e trovare là la vita e con essa una morte, la sua morte.

 

 

 

[1] I testi poetici sono tratti da T. S. Eliot, Poesie, curate e tradotte da Roberto Sanesi, Milano, Bompiani, 2000.

[2] B. Spurr, «”Anglo-Catholic in Religion”: T. S. Eliot and Christianity», in A Cambridge Companion to T. S. Eliot, New York, Cambridge University Press, 2017, p. 188.

 

Filippo Falcone, insegna Inglese in un liceo di Domodossola; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con Edizioni GBU; ha curato per Edizioni GBU il volume Il cielo nell’ordinario, dedicato al poeta inglese George Herbert.

L’articolo All’alba scendemmo in una valle temperata proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/allalba-scendemmo-in-una-valle-temperata/

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(di Massimo Rubboli)

Le immagini in diretta dell’invasione dell’Ucraìna, che ci hanno lasciati sgomenti e inorriditi, sono state così drammatiche da attirare tutta la nostra attenzione sulle centinaia di morti e migliaia di profughi. I carri armati dell’esercito russo, che travolgevano persone e cose schiacciando i princìpi del diritto internazionale e dell’autodeterminazione dei popoli, hanno fatto dimenticare altri aspetti di questa guerra, come la fornitura di armi dall’Italia alla Federazione russa in violazione dell’embargo deciso dal Consiglio europeo dopo l’invasione della Crimea. Un aspetto che nei dibatti sul conflitto tra Russia e Ucraìna è quello della dimensione religiosa.

 

La dimensione religiosa

Vale pena ricordare che negli ultimi due decenni la posizione della Chiesa ortodossa russa ha subito una profonda trasformazione che l’ha portata ad assumere un ruolo sempre più importante nella vita pubblica e ad esercitare una profonda influenza nella società russa. Il cambiamento – dal rifiuto di un coinvolgimento della chiesa in politica di Alessio (Alexsej) II, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, alla collaborazione sempre più stretta con lo stato con il patriarca Cirillo (Kirill) I, intronizzato nel gennaio 2009 – non ha seguito un percorso lineare ma il risultato è inequivocabile.

Cirillo, in realtà, raccolse l’invito a potenziare la “cooperazione della Chiesa con la stato e la società civile, anche nel campo del miglioramento delle leggi” rivolto da Alessio pochi mesi prima della sua morte al Concilio dei vescovi[1]. Sotto la sua energica guida, la Chiesa ortodossa russa è diventata uno dei principali alleati e sostenitori del governo russo e, in particolare, della sua propaganda patriottica ottenendo in cambio il riconoscimento di uno status privilegiato.

Da strumento nelle mani dello Stato, come fu sotto Stalin e durante la II guerra mondiale[2], la Chiesa ortodossa russa è arrivata ad essere un agente autonomo e indipendente, la cui influenza si fa sentire in aree diverse come l’istruzione pubblica e le forze armate. Essa ha anche svolto un ruolo centrale nella reinterpretazione della memoria storica che, a partire falla riabilitazione degli zar, presenta le rivoluzioni del febbraio e ottobre 1917 come una “tragedia nazionale russa”[3] e investe di simbolismo religioso siti storici come i lager staliniani[4].

Inoltre, il patriarca Cirillo ha voluto e ottenuto il riferimento a Dio nella revisione costituzionale approvata mediante referendum popolare del 1° luglio 2020 e vigente dal successivo 4 luglio[5]. La maggioranza dei commenti si è soffermata sulla cancellazione del vincolo dei due mandati che permetterà a Putin di restare al potere fino al 2036 e ha trascurato la dimensione valoriale composta da “Dio, patria e famiglia”, che riserva una posizione di privilegio alla Chiesa ortodossa e, praticamente, reintroduce il legame bizantino tra Chiesa e Impero[6]. Come ha osservato Giovanni Codevilla, uno dei principali studiosi di storia delle relazioni tra Chiesa e Stato nell’Europa Orientale, “si rinnova tacitamente in tal modo tra il patriarca e il Presidente quel contratto a prestazioni corrispettive che è tipico del giurisdizionalismo: da un lato il patriarca garantisce la legittimazione della sovranità dello Stato e dall’altro Putin concede una posizione privilegiata alla Chiesa”[7].

Per quanto riguarda il campo dell’istruzione pubblica, i tentativi di introdurre l’insegnamento della tradizione religiosa ortodossa che non avevano avuto successo fino al 2008 ebbero un esito positivo durante la presidenza Medvedev[8] quando, con un decreto governativo del gennaio 2012, la Federazione russa reintrodusse l’insegnamento religioso con il curriculum “Fondamenti della cultura ortodossa”[9]. Questo curriculum è centrato sull’educazione patriottica, che si fonda su tre elementi: la riabilitazione dei simboli della madrepatria e della memoria storica, la centralità della tradizione religiosa ortodossa e lo sviluppo di un patriottismo militarizzato che guarda con nostalgia al passato sovietico.

L’avvicinamento della Chiesa alle forze armate, condotto sotto lo slogan “L’esercito è sempre spirituale”, ha portato nel 2009 all’introduzione del ruolo del cappellano militare. La giustificazione della militarizzazione dell’educazione patriottica si basa sull’affermazione che la chiesa ha sempre benedetto i cristiani che combattono in una “guerra giusta”, cioè in difesa della madrepatria; inoltre, come ha affermato il patriarca Cirillo, “il credente sacrifica la sua vita più facilmente del non credente, perché sa che la vita umana non finisce con la fine di questa vita[10].

La legittimazione della guerra in difesa della madrepatria, identificata con la Madre Russia, comporta anche il sostegno delle operazioni militari russe all’estero. Ad esempio, la partecipazione dei militari russi alla guerra in Siria è stata descritta da Cirillo come una “missione storica”[11] in una guerra giusta e difensiva[12].

Le prese di posizione ultraconservatrici del patriarca di Mosca nel campo dei diritti umani lo hanno spesso portato a entrare in conflitto con il patriarca greco ortodosso di Costantinopoli su questioni riguardanti l’Ucraìna e l’Europa occidentale, affiancandosi così alla sempre più aggressiva politica estera sella Russia nei confronti di questi paesi.

 

Scisma ortodosso del 2018

Lo scontro con il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che risale al 2014 con l’occupazione russa della Crimea, arrivò ad una rottura delle relazioni tra il patriarca di Mosca e il patriarca ecumenico Bartolomeo I alla fine del 2018, quando il cosiddetto Concilio di riconciliazione, riunito nella Basilica di Santa Sofia, portò ad una riunificazione tra la Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev e la Chiesa ortodossa autocefala ucraina, eleggendo Epifanio primate della nuova Chiesa nazionale ortodossa; nel gennaio 2019, il Patriarcato di Costantinopoli riconobbe l’autocefalia, cioè il principio di autodeterminazione e di vera e propria indipendenza, della nuova Chiesa ortodossa dell’Ucraina. Il presidente ucraino Petro Poroshenko diede l’annuncio alla nazione, con toni solenni: “Questo giorno resterà nella storia come il sacro giorno della creazione della chiesa ortodossa locale autocefala di Ucraina, il giorno in cui finalmente riceviamo la nostra indipendenza dalla Russia”. Il Patriarcato di Mosca dichiarò “scismatica” la nuova Chiesa e riconobbe una diversa Chiesa ortodossa ucraina. Per Cirillo si trattò di una pesante sconfitta, con una perdita di territorio, numero di fedeli e autorevolezza sul piano internazionale.

Oggi, la posta in gioco è alta perché la guerra lanciata da Putin per riaffermare l’influenza russa nella regione è anche uno scontro sul futuro delle chiese ortodosse russe e ucraine. La chiesa russa non ha nascosto di ambire ad unire tutte le chiese sotto il patriarcato di Mosca, per controllare così anche luoghi sacri dell’ortodossia, come il Monastero delle grotte, fondato nel 1051 dai monaci Antonio e Teodosio, che sovrasta Kiev e milioni di credenti in Ucraina.

 

Divisioni nel fronte ortodosso

Non deve quindi sorprendere la diversa reazione delle chiese ortodosse russe e ucraine all’aggressione voluta da Putin. Dopo che il presidente Putin aveva annunciato la “speciale operazione militare” contro l’Ucraìna, Cirillo è rimasto in silenzio; poi, ha inviato un blando messaggio a tutti i fedeli della Chiesa ortodossa russa, invitando le parti coinvolte nel conflitto a “fare il possibile per evitare perdite tra la popolazione civile”, assistere i rifugiati e i bisognosi d’aiuto. Non solo non ha chiesto esplicitamente la fine delle operazioni militari, ma ha anche sostanzialmente avallato le giustificazioni storiche e ideologiche dell’invasione usate da Putin nei suoi ultimi interventi. Difficile non riconoscere che Cirillo ha reso la chiesa un agente del potere politico; come ha scritto Sergei Chapnin, “Oggi è del tutto evidente che Cirillo non è pronto a difendere il suo gregge – né il popolo dell’Ucraìna né quello della Russia – contro l’aggressivo regime di Putin. La sofferenza umana non è una delle sue priorità”[13].

Al contrario di Cirillo, le due principali chiese ortodosse ucraine si sono opposte apertamente all’invasione: Onufrio, metropolita di Kiev e primate della Chiesa ortodossa ucraina fedele a Mosca, e Epifanio I hanno entrambi chiesto a Putin di porre fine alla guerra.

Onufrio ha paragonato l’invasione russa all’omicidio di Abele da parte di Caino, affermando che, “purtroppo, la Russia ha iniziato azioni militari contro l’Ucraina: in questo momento fatidico vi prego di non farvi prendere dal panico, di essere coraggiosi, di dimostrare amore per la patria e amore vicendevole. In questo momento tragico, esprimiamo amore speciale per i nostri soldati, posti a guardia, protezione e difesa della nostra terra e del nostro popolo”. Il 2 marzo, a  Kharkiv, anche la chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca è stata in parte distrutta[14].

Domenica 27 febbraio, in un sermone teletrasmesso, il metropolita Epifanio ha esplicitamente sostenuto la resistenza: “Cari fratelli e sorelle, preghiamo e agiamo!”. Il nostro eroico popolo sta difendendoci dall’attacco della Russia, che sta gettando i suoi soldati e le sue armi sui nostri villaggi e le nostre città, e ogni ora della nostra resistenza motiva sempre più persone nel mondo a sostenere l’Ucraìna”[15].

Nonostante questa posizione del suo patriarca, all’interno della Chiesa ortodossa russa è emerso un piccolo ma significativo dissenso: un gruppo di 233 sacerdoti e diaconi ha sottoscritto un appello che definisce la guerra “fratricida” e invita al cessate il fuoco: “Piangiamo il calvario a cui i nostri fratelli e sorelle in Ucraina sono stati immeritatamente sottoposti. […]  Ci rattrista pensare all’abisso che i nostri figli e nipoti in Russia e Ucraina dovranno colmare per ricominciare ad essere amici, a rispettarsi e ad amarsi […]”. In attesa della prossima Domenica del Perdono, il documento ricorda che «le porte del cielo saranno aperte a tutti, anche a coloro che hanno peccato pesantemente, se chiederanno perdono a coloro che hanno disprezzato, insultato o ucciso per mano loro o per loro volere» e che “nessun appello non violento per la pace e la fine della guerra dovrebbe essere respinto con la forza e considerato come una violazione della legge, perché questo è il comandamento divino: Beati gli operatori di pace”. L’appello si conclude con un invito al dialogo, perché «solo la capacità di ascoltare l’altro può dare la speranza di una via d’uscita dall’abisso in cui i nostri Paesi sono stati gettati in pochi giorni”[16]. Altre firme si stanno aggiungendo.

[1] “Regno-attualità”, n. 22 (2008), p. 733.

[2] Cfr. Adriano Roccucci, Stalin e il patriarca. La Chiesa ortodossa e il potere sovietico, Einaudi, Torino 2011.

[3] Marlène Laruelle, Commemorating 1917 in Russia: Ambivalent State History Policy and the Church’s Conquest of the History Market, “Europe-Asia Studies”, 71 (2) 2019, pp. 249–267.

[4] Zuzanna Bogumił, Dominique Moran, Elly Harrowell, Sacred or Secular? ‘Memorial’, the Russian Orthodox Church, and the Contested Commemoration of Soviet Repressions, “Europe-Asia Studies”, 67 (9) 2015, pp. 1416–1444.

[5] Per un’analisi della revisione costituzionale, v. i contributi di G. Lami, A. Di Gregorio, M. Ganino, I. Galimova, V. Nikitina, G. Codevilla e A. Vitale in “Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società”, 2020, n. 1, pp. 133-257.

[6] Su questo tema, v. Giovanni Codevilla, Chiesa e Impero in Russia. Dalla Rus’ di Kiev alla Federazione Russa, Jaca Book, Milano 2011.

[7] Cit. in Cristina Carpinelli, La “nuova” Costituzione russa e il suo codice di civiltà, “Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società”, 2021, n. 1, pp. 67.

[8] Dmitry Medvedev, “Speech at the Joint Session on Cooperation between the State Authorities and Religious Organizations” (11/03/2009), https://ift.tt/VHDBIjs.

[9] Cfr. Giovanni Codevilla, Lo zar e il patriarca. I rapporti tra trono e altare in Russia dalle origini ai giorni nostri, La Casa di Matriona, Milano 2008, p. 423 ss.

[10] Kirill, “The Patriarch’s Address to the Attendants at the WW II Memorial” (11/09/2011), http://www.patriarchia.ru/db/text/1620086.html (visto il 25/02/2022). Cfr. Alicja Curanović, The Sense of Mission in Russian Foreign Policy: Destined for Greatness!, Routledge, New York 2021.

[11] Ria Novosti, “The Church Considers the Verdict on Sokolovskiy to Be Humanistic” (11/05/2017), http://ria.ru/20170511/1494083853.html (visto il 25/02/2022).

[12] Rossija 24, “The Christmas Speech of the Patriarch Kirill” (07/01/2016) https://www.youtube.com/watch?v=blsVrPWAAuQ (visto il 25/02/2022).

[13] Sergei Chapnin, Patriarch Kirill and Vladimir Putin’s Two Wars, “Public Orthodoxy”, https://ift.tt/n804C6Z.

[14] Dall’inferno di Kharkiv: Colpiti uffici di curia e la chiesa ortodossa russa, “Vatican News”, 3 marzo 2022, https://ift.tt/5j9XUwx (visto il 3 marzo 2022).

[15] Also at Stake in Ukraine: the Future of Two Orthodox Churches, “New York Times”, 2 marzo 2022, https://ift.tt/JgOZp8w.

[16] I sacerdoti ortodossi russi: nessun appello alla pace dovrebbe essere respinto, “Vatican News”, 2 marzo 2022, https://ift.tt/Bf6sKnN (visto il 2 marzo 2022).

Massimo Rubboli è stato docente di Storia dell’America del Nord e di Storia del Cristianesimo presso l’Università di Genova, Macerata e Firenze.

L’articolo La guerra santa di Putin e Kiril proviene da DiRS GBU.

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