Delegazione italiana alla World Assembly
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di Marco Piovesan, studente GBU

«… voi, che prima non eravate un popolo, ma ora siete il popolo di Dio» (1Pietro 2:10a)

Avreste mai immaginato che in un solo regno potessero convivere 168 culture diverse? Ebbene, nel regno di Dio funziona così. Sì, a volte ripensiamo al fatto che in Cristo siamo stati chiamati da ogni popolo e nazione, ma spesso non riusciamo veramente a concepire l’entità di questa realtà. Con la World Assembly di IFES, invece, possiamo toccare con mano il significato autentico di essere un solo popolo, membra dell’unico corpo di Cristo.

La World Assembly è un evento che si tiene ogni quattro anni. Ha lo scopo di riunire delegazioni da tutti i movimenti nazionali che hanno il testimoniare Cristo all’università come ministero (per esempio il GBU in Italia) per prendere decisioni per la fellowship globale. L’aspetto burocratico, però, è poco più di un pretesto per vivere una settimana di condivisione ed edificazione tra fratelli e sorelle che condividono la stessa missione.

Quest’anno, l’appuntamento era fissato per i primi di agosto a Jakarta, in Indonesia. Partecipare a questo evento come studente del GBU è stato qualcosa di cui Dio si è servito in modo incredibile. Un articolo non potrebbe mai contenere tutta la ricchezza spirituale che Dio ha saputo provvedere, tuttavia non posso non condividere alcuni insegnamenti fondamentali.

Non siamo soli nello zelo

Come studenti del GBU, penso che diverse volte ci siamo ritrovati davanti agli occhi l’immensa missione di condividere Gesù agli studenti delle nostre università, Tuttavia, siamo stati scoraggiati dal vedere qualcosa che va oltre la nostra portata. Alla luce di questo scoraggiamento, troviamo una sorta di equilibrio in cui adagiarci.

Conoscere altri studenti e vedere lo zelo per Dio di cui sono ripieni ha cambiato completamente il mio modo di vedere queste difficoltà. Sì, anche loro vedono questa missione come qualcosa di immenso, ma hanno Dio al centro del loro cuore al punto che pensano ogni secondo come un’opportunità per parlare del vangelo.

Questo naturalmente richiede spesso di impegnare le proprie serate con eventi, studi biblici, riunioni organizzative e incontri a tu per tu, ma il desiderio di vedere Cristo glorificato supera il desiderio personale di avere tempo per se stessi. Insomma, ho visto in questi studenti la piena consapevolezza che vale la pena di sacrificarsi per Dio e che il vero modo di ragionare è quello di ragionare con una prospettiva eterna.

«Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.» (1Corinzi 15:58)

Non siamo soli nel servizio

Una battaglia che come studente ho vissuto negli ultimi due anni è stata quella di voler organizzare qualche evento all’università, ma di trovare sempre troppo poche persone nel gruppo GBU per poterlo realizzare.

Alla World Assembly una sera ho condiviso questa battaglia con le persone con cui ero seduto a tavola e la risposta che ho ricevuto è stata subito: “Invitaci, possiamo venire come aiuto dall’estero per partecipare e organizzare una settimana di eventi.” Sono stato spiazzato dalla semplicità di questa frase, ma mi ha fatto comprendere che essere un unico popolo in Cristo non significa solo salutarsi e raccontarsi belle esperienze una volta ogni quattro anni: possiamo usare questo immenso privilegio per lavorare in stretta collaborazione, venirci incontro nei bisogni reciproci e affaticarci insieme per veder avanzare il regno di Dio.

A questo punto mi sento caricato della responsabilità di fare un uso opportuno del dono così prezioso di avere veri collaboratori in Cristo con la stessa prospettiva.

Non siamo soli nelle sofferenze

Senza dubbio in ogni angolo della Terra si stanno affrontando sfide diverse, e la World Assembly è stata inevitabilmente un’occasione per ascoltare storie di lotte e sofferenze specifiche delle diverse nazioni. Abbiamo discusso di problemi di giustizia sociale, di salute mentale e di stress dato dal contesto universitario.

Penso, però, che quello che più deve far riflettere è la persecuzione (non solo psicologica) a cui tanti cristiani sono sottoposti. Ritrovarmi a mangiare a tavola con credenti che letteralmente ogni giorno espongono la loro vita alla morte per amore di Cristo, ha fatto nascere in me molte domande. L’unico modo in cui loro possono vivere è quello di incarnare il vangelo nelle loro vite con il loro comportamento, al punto che questo possa far nascere nelle persone attorno il desiderio di porre domande sulla fede cristiana.

Mi chiedo se, nel contesto italiano in cui siamo ben lontani dal rischiare la vita, ho lo stesso desiderio di impersonare Cristo in ogni ambito della mia vita. Sono veramente disposto allo stesso sacrificio per Dio a cui questi fratelli sono esposti ogni giorno? Anche per me, come per loro, «il vivere è Cristo e il morire guadagno» (Filippesi 1:21)?

C’è, però, qualcosa di estremamente incredibile in questi esempi: Cristo è talmente prezioso che vale la pena di dare la nostra stessa vita pur di restare insieme a Lui.

Non siamo soli perché Dio è con noi

Certamente la World Assembly non solo è stata ricca di tutti questi insegnamenti di carattere generale, ma è stata anche un’occasione per riflettere dal punto di vista personale. A proposito di questo c’è un concetto che è stato ribadito tantissime volte e di cui non posso più fare a meno: prendere consapevolezza della presenza di Dio nella nostra vita.

Tantissime volte nella Bibbia compare la promessa di Dio “Io sarò con te”, ma spesso ci capita di non considerare questo nella quotidianità. Ho avuto modo di parlare con diverse persone che hanno servito in IFES per decenni. Un aspetto su cui ciascuno di loro insisteva dopo così tanti anni di ministero è che la relazione personale con Dio è la base di tutto quello che facciamo. Non possiamo pensare di servire Dio senza essere in comunione con Lui. Abbiamo bisogno di ricercare Lui e la Sua presenza: essere consapevoli che Lui è con noi può trasformare radicalmente il nostro modo di vivere per Lui.

«O uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te il SIGNORE, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?» (Michea 6:8)

La vita cristiana e anche il servizio cristiano sono un continuo camminare fianco a fianco con Dio.

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(Giacomo Carlo Di Gaetano)

Ascrivere il filosofo torinese scomparso in questi giorni alla categoria di inizio di terzo millennio, definita dall’ossimoro “atei devoti” è operazione che va incontro e deve superare due difficoltà.

La prima consiste nel fatto che proprio il filosofo ha rifiutato per sé l’etichetta di “ateo” («lasciate alle spalle le pretese di oggettività della metafisica, oggi nessuno dovrebbe poter dire che “Dio non esiste”», Credere di credere, p. 66), creando così un interessante spazio interpretativo a cui abbiamo richiamato spesso il pensiero evangelico. Il pensiero evangelico, infatti, si è spesso fatto distrarre dall’ateismo angloamericano segnato dal Perché non sono cristiano (1927) di Bertrand Russell e dalle sue propaggini che giungono fino ai pensatori del new atheism (Dawkins, etc) e si è dedicato quasi esclusivamente alla risposta evangelicals a questo ateismo (tutta l’apologetica degli ultimi vent’anni, incluso nomi cari anche a chi scrive, da John Lennox ad Alister McGrath).

Al contrario, sarebbe stato ed è ancora necessario identificare questo spazio rappresentato da pensatori pregni di teologia (non solo cattolica) che maneggiavano abilmente le risultanze della critica biblica germanica, anche se non aggiornata (Bultmann su tutti) che conoscevano la dialettica barthiana e gli appelli di Bonnhoeffer (letti però solo ed esclusivamente in chiave filosofica e non teologica) e citavano la Bibbia con maestria. Ebbene, di questa schiera di pensatori, soprattutto italiani, Vattimo è stato sicuramente il più illustre, e penso soprattutto al Vattimo dell’ultima fase del suo pensiero, quella che si apre con lo straordinario testamento di Credere di credere (1996).

Lo sforzo interpretativo stava e sta qui nel cogliere la radice incredula di un ritorno al cristianesimo (oggi tutti i necrologi parlano per Vattimo di un ritorno al cattolicesimo), una radice che appare però dopo un faticoso lavoro di sfrondamento di una rigogliosa vegetazione di pensiero cristiano e di interpretazioni evangeliche.

Ma prima di fare qualche altro passo in questo spazio interpretativo (ripetiamo: Vattimo come rappresentante di un pensiero italiano sostanzialmente “ateo” e incredulo), spieghiamo la seconda ragione per la quale l’ascrizione del filosofo torinese agli “atei devoti” apparirebbe complicata e contestabile. Questa ragione sta nell’aggettivo “devoto”, quello che costruisce l’apparente ossimoro (come se non si desse una devozione laica e atea – Russell docet). Ebbene nella temperie che partorì l’idea di una posizione teorica in cui sarebbe possibile “professare” una visione del mondo etsi Deus non daretur, e nello stesso tempo rendere tutto l’omaggio a una confessione cristiana, il cattolicesimo, la devozione era il portato di un’impostazione sostanzialmente politica. E Vattimo non era certo da contare in quella parte politica a cui facevano riferimento Giuliano Ferrara, piuttosto che Marcello Pera, tanto per fare due nomi di atei devoti. Il nichilismo e il pensiero debole, la pluralità dei valori, l’apertura al mondo LGBT e tanto altro ancora portavano Vattimo in tutt’altra direzione rispetto a chi stava preparando allora, quando Vattimo stesso parlava di un ritorno della religione, la strada oggi conclamata del pacchetto “Dio, patria e famiglia”.

Eppure, ed è questa la nostra proposta, entrambi i partiti riconoscevano la necessità di pensare, alla “radice” della realtà sociale e culturale in cui si muovevano, il cristianesimo, inteso come “eredità”: che si trattasse di dire ai liberali che “devono” dirsi cristiani (Pera), oppure di segnalare come dopo l’oblio dell’essere e il superamento della metafisica, il cristianesimo e in esso il cristianesimo cattolico era ciò che la secolarizzazione ci lasciava come spazio in cui continuare a pensare il modo in cui sostituire la morte di Dio annunciata da Nietzsche, per entrambi, a sinistra come a destra, non si poteva fare a meno di non potersi non dire o, necessariamente dirsi, cristiani.

Dietro entrambe le proposte, così divaricate, non si può non scorgere la lezione del Perché non possiamo non dirci cristiani di Benedetto Croce (1942). Sì, Vattimo è stato un devoto, nell’accezione culturale e teorica in cui si pensa al cristianesimo come garanzia della civiltà occidentale, secolarizzata, postmoderna.

Certo c’è una sfumatura che distingue la devozione di destra da quella di sinistra, di Vattimo, per esemplificare. Mentre la prima devozione si estrinseca nel tema dell’identità (Dio patria e famiglia) e, potremmo semplificare, si cristallizza nel “nome” di cristiani (sono X, sono Y, sono cristiana/o), nel secondo caso, quello del ritorno al cristianesimo cattolico di Vattimo, si può parlare di una devozione che prende la strada del fare, un vero rappresentante, il filosofo torinese, di un paradigma tutto da delineare ma ben presente nella cultura italiana, quello dei cristiani di e nei fatti: «l’eredità cristiana che torna nel pensiero debole è anche e soprattutto eredità del precetto cristiano della carità e del suo rifiuto della violenza» (Credere di credere, p. 37). Non è un caso che il risultato ultimo di una secolarizzazione che libera il cristianesimo (e gli stesi Vangeli) da una visione violenta e prepotente della verità è la caritas, quello che resta della kenosis evangelica, l’essenza della rivelazione e quello che viene assegnato come compito a chi vuole vivere da devoto, indipendentemente dal fatto se Dio esista, sia vivo o parli e si faccia sentire!

Cristiani nel nome e cristiani nei fatti sono due categorie con le quali il pensiero evangelico deve confrontarsi. Deve comprendere in che modo il termine cristiano viene ripreso e se questa ripresa riesca in qualche modo a rimuovere la parvenza di incredulità (questo nel caso di Vattimo che, come detto sopra, nega di essere contato tra gli atei) quando ci si dedica a un lavoro interpretativo ed ermeneutico – naturalmente caro a Vattimo ­- delle fonti cristiane. È qui, quando si va a leggere il modo in cui l’essere cristiani di oggi si collega a Colui che dà il nome ai suoi discepoli (come accadde ad Antiochia, Atti 11) che emerge l’ipotesi di posizioni sostanzialmente atee, a destra come a sinistra. Per i cristiani, e per gli evangelici in particolare, di Dio se ne parla nei termini della sua rivelazione in Gesù (figura salvata ma “sfigurata” da tutte le posizioni agnostiche ed atee); della rivelazione di Dio in Gesù se ne parla nei termini dell’attesa ebraica (Bibbia ebraica, vs Croce e … il Girard di Vattimo) e nei termini della testimonianza dei testimoni oculari (i Vangeli). Nel gioco della fusione degli orizzonti, del moltiplicarsi delle interpretazioni possibili da parte del lettore, il ruolo della fonte testimoniale deve essere distinta, valorizzata e tutelata. Se non si fa questo, cioè se non ci si ancora al Gesù della storia, il Cristo della fede diventa una chimera e il Dio che Gesù Cristo avrebbe rivelato, diviene un prodotto dell’ontoteologia di cui si può cantare la morte.

Ecco perché l’ateismo devoto è una forma tout court di ateismo che ha bisogno di ascoltare il vangelo; che si blocchi nel nome ed esalti l’identità, fino al limite dell’esagerazione di voler difendere Dio o che si esalti nella caritas delle azioni solidali in cui Dio non è altro che una chimerica ONG che ci lascia senza la possibilità di chiedere perdono per l’autogiustificazione che rincorriamo nel nostro cristianesimo del nome e dei fatti.

L’articolo Gianni Vattimo (1936-2023). Anche lui un ateo devoto? proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/gianni-vattimo-1936-2023-anche-lui-un-ateo-devoto/

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di Francesco Schiano
(Staff GBU – Napoli)

Il tema della violenza sulle donne è purtroppo costantemente in cima alla lista di quelli più discussi dei nostri tempi, e i tragici fatti di Palermo e Caivano hanno imposto una seria e complessa riflessione su responsabilità e possibili soluzioni al problema.

Hanno destato molto interesse alcune affermazioni della pornostar Rocco Siffredi, il quale ha denunciato alcune brutture dell’industria che rappresenta, rendendosi finanche disponibile a chiudere il suo stesso sito internet per favorire la limitazione dell’accesso dei più giovani alla pornografia e incentivare la loro educazione sessuale.
Il bisogno di un’efficace educazione sessuale è un punto sul quale tutti sembrano essere d’accordo. È abbastanza chiaro che non si tratti di fornire nozioni di anatomia, informare sul corretto uso di contraccettivi o mettere in guardia sulle malattie veneree; ciò di cui ci sarebbe bisogno è una vera e propria educazione sentimentale, che ricollochi il sesso nel giusto contesto di una relazione d’amore, o quanto meno di profondo rispetto reciproco.

Probabilmente non sarà la Bibbia il testo al quale si farà riferimento nel momento in cui si proporranno nuovi programmi per formare i nostri giovani, eppure proprio tra i libri della Bibbia ce n’è uno che sarebbe perfetto per questo scopo: il Cantico dei Cantici.
Teologi e commentatori della Bibbia, insieme a filosofi e altri pensatori, fanno molto spesso riferimento a 2 parole greche per spiegare la complessità dell’esperienza e della manifestazione dell’amore: Eros e Agape.

La prima descrive l’amore erotico, e più in generale l’amore per qualcosa o qualcuno che si desidera allo scopo di ottenere soddisfazione e piacere. Un amore fondamentalmente egocentrico e spesso egoista. La seconda parola, agape, descrive invece l’amore disinteressato, puro, concentrato sul bene dell’oggetto del sentimento.

Il Cantico dei Cantici è una straordinaria celebrazione dell’amore erotico, della passione romantica e dell’unione fisica tra due amanti; corregge l’associazione tra eros e impurità che dalla filosofia neoplatonica è entrata nella concezione cristiana del sesso.

Proverò a riassumere alcuni concetti esplicitamente contenuti nel Cantico, che, pur essendo un poema, non un manuale, è incluso nella raccolta della letteratura sapienziale della Bibbia, quella rivolta particolarmente alla formazione dei giovani.

I. L’amore sensuale è un dono meraviglioso.
Per accordare la concezione negativa del sesso con la presenza di un libro simile nella Bibbia, si è tradizionalmente considerato l’amore descritto nel Cantico come un’allegoria dell’amore di Dio per il suo popolo o di Cristo per la Chiesa; in realtà, però, questo poema descrive la bellezza e la potenza dell’amore romantico e sensuale in modo molto chiaro e diretto.

1:2 Mi baci egli dei baci della sua bocca,
poiché le tue carezze sono migliori del vino.
3 I tuoi profumi hanno un odore soave;
il tuo nome è un profumo che si spande;
perciò ti amano le fanciulle!

Ecco come si apre il poema, chiamando da subito in causa i cinque sensi e presentandoci la potentissima attrazione fisica tra i due amanti; da qui in poi è un crescendo che si conclude con l’unione sessuale della coppia.

II. Proprio l’apertura del poema, che vede la donna parlare per prima, ci suggerisce il prossimo fondamentale aspetto dell’educazione sessuale biblica: il rapporto tra uomo e donna è paritario. La cosa era sorprendente 2500 o 3000 anni fa, non dovrebbe esserlo adesso; eppure una delle considerazioni che ha messo praticamente d’accordo tutti i partecipanti al dibattito pubblico dei nostri giorni è proprio il maschilismo dell’etica sessuale dominante, che trasforma il corpo femminile in oggetto di piacere.

Per tutto il Cantico dei Cantici, l’amato e l’amata esprimono il loro desiderio, i loro sentimenti e il loro amore in modo reciproco, senza che nessuno risulti l’oggetto della conquista dell’altro.

 

III. Quest’ultimo pensiero è completato dal terzo concetto:
il proprio piacere si trova nel godimento dell’altro.
L’unione sessuale più appagante è quella nella quale gli amanti non cercano di ottenere piacere, ma di darlo l’uno all’altra. L’amore sensuale tende molto facilmente all’egocentrismo, ma può essere altruista e trovare soddisfazione nel darsi all’altro, può godere del piacere dell’altro.

  7:11 Io sono del mio amico,
verso me va il suo desiderio.
12 Vieni, amico mio, usciamo ai campi,
passiamo la notte nei villaggi!
13 Fin dal mattino andremo nelle vigne;
vedremo se la vite ha sbocciato, se il suo fiore si apre,
se i melagrani fioriscono.
Là ti darò le mie carezze.
14 Le mandragole mandano profumo,
sulle nostre porte stanno frutti deliziosi di ogni specie,
nuovi e vecchi,
che ho serbati per te, amico mio.

 

IV. L’amore romantico è esclusivo
Questo punto è probabilmente quello più controculturale. La riduzione dell’essere umano allo stato di animale evoluto, fa si che per molti parlare di monogamia sia quasi una violazione dell’ordine naturale delle cose. Eppure chiunque si sia mai innamorato sa che uno degli aspetti fondamentali dell’amore romantico è proprio la sua esclusività.

2 Quale un giglio tra le spine,
tale è l’amica mia tra le fanciulle.
3 Qual è un melo tra gli alberi del bosco,
tal è l’amico mio fra i giovani.

Ecco come si vedono i due amanti del poema biblico: al tuo confronto le altre sono spine; al tuo confronto gli altri sono un bosco indistinto.
Si può provare attrazione fisica per tante persone allo stesso tempo, ma l’amore sensuale celebrato in questo libro si può provare per una sola persona.

L’amore erotico, quello orientato alla soddisfazione di un bisogno personale, non è sbagliato in se stesso e non deve essere contrapposto all’agape, all’amore disinteressato; piuttosto deve esserne completato.  Ecco il principio fondamentale dell’educazione sessuale biblica: desiderio sessuale e piacere sessuale sono tra i doni migliori di Dio, ma possono essere vissuti in maniera completa solo mettendo l’amata al centro delle nostre attenzioni, amando il prossimo come noi stessi.
Dove troviamo il grande esempio di amore che dona se stesso per il bene dell’altro, se non nella croce di Cristo? È in questo senso che il Cantico dei Cantici ci parla dell’amore di Cristo per la Chiesa, e nel fornirci un modello per la nostra vita sentimentale e sessuale ci spinge verso l’unica speranza di salvezza per il mondo e per ogni singolo essere umano.

 

Pur non essendo pienamente in accordo con alcune delle conclusioni dell’autore, sono in debito, per la maggior parte degli spunti di riflessione presentati in questo breve articolo, con il testo di H. Gollwitzer, edito da Claudiana, Il poema biblico dell’amore tra uomo e donna.
Di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU, Ian M. Duguid, Cantico dei Cantici. Introduzione e commento, Collana Commentari all’Antico testamento (CAT)

 

L’articolo Rocco Siffredi, l’educazione sessuale e il Cantico dei Cantici proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/rocco-siffredi-leducazione-sessuale-e-il-cantico-dei-cantici/