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Sì è conclusa da appena due giorni la Festa GBU 2024. Che giorni speciali!

Tra gli ottimi sermoni, gli istruttivi seminari, i momenti di preghiera e di studio biblico, sono stati ancora una volta le storie degli studenti a emozionarmi. 

Storie di conversione, di amicizia, di condivisione e comunione, di evangelizzazione. Storie di benedizioni e di sfide, persino di persecuzione in certi casi…

Ma ogni racconto testimoniava di come, in varie città italiane, il nome di Gesù viene oggi proclamato nelle università! A volte con tanti studenti organizzati e preparati, altre con una studentessa solitaria che condivide (forse anche timidamente) la sua fede in Gesù con la sua compagna di corso. ‭”Che importa? Comunque sia (…) Cristo è annunciato”, parafrasando l’apostolo Paolo.

Questo fanno i gruppi biblici universitari. Questo fanno i nostri studenti. Testimoniano del vangelo. E il Signore, per la sua grazia, ci sta benedicendo.

Il GBU infatti cresce! 

Quest’anno alla Festa eravamo circa 160 partecipanti da 27 nazioni del mondo, con un numero di studenti intorno ai 100 iscritti. È stato un record, e di questo siamo grati al Signore. Ma con i numeri, ciò che più conta è che cresca il numero di ragazzi che nelle università viene raggiunto dal messaggio del vangelo, attraverso giovani studenti cristiani valorosi e coraggiosi. 

Forse loro non si definirebbero così, troppo concentrati sui loro limiti e le loro insicurezze, ma tali sono! Sono la luce del mondo!

E mi rivolgo ora a voi ragazzi, siete la luce di Cristo nell’università.

Noi Staff vogliamo sostenervi con la chiamata che abbiamo ricevuto dal Signore, quella di servirvi, incoraggiarvi e prepararvi. E vogliamo, insieme a chi leggerà questo notiziario, sostenervi con le nostre preghiere, sapendo che il Signore opera e opererà in voi, e attraverso di voi, in altri studenti. Per la gloria di Cristo, per la salvezza delle anime. 

Andiamo avanti, fiduciosi.

A Cristo Gesù tutta la gloria

Domenico Campo (Staff GBU Sicilia)

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Il mondo visto dalla croce

Matteo 27:27–56
È noto che i Vangeli prediligono una prospettiva peculiare non solo per l’intera vicenda terrena di Gesù, Colui che all’unanimità poi confessano come Figlio di Dio e Messia. Ma anche per il racconto dell’evento che occupa buona parte dei Vangeli, vale a dire il racconto della Passione.

L’evento che annualmente la cristianità ricorda sotto la rubrica di Pasqua non ha poi smesso di alimentare una storia degli effetti che percorre la letteratura, le arti, fino al cinema (come non ricordare The Passion di Mel Gibson).

Il Vangelo di Matteo è interessato a presentare il dramma di Gesù nei suoi collegamenti con l’AT, (Salmo 22 e 69 e altre reminiscenze). Il dramma che Gesù vive non è il dramma di un malcapitato le cui ambizioni si scontrano con la cruda realtà della politica e con la forza di occupazione romana. Una vicenda tutt’al più da elencare in sterili e anonimi annali di qualche storico dell’antichità giudaica. Anche se, a giudicare dall’importanza che vi attribuisce il principale di tali storici, Giuseppe Flavio, la crocifissione di Gesù non aveva neanche il blasone della rilevanza nella storia politica e sociale della Giudea di quel tempo (si veda il famoso Testimonium Flavianum, Antichità 18.63). Nell’ottica di Matteo sul Golgota si riflette un tema dell’AT, quello del giusto, ingiustamente sofferente, che nella sua sofferenza si identifica con la causa di YHWH. Questa condizione motiva l’azione giustificante di Dio; e sarà questa, l’azione giustificante di Dio per e in Cristo, la prospettiva che rappresenterà il cuore della riflessione successiva degli apostoli. Ma anche il filo rosso che avvolge la narrazione matteana, se si allarga la prospettiva dal racconto della passione fino a includere tutto il Vangelo. Se n’era ben accorta Dorothy Sayers incentrando la sua pieces teatrale proprio sul Vangelo di Matteo (The man born to be a King, 1942). Questa prospettiva globale e neotestamentaria sull’evento enfatizza il suo valore salvifico e universale.

E tuttavia, non è necessario attendere tutta la riflessione apostolica posteriore, o percorrere in lungo e in largo tutto il Nuovo Testamento; la si può intuire nello scorrere della narrazione. D’altronde, sono noti i tentativi della predicazione cristiana di cogliere “tutto” negli stessi scarni resoconti del Golgota. Si pensi, per esempio, alla tradizione omiletica sulle Sette parole di Gesù alla croce, un elenco che viene fuori dall’affiancamento di tutte e quattro le narrazioni:

1) Padre, perdona loro … (Lc 23:34). 2) Oggi sarai con me in paradiso … (Lc 23:43). 3) Donna, ecco tuo figlio … (Gv 19:26–27). 4) Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato … (Mt 27:46; Mc 15:34). 5) Ho sete … (Gv 19:28). 6) È compiuto .. (Gv 19:30). 7) Padre nelle tue mani rimetto … (Lc23:46).

Per questa Pasqua 2024, segnata da guerre e imbarbarimento della vita planetaria (si pensi agli appuntamenti elettorali dei prossimi mesi che potrebbero cambiare il volto dell’intero vivere associato dell’umanità) proponiamo tre piccole istantanee che emergono dalla combinazione dei dialoghi e di alcuni particolari del racconto di Matteo. Queste istantanee potrebbero ben essere il risultato di uno sguardo che si eleva non di molto rispetto allo spazio visivo dei protagonisti, quel tanto che basta per capire come si vede il mondo dalla croce.

Il mondo visto dalla croce

  1. Nelle ingiurie si rivela il rifiuto del mondo
  2. Nel grido di Gesù si rivela la logica della sostituzione
  3. Nella constatazione del centurione si rivela l’arrivo di un mondo nuovo

 

  1. Nelle ingiurie si rivela il rifiuto del mondo

I vari personaggi che parlano appartengono principalmente a tre gruppi sociali: le forze di occupazione; il potere religioso e l’opinione pubblica. È possibile però intravedere un quarto soggetto la cui prospettiva fa capolino nelle frasi di diversi attori: è il potere diabolico

Le ingiurie si concentrano nello spazio temporale dell’agonia di Gesù. Esse fanno leva sulla presunta e millantata potenza di Gesù, una potenza che era stata allusa da Gesù sia nei fatti sia nelle parole (distruggi e salvato, confidato e affermato). Le ingiurie chiedono una instanziazione di questa potenza: è ora il momento della sua manifestazione. Sono ingiurie perché colui che potrebbe rovesciare la situazione non fa niente in quanto, questa è l’insinuazione, non può fare proprio niente! Ma per il loro tramite si esprime la molteplicità dei volti del mondo materiale e soprannaturale che ha rifiutato e continua a rifiutare il Figlio di Dio.

1a L’ingiuria che proviene dal potere (v. 37) Al di sopra del capo gli posero scritto il motivo della condanna: Questo è Gesù, il re dei Giudei.

L’iscrizione romana rivelava la condanna (insurrezione), e ironizzava sulle aspettative giudaiche. Finché c’era Roma, questa era la fine che facevano tutti i presunti Re. La targa riprendeva però la medesima convinzione espressa dai Magi al capitolo 2 del Vangelo. Questi personaggi, muovendosi da una direzione opposta a quella dei Romani che venivano da Occidente, vale a dire, partendo dall’Oriente, giunsero a Betlemme proprio in cerca del Re dei Giudei che è nato (2:2). Già in quella circostanza si era profilato uno scontro tra Gesù, allora un bambino e il potere; in quel caso quello di Erode.

Abbiamo dunque una prima mappa della reazione del potere o dei potenti:
– i Romani animati da una visione del potere che non ammetteva deroghe. La lex aveva il primato sulla considerazione della persona e delle circostanze (si pensi ai dubbi di Pilato).
– I Magi, rappresentanti forse di un potere che faceva leva su altri elementi e stimolati da un potere sovrannaturale (la stella) si erano resi disponibili a confrontarsi con la novità.
– In mezzo c’erano i Giudei che nella loro ostinazione complicano, a loro svantaggio, la situazione: parlano addirittura del Re d’Israele (v. 42).

Non è difficile discernere quale avrebbe dovuto essere l’approccio corretto del potere, allora come in tutti i tempi. Ancora oggi il potere non sa quale posizione assumere nei confronti del vangelo.

1b L’ingiuria che proviene dal mondo della religione (v. 40) Tu distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci

Il tempio era un altro fuoco spaziale del dramma che si stava vivendo. L’ingiuria è religiosa in quanto si interessa al cuore del “potere religioso”. Veicolava una falsa accusa: Gesù aveva sicuramente preannunciato la fine del tempio, ne aveva denunciato l’uso distorto (una casa di ladri piuttosto che, una casa di preghiera, cap. 21) ma non aveva mai manifestato intenti iconoclastici. I suoi discepoli, all’indomani della risurrezione, avranno il tempio come luogo privilegiato per esporre la nuova via. Gesù aveva in mente il ruolo globale del tempio, non solo per i Giudei o per gli antichi Israeliti (tabernacolo). Doveva essere il luogo in cui avrebbero dovuto ritrovarsi e rivolgersi tutte le esperienze dell’umanità, dove Dio incontrava gli uomini (Dt 12; Is 66).

In quel preciso momento, mentre lo ingiuriavano, egli stava sostituendo, senza toccare una pietra del tempio, il ruolo di quel santuario, la sua fisionomia: l’ora è venuta, aveva detto alla samaritana, in cui l’adorazione e l’incontro con Dio non sarebbero state più geo–localizzate; sarebbe stato il suo corpo, quello sì, distrutto e ricomposto in tre giorni (Gv 2:19) il nuovo luogo dell’incontro.

Ma in quel momento il mondo della religione non era interessato a riforme e scatti in avanti; era intento a difendere le proprie prerogative, in una mortale e sempre ricorrente alleanza con il potere.
Il mondo della religione ha interesse a perpetrarsi e a difendere i propri simboli. Ed è per questo che rifiuta la croce o al più la rende consona alle sue prerogative. Si pensi al ruolo delle tradizioni pasquali come messo in luce dagli studi di antropologia e di etnologia.

1c L’ingiuria che proviene dal demonio (v. 40) Se sei Figlio di Dio. (v. 43) Si è confidato in Dio: lo liberi ora, se lo gradisce, poiché ha detto: “Sono Figlio di Dio”.

L’altra ingiuria colpisce l’identità di Gesù facendo uso di una delle citazioni del Salmo 22. Il suo affidarsi a Dio al punto da chiamare Dio PADRE. Questo gli viene rinfacciato. Si tratta di un’ingiuria chiaramente diabolica in quanto metteva in discussione l’identità di Gesù. Non aveva voluto dimostrare la sua figliolanza al comando del diavolo (cap. 4)? Ora questa presunta identità e il suo legame millantato venivano chiaramente smascherati.
Abbiamo qui una visione del divino alla mercé della voluttà umana (a parlare sono infatti uomini), che esprime un travisamento del messaggio della salvezza e per questo espressione del demoniaco. L’ingiuria procede in questi termini:

se salvi te stesso, noi ti crederemo (v. 42)
Avrebbe potuto essere vero? Che fede sarebbe stata quella di chi, semplicemente, prendendo atto del miracoloso, si piega? Con le bestie dell’Apocalisse accade qualcosa del genere: esse riscuotono il successo e vengono seguite grazie alla loro identità miracolosa, seducente (Ap capp. 12 e 13). Nell’ingiuria demoniaca c’è sempre una credenza parzialmente corretta. Nell’ipotetica fede degli oltraggiatori sarebbe mancata l’altra faccia della fede che salva, il ravvedimento. Gesù aveva annunciato il regno di Dio predicando la fede e il RAVVEDIMENTO.

La formula avrebbe dovuto essere ed è sempre: – Mi pento, credo che tu mi puoi salvare!

1d L’ingiuria che proviene dal mondo dagli uomini (v. 42) Ha salvato altri e non può salvare se stesso; (vv. 47 e 49)… Costui chiama Elia … lascia vediamo se Elia viene a salvarlo (vv. 47 e 49)

Se ai Romani interessa il potere, se ai capi sacerdoti interessa il tempio, se a Satana interessa il legame Padre/Figlio, agli uomini, a tutti gli uomini, possiamo dire a tutte le creature, tranne Satana, interessa la SALVEZZA, nelle sue varie forme.

Negli ultimi anni si parla di salvare il pianeta; di fronte agli ultimi eventi bellici si parla di salvare la pace. Si è anche parlato di salvare l’umanità … dal virus. Tutti scenari che richiamano il tema della salvezza. Ma quale salvezza? È in primo luogo una salvezza all’occidentale: una prospettiva di vita florida, la possibilità di coltivare ambizioni per sé e per i propri cari. Questa è la salvezza che abbiamo ricercato nel mezzo della pandemia e ora della guerra. Ma gli scenari di crisi rivelano che questa salvezza è insufficiente. Da Kiev a Gaza la gente non scappa solamente o non vuole solo scappare; prega! Ecco allora che il tema della salvezza nei termini biblici riaffiora sempre e nuovamente. I dissacratori dicono a Gesù sulla croce, ha salvato tanti! È vero ed era anche vero che uno lo aveva appena salvato o forse lo stava per salvare, il ladrone!

Ma qui il Salvatore non può salvare se stesso. In realtà non deve salvarsi; se salvasse se stesso, se lo facesse, allora non potrebbe salvare più nessun’altro. Non è spiegata, ma qui agisce potentemente, e per il tramite dell’ingiuria, la logica della sostituzione: uno si perde perché gli altri possano salvarsi. Ecco che nell’ingiuria del mondo degli uomini, che in continuazione chiede conto a Dio degli elementi che lo farebbero fiorire ma che gli mancano – la presenza del male – proprio nel silenzio mortale di Dio si delinea l’unica vera strada della salvezza biblica. Questa strada è indicata dal grido che mette a tacere le rimostranze del mondo che rifiuta.

 

  1. Nel grido di Gesù si rivela la logica della sostituzione (V, 46) Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato

La logica della sostituzione non può essere solo descritta. È accaduto altre volte che qualcuno si è sostituito ad altri (soprattutto in tempi di guerra – Salvo D’Acquisto). Bisogna penetrarla, la logica della sostituzione, e a questo serve il grido di Gesù. Il grido non esprime dolore fisico (non ce la faccio più) ma denuncia una condizione spirituale: l’abbandono. Quando Dio abbandona, giudica; il grido esprime il dolore per il giudizio di Dio Padre. Questo grido apre uno squarcio profondissimo, e incomprensibile per noi, nella vita intima di Dio: uno dei misteri più impenetrabili di tutti i vangeli! Come può essere che i due confidenti (v. 43), così intimamente uniti da non poterli distinguere, ora si trovino separati;

– uno, il Padre, chiamato solo in questa circostanza da Gesù con l’appellativo, Dio, che si separa
– l’altro, il Figlio, lasciato solo nella sua sofferenza.

Che cos’è che faceva orrore al Padre tanto da doversene distanziare? Si trattava di qualcosa che sicuramente, per poter essere gestito, per poter consentire e permettere la salvezza, andava trattato proprio a quella maniera. Gli apostoli, e noi con loro, troviamo la risposta nelle straordinarie parole che Isaia aveva riservato al Servo dell’Eterno, che doveva essere Israele, ma che alla fine è risultato essere un suo figlio illustre e giusto (Isaia 53:3sg.)

Quella condizione, essere lì come oggetto dell’abbandono di Dio, non era per uno qualunque. Non era per un eroe: gli eroi dell’AT erano al più tipi di chi poteva veramente sostituirsi. Figuriamoci se poteva essere un profeta, seppur blasonato come Elia. No! Quella condizione la poteva occupare solo uno per il quale essa era inconcepibile, che non poteva stare lì. Giovanni Battista aveva chiamato Gesù Figlio dell’uomo, aveva profetizzato, cioè, che avrebbe esercitato il giudizio.

Ecco perché si parla di sostituzione e non semplicemente di un mettersi al posto di …. La sostituzione implica non solo che quel posto non gli spettava, perché era giusto; ma soprattutto implica che solo lui poteva prendere su di se quello che era sugli altri. Perché Lui, in quel posto non avrebbe mai dovuto starci! Pietro lo spiegherà bene: egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce! (2:24). Ecco la salvezza: qualcuno perde affinché tanti vincano. La sostituzione, infatti, apre un mondo nuovo.

 

  1. Nella constatazione del Centurione si rivela l’arrivo di un mondo nuovo (v. 54) «Veramente, costui era Figlio di Dio»

Guardando dalla croce, un Gesù che aveva bevuto fino all’ultima goccia del calice dell’ira di Dio, vede ora un mondo nuovo che si apre. Se prima i soldati si erano protesi verso Gesù per prenderlo in giro adesso, alla fine, uno di essi si inginocchia idealmente riconoscendo l’errore commesso (veramente) e riconoscendo la natura di Gesù che era fatta oggetto di insulti.

Per lui, per il Centurione, non è stato necessario che scendesse dalla croce. È bastato il modo in cui è morto, è bastato cogliere l’atmosfera e ciò che si stava palesando in quel momento per riconoscere che sì, qui c’era il Figlio di Dio. Riconoscere la natura di Gesù (Figlio di Dio) qui alla croce, vuol dire riconoscere il Figlio di Dio che porta i peccati e dunque rappresenta una chiara manifestazione della fede salvifica. Non una fede demoniaca (se ti salvi ti crediamo).

E per di più, a riconoscerlo ora era un pagano, un romano, non uno dei Giudei, per i quali Gesù era venuto. Ecco il mondo nuovo che si apre, il mondo della missione, della messe matura che non sarà più ora limitata al solo campo d’Israele, ma all’intero mondo (cap. 28).

Il Centurione è l’avanguardia di questo mondo nuovo, un mondo in cui il solo riconoscimento dell’identità di Gesù (chiunque confessa il nome del Signore sarà salvato) unito al ravvedimento metterà in moto il meccanismo della sostituzione. Il centurione ha preceduto tutti quanti noi.

 

Ecco allora, in conclusione, il quadro completo del mondo visto dalla croce:

  1. Nelle ingiurie si rivela il rifiuto del mondo
  2. Nel grido di Gesù si rivela la logica della sostituzione
  3. Nella constatazione del centurione si rivela l’arrivo di un mondo nuovo

 

 

L’articolo Il mondo visto dalla croce proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/il-mondo-visto-dalla-croce/

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di Giulia Di Fonso

Non esiste un accordo unanime all’interno della comunità scientifica riguardo a una definizione universalmente accettata per il concetto di intelligenza artificiale. Questa mancanza di consenso è principalmente dovuta alla stessa natura dell’IA e alla sfocatura dell’applicazione del suo concetto nell’operatività delle macchine. Il termine “intelligenza artificiale” si basa sul concetto di “intelligenza” e pertanto è opportuno partire dalla definizione stessa di intelligenza fornita dall’Enciclopedia Treccani. Secondo tale definizione, l’intelligenza è un “insieme complesso di facoltà psichiche e mentali che consentono di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri, giudicare e adattarsi agli ambienti”.

Questa definizione è incentrata sull’uomo ma riconosce anche agli animali un certo grado di intelligenza. Per quanto riguarda l’intelligenza degli animali può essere molto difficile considerare intelligenti determinate capacità perché per noi sono prive di significato. Considerando il contesto generale nel quale agiscono gli essere umani e gli animali si potrebbe definire intelligente la capacità di raggiungere determinati obiettivi. Gli obiettivi primari potrebbero essere legati alla sopravvivenza della specie, ma andrebbero comunque considerati obiettivi più immediati legati al piacere. Quando consideriamo l’intelligenza delle macchine dobbiamo domandarci se per definirle intelligenti dobbiamo considerare il raggiungimento degli stessi obiettivi posti per gli esseri viventi.

Per le macchine un obiettivo che noi consideriamo primario potrebbe non essere un obiettivo primario. Date le difficoltà nella comprensione di cosa sia l’intelligenza negli esseri viventi, definire l’Intelligenza Artificiale risulta molto difficile e controverso. Rapportando l’Intelligenza Artificiale all’intelligenza umana ci si deve chiedere se sia importante il risultato o la comprensione del procedimento per arrivare a quel risultato. Inoltre, anche se è possibile fornire una definizione precisa e specifica del concetto di intelligenza artificiale, questa deve comunque essere caratterizzata da una certa flessibilità, poiché la natura stessa della materia è soggetta a cambiamenti e mutamenti costanti nel tempo. Tali cambiamenti non solo influiscono sulle capacità dell’IA, ma modificano anche gli obiettivi che vengono progressivamente raggiunti, ampliando così il campo di applicazione dell’intelligenza artificiale.

Ciononostante, qualificare l’IA ci permette di poter comprendere le sue potenzialità e le sue capacità. In questa ottica in campo italiano l’IA è stata definita come “una disciplina appartenente all’informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione dei sistemi hardware e sistemi di programma software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, ad un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana”.

Cristianità e intelligenza artificiale in chiesa?

La finalità non risiede nella sua stessa esistenza, bensì nel miglioramento della qualità della vita umana, costituendo uno strumento mirato a servire l’essere umano, e non a doominare l’essere umano.

Nellpambito del dibattito sull’intelligenza artificiale, due concetti fondamentali continuano a detenere un ruolo centrale: responsabilità e consapevolezza.

L’innovazione rapida che si sta diffondendo in questo mondo come “rivoluzione silenziosa” richiede che ci poniamo delle domande: queste macchine, che ora parlano come noi, ci possono aiutare? E quanto vi è di dannoso o di buono in tutto questo? Dobbiamo tornare a riflettere sul senso delle cose: è giusto o ingiusto? È vero, è falso? Che cosa è vero e cosa è falso? Che cosa è giusto e ingiusto?

Giulia Di Fonso è stata coordinatrice del GBU di Foggia e sta completando gli studi magistrali in scienze manageriali a Parma

L’articolo Intelligenza artificiale: la rivoluzione silenziosa proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/intelligenza-artificiale-la-rivoluzione-silenziosa/

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Emanuele Berti ci racconta la sua esperienza con la “Settimana di Eventi” che il gruppo GBU Firenze ha organizzato dall’11 al 14 marzo.

PREPARAZIONE 

La preparazione della settimana, per me, è stata un processo tanto stimolante quanto formativo. Ha avuto inizio alcuni mesi fa e si è rivelata una sfida continua. La scelta del tema e il suo sviluppo sono stati particolarmente complessi. Ogni volta mi trovavo a dubitare del risultato, e incontravo difficoltà nel capire quale fosse un approccio adatto per coinvolgere gli studenti. Inizialmente, ho esplorato concetti come la vittoria e la sconfitta, e il significato della vita, focalizzandomi sulla realtà degli studenti universitari. 

Successivamente, sotto la guida del Signore, ho orientato il tema verso l’insoddisfazione. In collaborazione con gli altri coordinatori e lo staff, abbiamo cercato modi per affrontare questo argomento con gli studenti. Abbiamo optato però un approccio diretto con gli studenti attraverso delle domande, che utilizziamo spesso con il Gbu per avviare la discussione. Abbiamo inoltre utilizzato un cartellone, che sintetizzava il concetto di insoddisfazione attraverso due frasi chiave: 

  1. “Gli esseri umani sono spesso insoddisfatti non perché desiderano troppo, ma piuttosto perché desiderano troppo poco.” Di C.S. Lewis
  2.  “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete.” Giovanni 4:14

Mi sono reso conto in questa preparazione di quanto rivisitare e rielaborare costantemente le idee sia un processo impegnativo e faticoso, ma ne ho compreso l’essenzialità e quanto sia necessario; non solo per preparare una settimana evangelistica! 

L’OPERA È NELLE SUE MANI 

Abbiamo pianificato i giorni di evangelizzazione con la preghiera personale durante le mattine, e dedicando i pomeriggi all’evangelizzazione e all’interazione con gli studenti. Il primo giorno, ci siamo riuniti per un’analisi e studio del vangelo, esplorando il suo significato e come trasmetterlo agli studenti. L’entusiasmo e la gioia che ho provato durante il primo giorno di preparazione erano così intensi che il giorno successivo mi sono ritrovato a letto con febbre, nausea e mal di gola! Ho trascorso due giorni a letto. 

Inizialmente, ero dispiaciuto di non poter partecipare, ma poi ho provato grande gioia nel sapere che gli altri erano all’università, condividendo la Parola di Gesù con gli studenti. Ho realizzato che la Parola e il vangelo sono liberi, non sono imprigionati, e continuano a diffondersi, nonostante le nostre limitazioni

SIAMO FORTI SOLO NEL SIGNORE 

L’ultimo giorno, dopo molta preghiera, sono riuscito a trovare la forza di alzarmi dal letto e raggiungere l’università, unendomi agli altri. Nonostante fossi ancora ammalato, senza voce, con un po’ di febbre e stanchezza, ho sperimentato come il Signore operi proprio nella nostra debolezza. Il calore del sole e le conversazioni incoraggianti hanno risollevato il mio spirito. Per attirare persone, avevamo deciso di utilizzare una porticina e un pallone. All’inizio, non hanno suscitato molto interesse, ma una volta capito come sfruttarli, il Signore ha agito in modo straordinario. Abbiamo proposto un gioco in cui, in cambio di un premio (una caramella), le persone dovevano rispondere ad una domanda. Oltre al cartellone principale, ne abbiamo esposto un altro con lo schema dei due modi di vivere, rappresentato da sei immagini che illustrano il vangelo. È stato sorprendente notare che quasi tutte le persone, almeno una decina, hanno compreso da sole il significato del vangelo dopo che gli avevo chiesto di provare a capire cosa significassero le immagini. È stato un vero miracolo, e alcune persone hanno anche accettato di venire al Mark Drama

SODDISFATTI 

Questi giorni mi hanno fatto comprendere ancora di più che solo il Signore Gesù può veramente soddisfare. Possiamo trovare molte religioni, idee e fonti di divertimento, ma solo Gesù può riconciliarci con Dio. Lui è l’unico giusto, l’unico uomo senza peccato, l’unico in grado di riscattarci e donarci una soddisfazione eterna, una soddisfazione che non conosce fine. Lui è l’acqua che disseta… per sempre! Attraverso la sua misericordia, Dio accoglie ogni studente, che sia stato un bestemmiatore per tutta la vita, un arrogante o un ateo. Se si ravvedono e credono in Gesù, possono essere riconciliati e Dio li aspetta a braccia aperte, gioendo per la pecora smarrita che è stata ritrovata, per colui che era morto ed è tornato alla vita.

Emanuele Berti, studente GBU Firenze

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Cosa significhi essere umani pensiamo di saperlo finché non ci pensiamo. Come afferrare ciò che ci rende unici?

Lo siamo, poi, davvero, unici, qui sul pianeta?

Cetacei come delfini e balene sembrano avere linguaggi molto più complessi di quanto sospettiamo, il polpo mostra di avere un’intelligenza talmente creativa da sfuggire intenzionalmente ai tentativi di decifrarla tramite i più vari esperimenti, il corvo, è dimostrato, possiede coscienza di sé; il mondo delle monere, poi, sta rivelando esseri in grado di livelli di cooperazione tra individui che oltrepassa le stesse capacità umane. L’umano come summa dell’evoluzione è roba da manuali delle scuole medie, ormai nostalgico rimasuglio di un ottimismo da tempo dissolto.

Questo è stato, ad un certo punto: abbiamo immaginato di aver capito tutto, che fosse solo questione di tempo; avevamo acceso la luce sulla realtà, non restava che lasciare che rischiarasse tutto e rivelasse l’essenza ultima di ogni cosa. Scienza e ragione possedevano le chiavi di accesso a tutto il vero.

La scrittura di Benjamìn Labatut (cileno, nato a Rotterdam, 43 anni) è attratta da questa hybris, dalla frenesia che le coglie, scienza e ragione, nell’impresa della conoscenza; quando il procedere non ha nulla del posato e metodico lavoro dello scienziato ma intuizione e visione travolgono la mente fino al limitare della follìa; quando, soprattutto, il reale rivela di essere più inafferrabile e selvaggio del previsto.

C’è qualcosa di diabolico nel filo che lega la scoperta del blu di Prussia, il primo pigmento sintetico della storia e lo Zyklon B, il micidiale gas con cui il sistema nazista annientò milioni di ebrei, zingari, handicappati. Era il rosso carminio che Diesbach e Dippel cercavano di ottenere, nel 1709, maciullando insetti in laboratorio quando, per una casuale reazione al sale di potassio, si trovarono davanti un blu vivido come il cielo. Il pigmento sembra portarsi dietro la maledizione ereditata dalla torbida personalità del teologo, alchimista e ciarlatano Dippel. Perché è soltanto per errore che, meno di ottant’anni dopo, nel laboratorio del chimico Scheele, un cucchiaio sporco di acido solforico è entrato in contatto con il composto blu creando l’acido cianidrico o, appunto, acido prussico, il più potente veleno della modernità. Ed è miscelando gli stessi elementi che Fritz Haber (1907) ha sintetizzato l’azoto, rivoluzionando l’agricoltura moderna (cosa che favorì l’esplosione demografica del XX secolo) ma anche un micidiale disinfestante per animali (Zyklon sta per ciclone, per allusione ai suoi effetti devastanti) con il quale, lui ebreo, furono sterminati nel lager i suoi stessi familiari. Ogni gerarca nazista aveva la sua scatolina di pillole di cianuro per l’emergenza. A centinaia si suicidarono in questo modo al precipitare degli eventi.

È come un rapimento mistico che travolge il giovane Heisenberg (1925) fino al limite della consunzione fisica mentre, allucinato, stila appunti incomprensibili che senza alcun appello annunciano il limite ultimo della conoscenza possibile della materia. Per il semplice fatto che l’osservatore e l’oggetto osservato sono fatti della stessa materia, nelle sue particelle elementari, irrimediabilmente l’atto stesso dell’osservare perturba ciò che osserva. Il principio di indeterminazione di Heisenberg sancisce per sempre il limite alla razionalità della fisica dei quanti.

Ed ha qualcosa del veggente, del profetico, il modo in cui Karl Schwarzschild, tra i bombardamenti e le urla dei mutilati, redige formule su foglietti sparsi, nel gelido inverno del 1915, dalle quali ricava l’inquietante evidenza matematica dell’esistenza, negli abissi interstellari, di mostruose entità che fagocitano ogni particella di materia venga loro a tiro, inclusa la luce, annullando il tempo stesso, i buchi neri.

E quale angosciante rivelazione, poi, si è aperta nelle formulazioni indecifrabili di Grothendieck prima e Mochizucki poi, che a sessant’anni di distanza l’uno dall’altro, dopo aver fatto tremare le fondamenta stesse della geometria hanno, entrambi, inspiegabilmente, ritirato le proprie teorizzazioni rifiutando ogni ulteriore chiarimento?

Difficilissimo da classificare, lo stile di Labatut, tra biografia scientifica e finzione letteraria, in Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2023), mette insieme realtà e fiction senza soluzione di continuità mentre racconta alcune significative avventure scientifiche della modernità. Ciò che risulta non ha nulla del metodico e posato lavoro dell’uomo di scienza quanto piuttosto del vorticoso rapimento del mistico, trasportato suo malgrado al limite pericoloso tra veggenza e follia.

La conoscenza sta sfuggendo al nostro controllo e presto non saremo più “capaci di capire cosa significa essere umani. Non che in passato lo avessimo capito… ma adesso le cose stanno peggiorando… ma non si tratta della gente comune. Nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo”. Dio avrà anche creato il mondo con il linguaggio della matematica ma vacilla ogni giorno di più quell’ingenua convinzione che padroneggiare questo linguaggio significasse entrare nella mente di Dio. Per il semplice fatto che lo stesso linguaggio della natura risulta ben più sfuggente di quanto abbiamo sospettato.

Il contenuto dei racconti che compongono l’opera di Labatut non corrisponde del tutto ai fatti storici ma è talmente avvincente che, come è della grande letteratura, il lettore non vuole liberarsi dell’illusione che sia tutta la verità, nient’altro che la verità.

Qual è l’interesse teologico di una lettura come questa?

Non abbiamo certo più bisogno, noi cristiani, del dio tappabuchi per coprire le falle della nostra ignoranza del mondo. Né abbiamo bisogno di tifosi dell’antiscientismo per rimpolpare le schiere di coloro che credono che la realtà trascenda il dato della pura materia, quale che sia la sua complessità. Ma l’arrogante credenza che, come umani, abbiamo in mano le chiavi della conoscenza e che tutto è a disposizione della nostra indagine, che da questo abbiamo dimostrazione sufficiente per estromettere Dio dal mondo, neanche questa, riconosciamolo, è di grande utilità.

Con Dio o contro Dio, per quanto speditamente procediamo, attraverso il metodo scientifico sperimentale, nell’accrescere la nostra conoscenza, resta come una cortina, un velo, al di là del quale riusciamo a dare uno sguardo solo occasionalmente e come non per nostra volontà.

E ciò che di là si rivela ci riempie di meraviglia ma anche umilia la nostra mente di umani.

Daniele Mangiola

L’articolo Benjamìn Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi, 2023 proviene da DiRS GBU.

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Come molti sanno oggi, 27 gennaio, nell’Unione Europea si è deciso di ricordare l’arrivo dell’Armata Rossa ad Auschwitz e, con questo evento, quanto è accaduto al popolo ebraico durante l’occupazione nazista in Europa. L’antisemitismo che ha prodotto la Shoah ed il tentativo di sopprimere intenzionalmente un popolo ha radici antiche ed il cristianesimo (anche quello protestante) non è esente dall’avere delle colpe per quanto accaduto.

Ricordare, soprattutto con senso critico ed approfondendo le circostanze storiche, oltre che cercando di comprendere (in modo empatico) quanto è stato subito è un’operazione sicuramente educativa e fortemente evocativa che ci fa anche comprendere quale possa essere l’uso del sapere storico.

Come spesso accade in Italia questo evento quest’anno è stato costellato di diverse polemiche dovute all’attuale situazione in Medio Oriente. che coinvolge direttamente lo stato di Israele che ha occupato la striscia di Gaza con lo scopo di annientare Hamas dopo i tremendi avvenimenti del 7 ottobre scorso. La contestazione più clamorosa è stata quella di un docente del Liceo Bottoni che ha scritto alla comunità ebraica di Milano ed agli Istituti Storici che si occupano di preparare manifestazioni in quest’occasione il suo disagio rispetto a questa commemorazione (la lettera si può leggere al seguente link: https://www.liceobottoni.edu.it/pagine/non-potr-essere-un-giorno-della-memoria-come-gli-altri ) Gli Istituti storici (in particolare il Parri) hanno risposto alle osservazioni, ribadendo l’importanza del compito civile che tocca ad ognuno di noi nel ricordare quanto accaduto (https://www.reteparri.it/comunicati/il-coordinamento-lombardo-risponde-al-prof-mazzi-sul-giorno-della-memoria-10423/?fbclid=IwAR1w0XD2uf88DaGFpVMyt9910L_8WWE3zDFbK3TraSg0jXAf3OsF9-jIbjU ). 

A livello internazionale, invece, il 27 gennaio 2024 viene dopo che la Corte Internazionale dell’Aja ha emanato la sua sentenza dopo il ricorso del Sud Africa che, implicitamente, accusava di genocidio lo Stato di Israele per i fatti di Gaza e chiedeva, di fatto, che la Corte si pronunciasse a favore di un immediato cessate il fuoco ed ad un’implicita condanna di Israele per quanto stava accadendo. La Corte in una sentenza piuttosto lunga e complessa (il cui testo può essere letto in inglese qui: https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/192/192-20240126-ord-01-00-en.pdf?fbclid=IwAR3sKnUEmCbaVZpx6Jj-1SO8Zvb2AUe4uIMZDxOko8y_OtaJk5EgL89hnOQ) ha ribadito la sua preoccupazione per quanto sta accadendo, ma non ha ordinato un cessate il fuoco né ha espressamente condannato Israele, esortando però lo stesso Stato a tutelare i diritti dei Palestinesi e ad evitare di commettere crimini di guerra che possano pre-alludere ad un genocidio, avendo Israele stesso sottoscritto la Convenzione che prevede la prevenzione dei genocidi (sulla base proprio della memoria di quanto accaduto in Europa).

Accanto a questi fatti significativi i thread dei miei social sono anche pieni di post di chiaro accento antisemita che vanno da quelli che dipingono Primo Levi come un antisionista (implicitamente presumendo che Levi non fosse a favore di Israele, questione assolutamente falsa), a coloro che suggeriscono fantomatici saggi che vogliono mostare come il sionismo fosse connivente con il Nazismo (sulla falsa riga di una errata interpretazione della cosiddetta “zona grigia” cui si riferisce sia Levi sia Hannah Arendt ne La banalità del male), alle indecenti vignette di alcuni autori italiani.

Cosa dire rispetto a tutto quanto accaduto e cosa possono dire gli evangelici rispetto a quanto sta succedendo oggi? Possiamo arrivare ad una lettura diversa del passato, possiamo rinnegare quanto accaduto o sentirci a disagio a ricordare e riportare alla memoria (sempre con senso storico)?

Personalmente, come docente, ho sempre pensato fosse doveroso ricordare questo particolare evento e in più occasioni (anche con una certa fatica) ho accompagnato gruppi di ragazzi a visitare i luoghi dello sterminio per riflettere insieme. Ovviamente questo lo si fa per evidenziare le atrocità che l’uomo può commettere e nella speranza che la comprensione di un evento così tragico porti tutti a riflettere su come tutto questo possa essere avvenuto e si possa cercare di non farlo avvenire più.

Cosa dire rispetto a queste circostanze e rispetto alle riserve mosse o agli insorgenti antisemitismi insorgenti sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra (che sino agli anni 1970 in Europa aveva un atteggiamento diverso rispetto a certe problematiche). 

In primo luogo va ribadita un cosa: l’attuale Stato di Israele è sicuramente frutto del sionismo, ma il sionismo non è mai stato un movimento unitario ed ha avuto al suo interno diverse anime, da quella totalmente laica ricollegantesi alle idee di Nazione sorte nel XIX secolo a quelle più strettamente religiose (che spesso non si sono neanche riconosciute nel movimento sionista). La dialettica politica e religiosa dello Stato di Israele rispecchia tali dinamiche anche oggi. Il sionismo non ha avuto nulla a che fare con la Shoah che è stata subita da tutti gli Ebrei dell’Europa a prescindere dalle loro scelte politiche vittime di una paura atavica verso il diverso e di una malvagità che si collegava a teorie cospirazioniste che ancora oggi i media diffondono con disinvoltura. Sicuramente si può non essere filosionisti (esattamente come Primo Levi ed Hannah Arendt), ma l’antisionismo (che automaticamente mette in dubbio l’esistenza dell’attuale stato di Israele) va spesso a coincidere con l’antisemitismo che ha avuto come sua conseguenza profonda nella storia dell’umanità la Shoah. Questa cosa non va dimenticata quando si parla di quanto oggi sta accadendo in Medio Oriente.

Lo Stato di Israele oggi è uno stato laico (e molti evangelici dimenticano questo particolare quando ne parlano), una costruzione storica avvenuta nel 1948 e riconosciuta dagli organismi internazionali. Le politiche di questo Stato (che è uno Stato democratico con delle sue peculiarità) come quelle di ogni istituzione umana sono soggette a critica e possono essere assolutamente criticate quando i Governi di Israele fanno delle scelte sbagliate. Come ogni democrazia anche lo stato di  Israele è imperfetto, come lo è qualsiasi istituzione umana. Queste critiche non devono però dimenticare che parliamo ad una popolazione che ha già all’interno una sua dialettica e che è composta da diverse parti che hanno opinioni diverse e su cui si può far pressione. Allo stesso tempo non dobbiamo dimenticare il motivo per cui gli Ebrei hanno costituito questo Stato e il perché gli organismi internazionali lo hanno riconosciuto dandogli legittimità.

Mi rendo conto che gli evangelici mostrano chiare simpatie filo-israeliane ed hanno bene in mente come sia importante commemorare la giornata della Memoria ricordando quanto accaduto ormai più di 80 anni fa in Europa. Allo stesso tempo dobbiamo qui ricordare una serie di questioni:

  1. Lo Shalom (la pace) anche per Israele è una delle costanti della predicazione biblica. Un credente non può aprioristicamente appoggiare un conflitto (anche giusto) se questo provoca un cattivo uso del mezzo bellico, provocando dolore anche contro coloro che non dovrebbero essere coinvolti. Pregare per la pace in ogni circostanza non è sbagliato;
  2. Israele (il suo Governo) possono essere criticati come ogni governo umano. Se le scelte dell’attuale Primo ministro israeliano e del suo Governo sono e sono state sbagliate non c’è nulla di male nel dirlo, senza con questo dubitare della stessa esistenza dello Stato;
  3. Non bisogna dimenticare della presenza cristiana in Palestina. Come afferma un articolo di Christianity Today di qualche mese fa (https://www.christianitytoday.com/ct/2023/october-web-only/israel-hamas-war-palestine-evangelical-christian-zionism.html?fbclid=IwAR15ztDoKpEe1XCIC_iUAH3euHKAMXUpgyMRuel25lzBckvC6fS-I21jM4M) nel territorio israelo-palestinese, la maggior parte dei credenti sono di origine palestinese e non ebraica. Le ragioni possono essere molteplici, ma dobbiamo tenere in considerazione anche questo fatto, all’interno di una situazione di estrema complessità.

Tutto ciò e le critiche che possiamo muovere ad una situazione complessa e delicata non ci devono far dimenticare cosa è successo e non devono neanche farci dimenticare il ruolo importante che gli Ebrei hanno avuto (e hanno) nella storia della salvezza. Pertanto rimane sempre nostro dovere civico e di credenti ricordare cosa è successo non solo il 27 gennaio (che è un’occasione), ma costantemente nella nostra vita e nel nostro impegno.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’articolo Shoah, Giornata della Memoria, Corte Internazionale dell’Aja e qualche altro pensiero proviene da DiRS GBU.

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Il mondo di Moby Dick

“Il nemico nel suo sembiante è meno orribile di quando infuria nel petto dell’uomo”. Così in un passaggio di Young Goodman Brown, racconto breve di Nathaniel Hawthorne. In un certo senso, Moby Dick; or, the Whale (1851) è tutto qui. Il romanzo di Herman Melville (1819-1891) è il grande romanzo epico americano. Così Hawthorne: “Che libro ha scritto Melville! Mi dà un’idea di forza di gran lunga maggiore di quella espressa dai precedenti suoi”. Sesto romanzo di Melville, Moby Dick non è estraneo all’influenza dell’autore della Lettera Scarlatta cui dedica il romanzo, Melville sottolinea come la contemplazione della sua opera “continui ad affondare robuste radici del New England sempre più in profondità nel caldo terreno della mia anima del Sud”.  

Melville è indubbiamente lambito dal trascendentalismo emersoniano, da cui Hawthorne idealmente discende, ma prende le distanze dalla “self-reliance” (“fare affidamento su sé stessi”) e dall’ottimismo circa la natura umana e il mondo che lo connotano. È certamente possibile leggere l’opera di Hawthorne puramente in termini di critica al moralismo, all’identitarismo e all’ipocrisia della società puritana, una critica affine a quella che in Stevenson e Wilde investe la società vittoriana, Melville ravvisa nondimeno nel buio che la percorre qualcosa che informa la natura dell’uomo, Nell’alzare il velo di rispettabilità che cela i mali del mondo puritano, come di quello vittoriano, i tre autori mettono sì in luce il degrado e l’alienazione morale e spirituale di un intero ambiente, ma paiono nel contempo identificare all’interno dell’uomo la fonte del male.

Il giovane brav’uomo, il signor Brown, incarna tutto ciò. Di giorno è esemplificazione dell’ideale di integrità, innocenza e purezza puritano. Di notte percorre la foresta per prendere parte al Sabbat. Là si scopre in buona compagnia. Vi si trovano tutte le cariche puritane più importanti e insospettabili. Quel Sabbat è ciò che infuria dentro l’uomo, là dove con il favore delle tenebre rimane celato e taciuto. Due sono allora i signor Brown, così come non c’è Jekyll senza Hyde, né Dorian senza il suo ritratto e non c’è Ismaele senza Achab.   

Come Hawthorne e i trascendentalisti, John Milton, William Wordsworth e S. T. Coleridge esercitano a loro volta una profonda influenza su Melville. Un giovane Herman, insegnante di letteratura inglese presso la Sikes District School, li integra nel curriculum di studi. Un ruolo non meno importante è quello giocato dalla cultura classica. Ancora bambino, Melville ne intraprende lo studio a scuola e continua a coltivarla nel tempo. Il solco che essa lascia è profondo e pervasivo. Infine, il mare. Melville è, tra le altre cose, uomo di mare. Naviga. Partecipa a una spedizione a bordo di una baleniera (la Acushnet). Visita luoghi esotici e remoti, tra i quali la Polinesia.  

Pur nella loro eterogeneità, tutte queste fonti letterarie o esperienziali trovano un denominatore comune nella Bibbia (la Bibbia di re Giacomo, la King James o Versione Autorizzata, 1611). In Melville la Bibbia è grammatica e sintassi del pensiero. I riferimenti e le allusioni alla Bibbia nelle sue opere sono innumerevoli, ma è il tessuto implicito delle Scritture a costituire la sostanza stessa della prosa e del pensiero. Come una balena non sa di essere immersa nell’acqua, né può vivere senza di essa, così in Melville le Scritture sono l’elemento essenziale che informa pensiero, immagini, simbolismo, lessico e fraseologia, elemento in ordine al quale ogni altra fonte trova la propria collocazione e senza il quale Moby Dick non esisterebbe. Non c’è peraltro in Melville conflitto tra elemento classico e biblico. Al contrario, i due si completano e alimentano a vicenda andando a formare una sorta di sfondo unico sul quale proiettare i significati. Quello di Melville è ricorso a un metodo mitico ante litteram che ha nel Paradiso Perduto il proprio modello. La vita per mare, a sua volta, trova tali e tante rappresentazioni nelle Scritture – su tutte, quella del libro di Giona. In ultima analisi, è la Bibbia stessa a fornirci le chiavi ermeneutiche del testo.

Ma quale Bibbia legge Melville? Herman nasce nel 1819 da padre unitariano (movimento cristiano del tutto sovrapponibile al trascendentalismo – vd. S. T. Coleridge) e madre calvinista (la famiglia di lei appartiene alla Dutch Reformed Church). Con la morte del padre (1832), l’influenza del calvinismo materno si fa preponderante nella sua vita. È attraverso lenti calviniste che la lettura delle Scritture è filtrata e con essa un’intera visione del mondo e dell’uomo. Nondimeno, negli scritti di Melville si avverte da subito la tensione tra questa matrice e l’afflato trascendentalista, tensione che trova una sintesi compiuta in Moby Dick.

Traspare dall’opera di Melville un tentativo costante di decostruzione delle identità religiose, di riscoperta dell’essenza del messaggio evangelico al di là di quelle identità e delle loro proiezioni nefaste in termini di narrazioni e ideologie dominanti. In successione, Typee, Omoo e Mardi, sullo sfondo della cornice edenica della Polinesia e dei mari del Sud, accendono i riflettori sulla condotta della cosiddetta avanguardia della civilizzazione nella regione e in particolare sulla “glorious cause” della missione cristiana o, per dirla con Kipling, il fardello dell’uomo bianco. L’occupazione delle Sandwich Islands da parte di un gruppo di Metodisti presuntuosi e pieni di velleità induce Tommo a esclamare “Heaven help ‘the Isles of the Sea!’” (ndt “il Cielo aiuti le isole del Mare!” – Typee, Evanston, IL, 1968, 26:195 – le traduzioni dei testi sono di chi scrive). Facendo eco a Is 24:15, la supplica iscrive il contesto direttamente nel testo biblico. Nei due romanzi successivi, la preoccupazione di Melville verso gli sforzi missionari non sembra sfumare. In Omoo l’autore riflette sulla collusione tra religione e commercio, ma pare di scorgere in lui una lacerazione tra il riconoscimento del valore di far conoscere ai popoli insulari il messaggio cristiano e il rigetto totale verso lo smantellamento di strutture sociali e costrutti culturali nativi operato dagli stessi araldi di quel messaggio. “Undoubtedly”, scrive, “the missionaries were prompted by a sincere desire for good; but the effect has been lamentable (“Senza dubbio […] i missionari erano mossi da un desiderio sincero di bene; ma gli effetti si sono dimostrati nefasti” – Omoo, Evanston, IL, 1968, 47:183). E ancora, in Mardi, “the march of conquest through wild provinces may be the march of Mind; but not the march of Love” (“la marcia di conquista attraverso le province selvagge è forse la marcia della Mente, ma non è la marcia dell’Amore” – Mardi, Evanston, IL, 1970, 168:552). 

Quella di Melville non è rinuncia al messaggio evangelico in nome di una visione universalista, equanime e relativista mutuabile da date forme di trascendentalismo. Al contrario, è ricerca di quel messaggio così come si declina nell’amore nel mondo. In questo, la visione trascendentalista contribuisce a mettere a fuoco lo spirito del dettato biblico. Non distante dalle istanze di Melville è lo stesso Hawthorne, il quale nel 1850, un anno dopo la pubblicazione di Mardi, ritrae un mondo, quello de La Lettera scarlatta, in cui chi detiene la Parola ne fa strumento identitario e di potere, là dove la peccatrice Hester Prynne e, da ultimo, la figlia Pearl, sono vera rappresentazione della grazia di Dio nella misura in cui la lettera della legge (la “A” di adultera impressa su Hester) viene in loro trasformata in lettera di perdono e amore (“Amor”).

Intercorre un anno tra la pubblicazione de La Lettera Scarlatta e Moby Dick. La trama del secondo è piuttosto esile. C’è un narratore interno che fa da cornice al racconto e che si imbarca sul Pequod, baleniera il cui capitano è il famigerato e diabolico Achab. Achab ha una gamba sola. L’altra gli è stata tranciata da Moby Dick, un capodoglio bianco. Nella sua ossessione e follia vendicativa, Achab abbandona qualsiasi obiettivo razionale ancorché utilitarista – catturare il più alto numero di balene da cui estrarre olio – e trascina tutto l’equipaggio nella missione suicida di dare la caccia a quell’unica balena e ucciderla. Nell’assalto finale, Achab muore, insieme a tutto l’equipaggio. L’unico superstite è il narratore, che rimane in vita per raccontare la storia.   

 

Ismaele

Il grande tema dei primi tre romanzi di Melville viene recuperato qui da subito e si intreccia con il racconto di formazione e il tema del doppio. Ismaele è il giovane alla ricerca. Come i personaggi di Typee, Omoo e Mardi, anche Ismaele deve affrontare un mondo altro da ciò che vuole apparire. La maschera di innocenza e virtù che indossa è piuttosto caratterizzata da Ismaele come “ipocrisie civilizzate e insulsi inganni”. Ismaele, tuttavia, non si considera altro da tutto questo, ma riconosce in sé lo stesso principio, lo stesso buio. “With the rest me intertwined”, direbbe Whitman. Il suo senso di inadeguatezza, il suo vuoto interiore e la sua alienazione si traducono nella brama del mare come elemento purificatore e nel quale trovare significato. Il viaggio per mare è proprio questo, metafora della vita interiore e della sua elaborazione. Prima di imbarcarsi, Ismaele narra il suo ingresso nella Spouter-Inn a New Bedford. C’è un mendicante tremolante sul selciato, un povero “Lazzaro” (vd. il racconto del ricco e Lazzaro in Lu 16:19-31), così lo chiama, che non può proteggersi in alcun modo dal potente “Euroaquilone” (vd. la vicenda di Paolo di Tarso, la cui nave è sospinta alla deriva da questo vento impetuoso in At 27:14), forte vento freddo di tramontana. Il locandiere non nota altro che una splendida nottata. La miseria del mendicante è il diletto del locandiere. Questa dialettica risalta sullo sfondo biblico a suggerire come quella cui si trova davanti Ismaele è la condizione umana, ma a indicare nel contempo la distanza tra cielo e terra e come “in terra non sia fatto come in cielo”. Ismaele vive in questa tensione, nella lacerazione di chi vuole veder realizzata sulla terra la realtà celeste. È il mondo cristiano per primo a contraddirla e a nascondere la contraddizione sotto un velo di civilizzata ipocrisia. 

Melville fornisce, nondimeno, a ogni personaggio un doppio, o più di uno, che lo aiuti a elaborare la propria condizione e giungere a un superamento. Il doppio di Ismaele, il primo, è Queequeg, un pagano! La contrapposizione tra Ismaele e Queequeg non è soltanto contrapposizione tra civiltà e barbarie, ma tra cristianesimo e paganesimo. A New Bedford i due sono esposti alla religiosità l’uno dell’altro. In un primo momento entrambi assistono al culto nella Cappella del Baleniere, culto presieduto dal rev. Mapple, lui stesso un tempo baleniere. Il suo sermone verte su Giona. Il pulpito elevato e a forma di prua dà un senso di ostentazione e di giudizio che fa da contorno a un sermone in cui viene messo in risalto il rigore della legge di Dio, la sua intransigenza, la necessità di non peccare e di pentirsi. È un messaggio che non fa i conti con la complessità e la fragilità della condizione umana, un messaggio cui sotteso è il giudizio e, in definitiva, un messaggio in cui non trova posto il nucleo centrale del libro di Giona e ciò che Giona, e il rev. Mapple con lui, non è in grado di accettare – l’amore di Dio. 

Figlio del re pagano Kokovoko, Queequeg era attratto in giovane età dal cristianesimo. Vi vedeva la possibilità di emancipare il suo popolo dalle superstizioni pagane, trarlo fuori dal buio dell’ignoranza e condurlo a una maggiore luce e felicità. La sua esperienza a bordo di una baleniera l’aveva presto convinto che “even Christians could be both miserable and wicked; infinitely more so, than all his father’s heathens” (“i cristiani fossero a loro volta miseri e malvagi; e infinitamente di più dei pagani di suo padre”). Giunto infine a Nantucket, era ormai persuaso che il mondo fosse malvagio a ogni sua latitudine e che tanto valesse morire da pagano. Mentre prepara il suo idolo, Yojo, per le preghiere serali, Queequeg ricambia il favore ed estende a Ismaele l’invito ad assistere alla sua cerimonia. Ismaele esita, ma tra sé e sé pensa: “What is worship? – to do the will of God – that is worship. And what is the will of God? – to do to my fellow man what I would have my fellow man do to me – that is the will of God. Now, Queequeg is my fellow man” (“Che cos’è in fondo l’adorazione? – Fare la volontà di Dio – ecco cos’è l’adorazione. E qual è la volontà di Dio? – Fare al mio prossimo ciò che vorrei lui facesse a me [vd. Mt 7:12; Lu 6:31] – ecco qual è a volontà di Dio. Ora, è Queequeg il mio prossimo”). Una volta di più, il senso profondo del testo è calato nello stampo della Scrittura. Assistendo alla cerimonia pagana, Ismaele non partecipa all’adorazione dell’idolo di Queequeg, ma per la prima volta adora Dio. Lo adora nella misura in cui supera i confini identitari dell’io per stare con lui – ecco cos’è l’amore. 

Solo ora e insieme a questo compagno Ismaele può affrontare il mondo, rappresentato dal Pequod. Gli armatori del Pequod sono i capitani Peleg e Bildad, due Quaccheri. Lungi dal coltivare luce interiore e pacifismo, i due sono paradossalmente caratterizzati come uomini bellicosi e materialisti. Il capitano Bildad ostenta pietà trascorrendo gran parte del suo tempo piegato sulla sua Bibbia, ma poi non disdegna di piegare la propria regola di assumere soltanto nativi convertiti ai propri interessi quando si accorge dell’abilità di Queequeg con l’arpione. Per gran parte del corpo centrale del romanzo la figura di Ismaele quasi scompare. Fa capolino di tanto in tanto, per poi riprendere tutta la scena alla fine. Quando riaffiora nei capitoli centrali, vediamo come il mondo non sia cambiato. Rimane quel luogo oscuro dal quale era profondamente alienato. Sta cambiando lui. Sta imparando a vivere nel mondo, non in ordine alla possibilità di farlo proprio o di essere ad esso assimilato, ma in ordine alla capacità di amarlo. L’amore diventa così lo spazio dell’universalità, dell’equanimità e della verità.

Se la figura di Ismaele quasi scompare per la gran parte del corpo centrale del romanzo, è perché deve cedere il passo ad Achab. Achab incarna il buio e il vuoto di Ismaele. Il pieno superamento della propria condizione può avvenire unicamente in ordine a una liberazione dalle tenebre dell’io. Achab deve morire. Nell’ultimo assalto a Moby Dick, Ismaele attraversa una sorta di morte, simile a quella di Giona trascinato negli abissi dentro un grande pesce. Con Ismaele muore Achab. Come Giona, Ismaele riaffiora, senza Achab, lui solo, in una specie di rinascita, su di un asse di legno. È un resto cruciforme della bara di Queequeg. La morte di Queequeg è la sua vita. Per tre giorni e tre notti, dice il racconto di Giona, il profeta rimane nel pesce. Il riferimento temporale prefigura, nelle parole evangeliche, la morte di Cristo. Tutto nella scena ha la funzione di comporre l’identificazione tra la morte e la resurrezione di Cristo e Ismaele. In forza di tale assimilazione, il narratore viene redento dall’io e da tutte le sue proiezioni (Achab) per nascere di nuovo come persona libera di narrare. Come l’antico marinaio di Coleridge, anche Ismaele è chiamato a dare conto di quanto accaduto, non già come esercizio di espiazione perpetua, ma di amore. L’amore segna il passaggio alla maturità, una maturità capace di abbracciare la meraviglia del mondo così come tutte le sue ingloriose imperfezioni, una maturità fatta a un tempo di intelletto ed emozione, conoscenza e grazia. Ora il narratore Ismaele, libero da Achab, la via dell’io, può istruire altri nella via di Dio.

 

Achab

Achab è il personaggio centrale di Moby Dick. Ne abbiamo considerato alcuni aspetti in funzione di Ismaele, ma più di qualunque altra figura il suo personaggio ha una costruzione indipendente in relazione al simbolo dominante nel romanzo, Moby Dick. Achab è personaggio prometeico, incarnazione di hybris e ossessione monomaniacale, egocentrismo e vendetta. Tutto questo però altro non è che ciò con cui Achab riempie il baratro interiore che tutte le acque dell’oceano non sono in grado di colmare. La sua figura assurge al piano del mito sullo sfondo metafisico e mitologico del mondo della cetologia e dello sfruttamento dei capidogli, che tanta parte del corpo centrale del libro occupa. Ciò che inizialmente appare una vendetta personale del capitano contro la creatura che l’ha menomato assume presto i contorni dell’odio puro e, da ultimo, di sfida cosmica. Il cielo e il suo sole diventano suo nemico. Come Satana nel Paradiso Perduto odia i raggi del sole, perché gli ricordano il bene che egli ha deciso di sfidare, così Achab, nell’atto di fare a pezzi il quadrante con cui dovrebbe orientare la navigazione, maledice gli occhi che si alzano “to that heaven, whose live vividness but scorches him, as these old eyes are even now scorched with thy light, O sun!” (“a quel cielo, la cui lucente vividezza non fa che bruciarlo, come questi vecchi occhi continuano a essere bruciati dalla tua luce, O sole!”). La sfida di Achab è lanciata contro tutto ciò che costituisce un limite al suo io e in definitiva contro il limite ultimo, incarnato nella balena bianca. “I now know that thy right worship is defiance” (“ora so che la tua vera adorazione è la ribellione”). Là dove Ismaele comprende che la vera adorazione di Dio risiede nell’amore, Achab la identifica nella ribellione all’Altro in quanto limite al proprio io. Ciò che Ismaele abbraccia è ciò che Achab sfida. Sarà il dio Apollo, il Pequod il suo carro che trascina il sole dove vuole. Sarà Poseidone, colui che controlla i mari. La bussola che con arti demoniache Achab fabbrica, a sostituire il quadrante, funziona alla perfezione. “Ahab can mend all” (“Achab può aggiustare qualunque cosa”), dice di sé il capitano, in preda a delirio di onnipotenza. “In his fiery eyes of scorn and triumph, you then saw Ahab in all his fatal pride” (“Nei suoi occhi ardenti di disprezzo e trionfo, si vedeva Achab in tuo il suo fatale orgoglio”). La sua assimilazione al Satana di Milton è qui completa. Satana è re d’inferno e Achab dio dei mari, ma come Satana è schiavo della sua mente, dell’inferno che porta dentro ovunque vada, così Achab non può liberarsi di Moby Dick, mostro marino megafono cosmico della sua hybris. La libertà vista come assenza di limiti è allora schiavitù del proprio io, sul cui altare Achab deve sacrificare sé stesso, il Pequod e tutto il suo equipaggio. 

Se Moby Dick può essere considerato una sorta di doppio di Achab, quale proiezione della sua volontà di potenza, un altro doppio ne compone la figura, là dove altri tre vengono in sequenza respinti. Il primo è Fedallah, una sorta di subconscio demoniaco del capitano. Achab introduce lui e la sua diabolica ciurma sul Pequod di soppiatto. Parte oscura dell’animo umano, come Hyde, Fedallah deve rimanere nascosto fino al primo inseguimento, quando il corso fatale del capitano è ormai sancito e può dunque venire alla luce. La presenza malvagia di Fedallah è particolarmente evidente quando Achab, sprezzante, sfida la sapienza di Dio. La sua realtà corporea è messa sempre più in dubbio dall’equipaggio. Come il secondo sé del capitano di Conrad nel Compagno segreto emerge dagli abissi dell’inconscio sul ponte in quello che viene descritto come il sembiante di un’entità spirituale, così Fedallah appare come una sorta di ombra oscura del capitano. Quando questi profetizza eventi straordinari che debbono accadere prima che Achab muoia e Achab inizia a percepirsi immortale, sentiamo la eco di Macbeth e scorgiamo in lui qualcosa dell’illusione che Satana accarezza nel Paradiso Perduto. “What […] hidden lord and master, and cruel, remorseless emperor commands me?” (“Quale oscuro signore e padrone, e imperatore crudele e spietato mi comanda?”). Il male e l’io si sono impossessati di lui. Come un dr. Jekyll ante litteram, al termine della storia Achab diventa Fedallah. Come Satana, Achab dà la colpa al fato. Come Macbeth, colui che ha un ruolo di comando viene soggiogato e comandato da un padrone interiore.

Nel Canto di Natale (1843), Dickens manda al signor Scrooge tre fantasmi perché gli mostrino dove conduce il suo corso fatto di avidità, egoismo e assenza di amore. Melville fa lo stesso con Achab. Gli manda tre marinai, altrettanti doppi, che rappresentano il bene o l’innocenza e che potrebbero modificare o per lo meno mitigare il suo destino. 

Per primo compare Bulkington, simbolo di onestà e franchezza, di coraggio, di quell’equanimità di fronte alle molte e varie onde dell’esperienza umana e del disegno cosmico che Achab non farà mai propria. Bulkington viene sepolto nel capitolo 6 per permettere all’ossessione di Achab di fare il suo corso, ma rimane nell’immaginazione del lettore e lì ricompare quale contraltare della follia monomaniacale del capitano. 

A lui succede Starbuck. Questi rivolge le proprie energie alla conversione del capitano, ma è dominato da una paura che procede dalla gnosi. In lui spirito e corpo, cielo e terra, non possono incontrarsi. Egli antepone l’innocenza personale al bene altrui. Dinanzi alla possibilità di salvare l’equipaggio, togliendo la vita ad Achab, Starbuck preferisce preservare la propria anima da colpe. Il movimento che lo contraddistingue è diametralmente opposto a quello di Ismaele, che per amore di Queequeg accantona il proprio interesse. Starbuck è personificazione di una virtù autoreferenziale e inefficace. 

Come Giona e Ismaele, Pip, l’ultimo dei tre marinai deputati a distogliere Achab dai suoi sordidi propositi, sperimenta una sorta di morte e rinascita, trascinato com’è negli abissi dove viene “drowned the infinite of his soul” (“annegato l’infinito della sua anima”), ma “kept his finite body” (“preservato il suo corpo finito”). Pip vede negli abissi l’onnipresenza di Dio, il suo piede sul pedale del telaio, e ne parla. Il resto dell’equipaggio lo ritiene folle. Il suo battesimo annega la sua identità umana e gli restituisce un’identità altra. Svestito dell’umana ragione, Pip è rivestito della sapienza celeste. Paolo di Tarso parla della follia della croce, che fa da contraltare a chi cerca da un lato forza, dall’altro sapienza umana. “So man’s insanity is heaven’s sense; and wandering from all mortal reason, man comes at last to that celestial thought, which, to reason, is absurd” (“Così la pazzia dell’uomo è la sapienza del cielo; e allontanandosi da ogni umana ragione, l’uomo giunge alla fine a quel celeste pensiero, che, per la ragione, è insensato”). Pip sfida Achab ad abbandonare la propria follia umana per abbracciare la pazzia di Dio. Più di chiunque altro, Pip scuote le fondamenta interiori di Achab. Il capitano lo avverte parte di sé, intessuto intimamente alle corde del suo cuore. Nel suo amare l’austero e malvagio capitano incondizionatamente, Pip incarna la sapienza e la grazia di Cristo. Come il sole, Achab finisce per respingere anche lui.

Moby Dick

Moby Dick è il limite, è Dio, e Moby Dick è proiezione dell’io di Achab. Come il Dio di Blake, agnello e tigre, Moby Dick è sfuggente forza indomita e indomabile, energia e libertà, terrore e furia, candore e innocenza. Ha un suo giaciglio nel buio degli abissi, ma affiora in tutto il suo nitore. Moby Dick è entità cosmica e simbolo, essere mitico e trascendente, corporeo e metafisico. Alla fine del cap. 41 viene identificato come “Job’s whale” (“balena di Giobbe”), il leviatano di Giobbe, spaventosa creatura marina che sfugge al controllo umano. Dio ne parla nel contesto dell’elencazione delle opere imponderabili della sua creazione al fine di mostrare a Giobbe, che lo interroga e mette in dubbio il suo disegno, l’infinita e inaccessibile sapienza di Dio, a un tempo fuoco consumante e inesauribile grazia. Anche il leviatano ubbidisce alla sua voce. Giobbe dichiara la resa e s’immerge insieme alla creatura ancestrale in Dio. Non così Achab, per il quale le acque rimangono quell’elemento interiore in cui Moby Dick può essere solamente l’oppressore. 

Moby Dick è anche la balena di Giona. Il sermone del rev. Mapple prefigura la vicenda di Achab e del Pequod. Giona non vuole ubbidire a Dio, che gli ordina di andare a Ninive, grande città assira, e rivolgerle il suo messaggio. Si imbarca per contro alla volta di Tarsis, agli antipodi di Ninive. Il suo intento è quello di allontanarsi dalla presenza di Dio. Ma Dio manda una grande tempesta. Giona sa di esserne il responsabile e si fa gettare fuori bordo dai marinai. Al che, Dio manda un grande pesce, che inghiottisce Giona. La creatura marina incarna a un tempo giudizio e salvezza. Trascina Giona nelle profondità del mare, ma poi lo restituisce alla vita. Dio vuole insegnare a Giona la sua infinita misericordia, là dove Giona conosce di lui soltanto il giudizio. Giona è governato da una giustizia vendicativa verso l’oppressore assiro. La sua è la hybris di chi cerca di salvare la propria identità personale e nazionale e, avendola vista violata, invoca una giustizia retributiva. 

Il disegno di Dio è teso a redimere Ninive. Achab la vuole annientare. Moby Dick è la sua Ninive. La sua è una giustizia umana che si contrappone alla giustizia di Dio. La giustizia umana salva l’io a spese dell’altro. La giustizia di Dio salva l’altro a spese di Dio. La reazione di Giona alla conversione e al perdono di Ninive è esemplare. Risentimento, atteggiamento di sfida aperta, ribellione, superbia. Giona è fino in fondo Achab. Dio nella sua grazia continua a cercare di ricondurre Giona alla sua presenza. Gli manda un ricino come riparo dal sole e ulteriore tentativo di insegnargli la sua compassione, così come Melville manda ad Achab tre diverse figure perché si produca in lui μετάνοια (metànoia, conversione). È un amore quello di Dio il quale investe l’alterità di uomini, donne e bambini che non fanno parte di Israele, ma è un amore che investe altresì ogni altra creatura. Il libro di Giona si chiude con le parole: “Tu hai pietà del ricino […] e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame”. L’antico marinaio dell’eponima ballata di Coleridge afferma la sua hybris e alienazione dall’altro uccidendo un albatros. L’identificazione con la sua colpa, che in definitiva è identificazione con la morte di Cristo (la ciurma appende l’albatros cruciforme al collo del marinaio) lo porterà a benedire un groviglio di serpenti acquatici. Al termine della vicenda, l’antico marinaio ha imparato ad amare ciò che non è amabile, ogni creatura di Dio, dalla più piccola alla più grande. 

La visione trascendentalista e biblica si fondono qui e interrogano il lettore. Chi può amare Moby Dick? Chi può amare il mondo, il Creatore e ogni creatura? Il colore bianco di Moby Dick “is at once the most meaningful symbol of spiritual things, nay, the very veil of the Christian’s Deity; and yet is the intensifying agent in things most appalling to mankind” (“è a un tempo il simbolo più significativo delle cose spirituali, anzi, il velo stesso della Deità che il cristiano adora; eppure, esso è anche l’agente intensificante nelle cose per l’umanità più terribili”). Abbiamo visto come Moby Dick sia l’una o l’altra cosa per i nostri personaggi, giudizio o assoluzione, oppressione o redenzione.  Nelle parole di Ismaele: “The mystical cosmetic which produces every one of her hues, the great principle of light, for ever remains white [..] and […] would touch all objects” (“la cosmesi mistica che produce ognuno dei suoi colori, il grande principio della luce, rimane perennemente bianco […] e […] lambiva ogni oggetto”). Il colore bianco pervade ogni cosa, è il principio stesso della luce. Tale cosmesi, il Logos dell’universo, pertiene alla realtà fisica, ma è nel contempo realtà “mistica”. Moby Dick è prisma che rifrange le tonalità dell’animo umano. È il bianco, la luce, che consente alle sfumature di manifestarsi. È il principio in cui sussistono tutte le cose e contro cui si infrange l’idolatria dell’io. Come può esserne proiezione? Soltanto nella misura in cui Moby Dick assorbe in sé il male, l’orgoglio, l’egocentrismo e la ribellione dell’uomo; soltanto là dove se ne fa carico, diventando il luogo in cui buio e luce, giudizio e giustificazione si incontrano. 

Moby Dick parla dell’uomo, della società degli uomini, del creato e di Dio. Li contrappone, li interroga, li trascina in mezzo al mare, fino agli abissi, per poi farli riemergere. Moby Dick sonda le profondità marine dell’animo umano e gli spazi metafisici, la terra fisica e il cielo. Contesta ipocrisia e identitarismo, nazionalismo e colonialismo culturale. Contesta l’io e le sue maschere, l’io e la sua hybris, l’egocentrismo, il potere, lo sfruttamento e la sopraffazione. A tutto questo contrappone Cristo, la balena bianca, fine dell’io e inizio dell’amore.       

                                                                                                                                                                         Filippo Falcone

 

       

                                          

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Così cantava Vasco Rossi nel lontano 1981:

Siamo solo noi, Quelli che ormai non credono più a niente E vi fregano sempre

Siamo solo noi Che tra demonio e santità è lo stesso Basta che ci sia posto.

La canzone mi è venuta in mente leggendo la Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede, Fiducia Supplicans (18/12/23) in cui la Chiesa Cattolica apre alle benedizioni delle coppie di fatto e delle coppie dello stesso sesso (in situazioni irregolari).
Il “noi” dell’orgoglio di Vasco Rossi naturalmente siano “noi evangelici”, quelli duri e puri, quelli che recitano i testi ufficiali delle chiese della Riforma, i cinque sola, gli evangelicali! Tutto il mondo ormai apre ai diversi stili di vita e di relazioni rispetto al dettato della creazione, anche la millenaria Chiesa di Roma … ormai, siamo rimasti solo noi!

Veramente? E Putin e Kirill dove li metti? E gli ayatollah iraniani dove li metti?

Che bella compagnia! C’è qualcosa che non funziona. Se la tribuna di chi punta il dito contro la deriva denunciata già da Paolo in Romani 1 si è così notevolmente ridotta e alla fine sul pulpito ci ritroviamo con così simpatici co–belligeranti, allora qualche cosa è andato storto, non funziona. Se permettete, l’amore per il vangelo, la sottomissione alla Bibbia e la compagnia di tutti i Riformatori messi insieme, almeno a leggere le loro opere – un po’, meno a seguire il loro esempio (sic!) – mi impongono di abbandonare immediatamente quel pulpito e non essere contato, per denunciare una distorsione del disegno di Dio, in compagnia di assassini, autocrati e tagliagole di ogni risma. Vade retro Satana!

Ma dove andiamo? Per il momento cerchiamo di capire il documento vaticano.

Come sempre si fa con ogni cosa che si scrive, a qualsiasi latitudine, va letto senza pregiudizi del tipo «ma quello è un gesuita furbo». In genere questo tipo di documenti parla a due mondi: a quello interno, e la cosa è evidente nella stessa struttura della Fiducia Supplicans. E parla anche al mondo più ampio in ragione del ruolo storico e sociale dei soggetti coinvolti. Non mi sento particolarmente toccato in quanto protestante (Approccio Identitario al Cattolicesimo) ma leggo e rifletto in ragione della testimonianza al vangelo. Questa deve essere sempre la stella polare dell’approccio al cattolicesimo: la terzietà del vangelo rispetto a cattolici … ed evangelici!

Fatta questa premessa, il documento, è vero, ha lo scopo di inquadrare un approccio spirituale e teologico (il concetto di benedizione) nei confronti delle «coppie dello stesso sesso» o in condizioni irregolari. In buona sostanza, questa possibilità viene posta all’insegna di quelli che il Catechismo definisce “sacramentali” (art. 1677–1679) tra i quali occupano un posto importante le “benedizioni”. Ed è questo il cuore del documento, lo sforzo di articolare e ricondurre al ruolo che la Chiesa vede per se stessa lo straordinario e ricco mondo biblico del concetto di “benedizione”. Benedizione in senso discendente da Dio agli uomini (si parte da Nm 6) e benedizione in senso ascendente (dalla terra al cielo nel senso di lodare e benedire Dio).

«Dio comunica alla chiesa il potere di benedire» attraverso Cristo. La chiesa è il sacramento dell’amore infinito di Dio (par. IV). E poi si finisce con Maria. Questo, in sintesi, il problema teologico tra cattolici ed evangelici che anche in questo caso ruota intorno alla concezione che la Chiesa di Roma ha di se stessa. Non che tra evangelici e protestanti sia chiaro che cosa significhi una chiesa che “benedice”. Però, questo è sempre e solamente il nucleo della distanza.

Non ci dedichiamo a questa distanza ma guardiamo al tema biblico della “benedizione”. Il documento distingue tra il piano liturgico, quello sul quale «la benedizione richiede che quello che si benedice sia conforme alla volontà di Dio espressa negli insegnamenti della Chiesa», più avanti si afferma «sia in grado di corrispondere ai disegni di Dio iscritti nella Creazione …». E questo è il caso del matrimonio tra un uomo e una donna che il documento cerca di mettere al riparo e distinguere rispetto ad altre situazioni.

«Proprio per evitare qualsiasi forma di confusione o di scandalo, quando la preghiera di benedizione, benché espressa al di fuori dei riti previsti dai libri liturgici, sia chiesta da una coppia in una situazione irregolare, questa benedizione mai verrà svolta contestualmente ai riti civili di unione e nemmeno in relazione a essi. Neanche con degli abiti, gesti o parole propri di un matrimonio. Lo stesso vale quando la benedizione è richiesta da una coppia dello stesso sesso» (39)

E c’è l’altro piano in cui le benedizioni, in tutte e due le forme, discendente e ascendente, si ritrova, ed è quello pastorale: «quando si chiede una benedizione si sta esprimendo una richiesta di aiuto a Dio» ed è questa circostanza, che si può incontrare per strada, in un pellegrinaggio, nei gangli della vita, che deve essere valorizzata. È il piano della ricchezza della pietà popolare nel quale le benedizioni sono una risorsa pastorale piuttosto che un rischio.

«In questi casi, si impartisce una benedizione che non solo ha valore ascendente ma che è anche l’invocazione di una benedizione discendente da parte di Dio stesso su coloro che, riconoscendosi indigenti e bisognosi del suo aiuto, non rivendicano la legittimazione di un proprio status, ma mendicano che tutto ciò che di vero di buono e di umanamente valido è presente nella loro vita e relazioni, sia investito, sanato ed elevato dalla presenza dello Spirito Santo. Queste forme di benedizione esprimono una supplica a Dio perché conceda quegli aiuti che provengono dagli impulsi del suo Spirito – che la teologia classica chiama “grazie attuali” – affinché le umane relazioni possano maturare e crescere nella fedeltà al messaggio del Vangelo, liberarsi dalle loro imperfezioni e fragilità ed esprimersi nella dimensione sempre più grande dell’amore divino» (31, corsivo mio).

 Nell’articolo 32 si parla poi di “grazia”, una grazia che opera nella vita di coloro che non si ritengono giusti e una grazia in grado di orientare ogni cosa secondo i misteriosi ed imprevedibili disegni di Dio.

In tutto questo documento si rileva un tema che tocca da vicino ogni cristiano, ogni organizzazione, ogni chiesa, quale che sia la sua autocomprensione. È il rapporto che insiste, e deve essere pensato alla luce della contemporaneità, tra uno spazio delineato dalla grazia, una grazia che noi definiremmo salvifica e che nella teologia cattolica si esprime nel concetto di sacramento, e tutto ciò che sta intorno. Ci riferiamo a quello che continua a essere il mondo di Dio, pur se un mondo che “giace nel maligno” e che manifesta la sua lontananza da Dio anche nella distorsione del disegno di creazione. Come, per esempio, nel caso dell’aggettivo “irregolare” che si aggiunge al sostantivo “coppie”.

Se volessimo dare all’articolazione di questi due spazi un’immagine che riprende il vocabolario evangelico, dei vangeli, possiamo riprendere le parole di Gesù nel Sermone sul monte. Posto che Dio faccia piovere sui giusti e sugli ingiusti, che faccia levare il sole sui buoni e sugli empi (Mt 5) viene da chiedersi: in che modo i discepoli di Gesù Cristo, dopo aver mostrato a tutti l’ombrello della grazia salvifica rappresentato da Gesù, dalla sua opera compiuta sulla croce – egli sarebbe anche il parasole nei confronti dei raggi infuocati della santità e della giustizia di Dio che giudica il peccato, e il peccatore – in che modo, dunque, organizzare la compresenza e la convivenza nello stesso mondo di Dio? In che modo confrontarsi e vivere con, insieme, alle coppie irregolari? Lanciamo loro addosso, ogni volta che li incontriamo, il sermone di Jonathan Edwards, Peccatori nelle mani di un Dio adirato? Manifestiamo tutto il nostro disprezzo per cose che non si possono neanche raccontare? Ci lamenteremo di un mondo sottosopra e ci iscriveremo a un partito che vuole raddrizzarlo? Nel documento si legge: «quando le persone invocano una benedizione non dovrebbe essere posta un’esaustiva analisi morale come precondizione per poterla conferire. Non si deve richiedere loro una previa perfezione morale.» Più avanti si fa l’esempio di benedizioni impartite in un carcere, ai carcerati (27).

La richiesta di una benedizione esprime ed alimenta infatti «l’apertura alla trascendenza, la pietà, la vicinanza a Dio in mille circostanze concrete della vita, e questo non è cosa da poco nel mondo in cui viviamo. È un seme dello Spirito Santo che va curato, non ostacolato».

Ciò che il documento ispirato da Francesco tenta di fare, riflettendo sul senso biblico di “benedizione”, è ciò che altre tradizioni cercano di articolare quando distinguono, per esempio, tra la grazia salvifica e la grazia comune. Ecco alcuni indizi:

  • «Desiderare e ricevere una benedizione può essere il bene possibile in alcune situazioni».
  • «Qualsiasi benedizione sarà l’occasione per un rinnovato annuncio del kerygma, un invito ad avvicinarsi sempre di più all’amore di Cristo».
  • «Questo mondo ha bisogno di benedizione e noi possiamo dare la benedizione e ricevere la benedizione».

Questo il documento. Questo il mio sforzo di comprensione. Non si tratta di una ciliegina sulla torta, come è stato definito. Continuo a pensare che bisogna parlare con grande rispetto soprattutto delle tradizioni che non si condividono, in ragione del vangelo prima di tutto e per rispetto dei milioni di miei concittadini che le condividono.

Resta allora il tema: come confrontarsi e vivere con … ? Da evangelico e in ragione della visione della chiesa che trovo nel Nuovo Testamento (sarà anche un po’ confusa ma non mi pare arrivi al sacramentalismo della Chiesa di Roma) e posto che c’è un solo evento in cui la chiesa apre e chiude, vale a dire l’atto della predicazione del vangelo e della Parola di Dio, non credo che si debba arrivare a formule di benedizione per cogliere e valorizzare, tra l’altro, l’apertura alla trascendenza.

Non bisogna incontrare le distorsioni del disegno di creazione di Dio in quanto appartenenti a una categoria socio–teologica come quella di “cristiani”: cristiani liberali, cristiani cattolici, cristiani evangelicali, etc. Il termine cristiani rimanda a Cristo ed è un termine che segnala un evento semiotico, che rimanda ad altro, a Cristo appunto. Questo evento è fatto di testimonianza e riconoscenza e può essere incarnato solo da un uomo, in carne ed ossa, nella sua umanità (ad Antiochia i discepoli furono chiamati cristiani per la prima volta). Non furono i cristiani a essere riconosciuti come discepoli!

Questo significa che le irregolarità vano incontrate da uomo a uomo, da uomo peccatore a uomo peccatore. Nel mentre segnala che le coppie dello stesso sesso non sono secondo il piano di Dio, un cristiano deve confessare di essere peccatore ance lui. Le liste di vizi che troviamo nel NT associano l’omosessualità all’avarizia, per esempio. Per non parlare dell’adulterio e della fornicazione, vero deposito di ipocrisie maschiliste e brodo di coltura di tutte le distorsioni che arrivano anche al femminicidio. Attraverso la rivoluzione sessuale degli anni sessanta del secolo scorso giunge di rimando al cristianesimo un potente richiamo a saper articolare adeguatamente una predicazione del peccato: non solo come preambolo alla predicazione della grazia e del perdono ma anche come costruzione dell’unico piano in cui la fede di chi proclama il vangelo potrebbe incontrare la fede di chi non conosce ancora il vangelo e il perdono che offre, che ha concesso anche alla fede di chi predica.

Se in Fiducia Supplicans si può intravedere una parvenza di una tale ansia, allora essa potrebbe essere fatta propria da chiunque, senza avere bisogno di arrivare a un sacramentale.

Concretamente, in che modo l’idea che lì si esprime nel concetto di benedizione, potrebbe essere trasposto in ambiti in cui si ritiene che la “chiesa” non benedice un bel niente? Due macro–aree in cui ciò che si esprime in chi chiede benedizione e in chi vuole accordarla.

La prima è quella del riconoscimento pieno dei diritti delle persone e delle situazioni che, personalmente, sul piano della predicazione, definirei situazioni di disordine e di peccato. Il peccatore deve poter peccare, senza che gli sia impedito per legge; posti naturalmente tutti i limiti propri del consorzio civile. Come evangelici, nel mentre ci si appella al piano della creazione (uomo e donna nel matrimonio) ci si dovrebbe schierare apertamente per i pieni diritti civili di chi sceglie un’altra strada, una strada, ripetiamolo, che considereremmo peccaminosa.

La seconda macro–area la definirei linguistica e ha a che fare con la valorizzazione delle sfumature. Qualche tempo fa qualcuno mi ha ricordato che a un Convegno Studi GBU abbiamo inviato un relatore gay. Ho fatto presente che Ed Shaw fa parte di un gruppo di pastori e uomini di chiesa che è venuto fuori confessando non la propria omosessualità ma la lotta contro l’attrazione sessuale per lo stesso sesso. Il coraggio di questi fratelli e di queste sorelle deve essere valorizzato, riconoscendo in esso lo stesso coraggio che dovremmo avere noi quando dovremmo confessare pubblicamente la lotta che ci caratterizza nei confronti di un peccato particolare. L’attrazione verso lo stesso sesso non è omosessualità ma è l’onesta condizione di un peccatore che desidera definire la sua identità non in ragione del suo orientamento sessuale ma in ragione di come questo orientamento venga appagato da una relazione intima con Gesù Cristo.

Sono solo due spunti, ma se da evangelici ci impegnassimo in essi saremmo una benedizione, anche senza sacramentali e continuando a predicale il vangelo in cui c’è il perdono e la liberazione.

A questo punto è probabile che si realizzerebbe la condizione di Vasco Rossi: siamo solo noi!

 

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Abbiamo appreso proprio ieri della morte di uno dei maggiori e più controversi intellettuali italiani della seconda metà del XX secolo: Antonio Negri. Negri era un pensatore assolutamente originale di cui, tra l’altro, abbiamo parlato nell’ultimo libro pubblicato dalle edizioni GBU, I discepoli furono chiamati cristiani.

Riflettendo sulla sua dipartita terrena ed a pochi giorni dal termine del nostro Convegno di studi dedicato all’ateismo vogliamo tracciare un breve ritratto e fare alcune riflessioni su questo pensatore. 

Antonio Negri è stato un filosofo protagonista tra fine anni 1960 e inizi 1970 dei movimenti di protesta giovanile di stampo marxista ed extraparlamentare in Italia. Mentre diventa uno dei dirigenti di Potere Operaio, scriveva alcuni dei saggi che lo hanno reso famoso, uno dedicato al filosofo Spinoza (L’anomalia selvaggia) e l’altro al pensiero di Cartesio (Descartes politico). E’ stato un raffinato analista del pensiero di Marx e lo ha cercato di reinterpretare il suo pensiero in chiave più contemporanea. Coinvolto anche attivamente nella nei cosiddetti anni di piombo nel terrorismo rosso, sino ad essere accusato di essere capo della Brigate Rosse (accusa rivelatasi infondata) sarà comunque condannato per altri reati e, dopo essere scappato in Francia, ritornerà in Italia a scontare la sua pensa. Agli inizi del XXI secolo tornerà alla ribalta (all’inizio non in Italia)  con la pubblicazione di Impero con Michael Hardt, testo che avrà un grande successo globale e che riporterà il pensatore italiano alla ribalta del panorama culturale mondiale. 

Negri si è sempre professato ateo ed i due suoi autori classici preferiti, Spinoza e Marx lo sono di fatto stati, anche se consideriamo Spinoza un panteista moderno che ha cercato, da ebreo, di racchiudere la realtà del mondo e del divino in un’unica sostanza. Che interesse potrebbe avere pertanto per il mondo evangelico?

Ci sono diverse piste che si possono percorrere e qui ne proporremo alcune. Negri ha sempre mostrato interesse per i movimenti religiosi. Partendo dall’analisi di alcuni passi di Marx ha sempre pensato che i movimenti religiosi, soprattutto quelli che partono dal basso e che sono poco istituzionali possono essere la premessa di una liberazione effettiva dell’uomo. Lettore avido dal marxista Ernst Bloch che aveva analizzato qualche decennio prima il pensiero di T. Müntzer, visto come un proto-rivoluzionario, ha guardato con attenzione ai movimenti della teologia della liberazione che, a suo parere, sono espressione di quella Moltitudine che potrebbe rovesciare lo stesso Impero o capovolgerne le sorti.. Ovviamente per il pensatore padovano il movimento religioso può essere visto come un inizio e non come il coronamento di un traguardo raggiunto che può essere solo supportato da un movimento politico. 

Nel 2008 una serie di evangelici americani sono entrati in dialogo con Negri e Hardt per analizzare la nozione di impero. Per Wolterstorff ed altri pensatori evangelici Negri aveva colto nel suo testo il fatto che, ormai, l’Impero non potesse più identificarsi con una particolare nazione (nonostante la supremazia statunitense) e che questo avrebbe potuto dare l’occasione soprattutto ai movimenti evangelici che stavano avendo successo nel Sud del mondo di creare spazi di apertura verso il Regno di Dio e una società più giusta e versata alla pace nel mondo. Il libro, che si intitola Christian Alternatives to the Political Status Quo (Alternative cristiane allo status quo politico) si conclude con una replica di Negri che, insieme ad Hardt, ringrazia dell’interesse per i suoi studi ma, allo stesso tempo, ribadisce anche che la sua idea di speranza di pace è qui sulla terra e che rifiuta qualsiasi possibilità che ci sia una trascendenza (un Dio) che possa essere risolutore per ciò che accade nel mondo. Quindi una grande attenzione per i movimenti religiosi informali che possono far parte di quella Moltitudine (altro titolo di un saggio di Negri) che può far cambiare l’Impero ma che, alla fine, non possono essere risolutiva per il costante richiamo che fanno al Divino.

Negri è anche stato un attento lettore del testo biblico. Ho sentito anche diverse sue interviste dove dimostrava la sua capacità di fare esegesi di un testo che trovava assolutamente interessante ma su cui voleva andare oltre. Questo suo interesse, oltre che da una originaria formazione cattolica (comune a molti teorici della sinistra extraparlamentare degli anni 1960/70) derivava anche dalla sua attenzione per il pensiero dell’ebreo Spinoza che, pur essendo stato uno degli iniziatori del cosiddetto metodo storico-critico, da buon ebreo dava grande spazio all’esegesi delle Scritture (si veda i numerosi riferimenti ed anche i tentativi di una esegesi “umana” che sono presenti nel Trattato Teologico-politico). Negri negli anni Novanta, proprio durante gli anni della prigionia, ha elaborato un testo di difficile lettura dedicato al libro di Giobbe ed intitolato il Lavoro di Giobbe. Ciò che affascinava il pensatore padovano era la figura del personaggio biblico che deve faticare per farsi ascoltare da Dio. Non si tratta del rapporto con il trascendente, quanto del continuo dissidio e lotta che attraverso anche il proprio corpo e la sua presenza. Una lettura interessante, ma anche questa priva di una trascendenza (l’entrata di Dio sembra una messa in scena) e che se ci dà pagine assolutamente interessanti nella descrizione del personaggio, allo stesso tempo ci fa capire come si possa leggere un testo biblico in parte non capendone totalmente il senso o dandone uno alternativo a quella di molta esegesi.

Negri non è assolutamente facile da leggere ed i testi citati da me sono di difficile lettura (fa eccezione proprio Impero in cui Hard ha funzionato a mio parere da facilitatore, anche perché il testo è stato pubblicato originariamente in inglese, una lingua che non sempre riesce a tenere conto delle ardite capriole linguistiche dei filosofi continentali), ma allo stesso tempo rimane una figura paradigmatica del panorama culturale italiano. Sicuramente gli evangelici farebbero bene a tenerne conto non per la sua “ateologia” (in cui è rimasto coerente), quanto per le sue riflessioni sul potere, sulla crisi degli Stati e sull’interpretazione del tempo presente, tenendo conto che, come ogni marxista occidentale (pur appellandosi a Lenin talvolta, ma, a nostro parere essendo distante) cerca di costruire un’utopia ed una speranza che può trovare proprio nel testo biblico una risposta ed è una figura che ci permette di confrontarci con quell’ateismo dialogante differente dai modelli scientisti che oggi vanno più di moda.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

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