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di Giacomo Carlo Di Gaetano
Sono passati più di duecento anni da quando il filosofo Emmanuel Kant, nella Critica della Ragion pura, nell’Appendice alla Dialettica trascendentale, dopo aver delimitato “criticamente” il campo del sapere che poi va a sostanziare la scienza, cercò di fare i conti con le “idee” della ragione. Le idee, prodotto intellettivo dalla natura sfuggente e che possono richiamare, ineludibilmente, altre dimensioni dell’esistente, non hanno il crisma di ciò che può condurre alla costituzione di un sapere, come i concetti; tuttavia, sono lì, influenzano, condizionano
Tra esse ce n’è una che è forse più ineludibile di tutte, l’idea di Dio!
Ecco allora che Kant scopre, per queste idee, un altro ruolo, un’altra funzione, quello della regolazione. Non portano a niente, però aiutano a mettere ordine e sistematicità in ciò che conosciamo, che veniamo a conoscere, ci spingono verso un focus, un obiettivo. Regolano il nostro sapere non dogmaticamente ma come impulso, come direzione.
Può tutto questo armamentario concettuale, qui delineato in maniera certamente superficiale, essere trasportato dal campo del sapere, dove Kant lo concepì, ad altri campi, a quello della morale (dove Kant immaginava ben altro), a quello della politica, a quello del vivere associato degli uomini, al tema della pace e della guerra?
Forse non sono il primo a fare questa comparazione ma penso che l’ideale regolativo di kantiana ascendenza possa ben esprimere il posto concettuale che potrebbe occupare il tema della pace in questo momento (scrivo all’indomani della grande manifestazione del 5 novembre a Roma organizzata da Europe for peace).
Il tentativo nasce dal tormento reale e non superficiale che chiunque, e in particolare anche un cristiano che vuole essere sensibile alla globalità del pensiero biblico (noi lo chiamiamo “il consiglio di Dio, At 20:27) avverte e prova nei confronti della guerra in Ucraina. Le condizioni storiche e geopolitiche acuiscono il tormento intellettuale. Sono pochi i paragoni possibili per l’aggressione della Federazione russa. Forse, con molti distinguo, e andando indietro negli anni, se teniamo conto di ciò che è accaduto dal 1991, anno della disgregazione della vecchia Unione sovietica, una crisi che avrebbe potuto avere uno sviluppo simile (ma che non lo ha avuto) si registrò trent’anni prima, nel caso dei missili sovietici a Cuba (anni ’60).
Oggi siamo di fronte a una situazione anomala; i profili relativi alla giustizia sono abbastanza netti: c’è il diritto internazionale, c’è l’autodeterminazione dei popoli, anche a difendersi, c’è lo scontro tra “democrazie” e “autocrazie” tra regimi di libertà (come quello nel quale il sottoscritto può scrivere quello che sta scrivendo, professare la propria fede – si ricordi: la libertà di culto è la madre di tutte le libertà occidentali!) e regimi che reprimono le libertà, guarda caso, anche la libertà di religione, soprattutto quando la religione viene assunta a stampella ideologica della guerra.
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Ma i profili relativi alla pace non sono così netti. La pace è al più un desideratum aleatorio affidato, da chi sul campo dirige le operazioni – di guerra, a un fatalistico domani che verrà, se verrà, considerato lo spettro dell’olocausto nucleare. Può essere utile al riguardo leggere l’ultimo libro di Massimo Rubboli (qui di fianco la cover)
Ed è qui che l’ideale regolativo kantiano potrebbe aiutare. La pace è e deve essere un ideale. Negativamente questo significa che la pace appare senza alcunché di definibile e percettibile: dove potremmo noi rilevare percezioni di pace che andrebbero a sostanziare un concetto, un sapere e delle azioni concrete di pace? Mosca dovrebbe essere il primo posto in cui rilevare queste percezioni, ma assolutamente nulla. E altrove? Si fa a fatica a precipitare la pace dal campo dell’ideale a quello del sapere, dalle idee al concetto.
Positivamente, però, è possibile che questo ideale giunga a regolare il pensiero e l’azione già qui e ora. Quali percorsi questo ideale sta illuminando? La piazza di ieri mi pare un piccolo sussulto che mette in circolo delle vibrazioni. Esse concernono le opinioni pubbliche; sono piazze, non sono ambasciate e diplomazie e tuttavia tante volte nella storia (vedi guerra in Vietnam) le opinioni pubbliche hanno scoperto dei possibili percorsi diplomatici.
La pace come ideale regolativo potrebbe anche mettere d’accordo i sostenitori dell’appoggio (anche militare) a Kiev e i sostenitori del “fermiamo le armi” ora (posizione questa che vive tutta nell’ideale); sì perché il primo, l’appoggio militare, ben si colloca in un tempo e in uno spazio determinato, sempre all’insegna dell’ideale regolativo della pace. C’è un tempo in cui è stato necessario dire no, questo non deve accadere. Che cosa sarebbe accaduto a febbraio, infatti, se l’Ucraina non avesse vissuto quella straordinaria primavera di “resistenza”?
Ma se la pace è un ideale che regola i nostri passi oggi, concretamente, allora lo spazio per la guerra (è triste parlare così) è e deve essere uno spazio e un tempo determinato. Ma il tempo e lo spazio non lo decide la guerra stessa ma lo decide l’ideale regolativo della pace. Abbiamo provato la guerra di resistenza, abbiamo vinto tutti con il popolo ucraino; adesso, facendoci condizionare dall’ideale, bisogna regolare i passi in modo diverso.
Che i governi occidentali, soprattutto europei, trovino lo scatto per creare al loro interno delle task force per la pace, piccoli gruppi di lavoro che mettano insieme magari governanti e opposizioni (altro ideale!), i quali a loro volta si interfaccino a livello continentale e planetario, che bussino alle case dei due belligeranti chiedendo loro di fornire uomini per discutere e ragionare di confini, di territori, di popolazioni, di sicurezza, di deterrenza…. Forse già la volontà di interrompere la fornitura di armi all’Ucraina potrebbe essere un qualcosa da mettere sul piatto delle trattative da intraprendere sul percorso dell’ideale della pace che regola.
È utopistico pensare tutto ciò? Certo, “utopia” e “ideale” non sono la stessa cosa, ma entrambi provengono da quel campo della “realtà” in cui non ci sono certezze, dogmi e ideologie. È il campo dell’umano, della voglia di vivere, in pace, cercando di creare lo spazio per quello che conta veramente.
E che cosa conta veramente, in questo scorcio segnato da una pandemia che ancora non ci lascia, da una crisi climatica che ha mostrato tutta la sua ferocia nella scomparsa delle stagioni, di una crisi economica e migratoria che si infiamma giorno dopo giorno?
Che cosa dobbiamo sperare (altro interrogativo kantiano)?
Nella mente di un cristiano evangelico quello che conta veramente è la possibilità di poter dire agli altri esseri umani che viviamo nell’ultimo tratto della storia quello segnato dalla morte e dalla risurrezione di Gesù Cristo; c’è una buona notizia da far circolare, da far comprendere, da incarnare per mostrare modelli di vita segnati dalla pace, quella che Gesù dà e non quella che il mondo dà (sono le parole dello stesso maestro di Nazaret, Gv 14:27).
Possiamo dire, che la pace non è un fine in sé per l’essere umano? È ancora Kant che ci mette in guardia da un ottimismo superficiale facendo appello a tutta la forza della parte pratica della ragione, allorquando si confronterà con il tema del “male radicale” presente nel mondo degli uomini, e di cui la guerra non è altro che l’espressione più parossistica. No, la pace non è un fine in sé; semmai la pace è un mezzo per altro fine. Con essa, per esempio, gli uomini possono fiorire (M. Volf), e con essa i cristiani possono mettere mano al supporto necessario della buona notizia che hanno tra le mani, la sua proclamazione.
Ecco abbiamo bisogno della pace come un ideale che regoli i nostri passi ora, perché abbiamo questo compito, urgente, per le popolazioni dell’Ucraina e della Russia, ma anche per quelle che vivono a Washington, a Berlino, come a Roma!
Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. 9 Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento (2 Pt 3:18)
L’articolo La pace come ideale regolativo proviene da DiRS GBU.
source https://dirs.gbu.it/la-pace-come-ideale-regolativo/
Riconosci il tuo tempo
Di Davide Maglie, Presidente GBU
Nelle ultime settimane sono stato colpito da notizie di cronaca che mi hanno turbato profondamente, e che hanno a che fare con il contesto in cui opera il GBU. Il 1° febbraio raggiungeva la stampa e i media nazionali la notizia del suicidio di una studentessa dell’Università Iulm di Milano. Una giovane donna di cui non conosciamo il nome, trovata morta nei bagni dell’ateneo. Poco più di un mese dopo, il 3 marzo, è arrivata la drammatica notizia del suicidio di una studentessa della Federico II di Napoli. Si chiamava Diana.
La studentessa di Milano ha lasciato una lettera di congedo dai suoi famigliari, in cui ha cercato di spiegare le ragioni del suo gesto. Sono riconducibili al senso di fallimento generale, al suo non sentirsi all’altezza delle aspettative e dei sacrifici della sua famiglia, per farla studiare. La studentessa di Napoli aveva invece costruito una falsa narrazione sul suo percorso di studi, e potrebbe non aver retto al senso di vergogna o di colpa. Aveva annunciato di essere a ridosso della laurea, quando non era così. Non sono purtroppo casi isolati. Negli ultimi tre anni, dieci studenti universitari si sono tolti la vita. E questi sono soltanto i casi noti.
Una sfida per il GBU
Non dobbiamo sottovalutare la situazione e prendere in seria considerazione lo stato della salute mentale degli studenti cui il ministerio GBU si relaziona. Il 15 febbraio, a seguito dello choc per il suicidio di Milano, Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli studenti dell’Università di Padova, durante il suo intervento all’inaugurazione dell’anno accademico affermava: “Quand’è che studiare è diventato una gara? Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare? Tutto quello che sappiamo è che una vita bella, una vita dignitosa, non ci spetta di diritto, ma è qualcosa che ci dobbiamo meritare”. Parole che devono farci riflettere.
Dobbiamo attivarci come ministerio e quindi attrezzarci e sensibilizzare i nostri collaboratori, soprattutto la nostra prima linea, a porre la giusta attenzione nel riconoscere i segni di disagio, di malessere esistenziale, i segnali non verbali o espressi in modo indiretto. Ma voglio aggiungere qualcosa di personale, che potrebbe spiegare le ragioni del mio turbamento emotivo davanti alle notizie che vi riporto.
La mia esperienza personale
Sono stato uno studente universitario che ha vissuto interruzioni traumatiche nel proprio percorso di vita: la persona con cui condividevo la preparazione dei miei esami, il mio alter ego accademico, era un’amica, si chiamava Cristina, e perse la vita in un incidente stradale la notte di Capodanno del 1992. Ci eravamo salutati qualche settimana prima, a metà dicembre, con l’impegno di riprendere la preparazione degli esami del piano di studi comune, al rientro dalle vacanze natalizie. Tutti gli esami preparati insieme erano andati bene ed eravamo incoraggiati dai risultati conseguiti. Questa notizia produsse in me uno scombussolamento emotivo, acuito da altri traumi sopraggiunti, e mi rese incapace di concentrarmi sullo studio.
In quel periodo mi “tenne a galla” l’impegno attivo in un ministerio di chiesa, che occupava le mie giornate. Dentro di me, però, scavavano il senso di colpa e quello di inadeguatezza: frequentavo le lezioni, ma non riuscivo in alcun modo a concentrarmi nella lettura dei testi di studio. In diverse occasioni uscii di casa per andare a svolgere gli esami, ma non raggiungevo le aule dove avrei dovuto sostenerli. Non riuscivo ad accettare la morte di quella ragazza sensibile, intelligente e generosa. Ero arrabbiato con Dio ed ero entrato in una sorta di buco nero; e se anche all’esterno sorridevo e dicevo “va tutto bene, il Signore è buono e provvederà ai miei bisogni” dentro di me ero emotivamente dilaniato.
Alla fine, l’amore della famiglia biologica e di quella spirituale mi aiutarono a riorientare la mia vita in una direzione più sana e soddisfacente. Superai la fase acuta della crisi e arrivai a completare il ciclo di studi. Ma da solo non ce l’avrei mai fatta. Mi ricordo bene, anche se non ne ho mai parlato volentieri e mai in pubblico, la frustrazione, anzi la depressione, la rabbia, il senso di autocommiserazione che mi avevano bloccato e non mi facevano progredire nel percorso di studi.
Intorno a noi, portatori di sfide nascoste
Cari Staff e studenti che partecipate alle attività del GBU, voglio incoraggiarvi a guardare quanti si relazionano a voi come potenziali portatori di sfide nascoste. Se da voi si sentiranno giudicati non apriranno veramente il loro cuore. Se voi presenterete solo modelli normativi, di alta spiritualità, vi potranno sorridere e dire “amen”, ma non li raggiungerete dove stanno, nel cuore dei loro conflitti. Siate capaci di accogliere e spronare, senza giudicare. Fate emergere il loro senso di fallimento, le loro insicurezze, le loro sfide condividendo le vostre. Non dovete raccontare ogni dettaglio, è sufficiente che siate onesti e aperti, sinceramente interessati alle loro vite.
Ritengo possano aiutarci le parole dell’Ecclesiaste:
Queste parole hanno un’enorme forza magnetica, un flusso poetico che continua a scuoterci, a non lasciarci indifferenti.
Dentro l’esistenza umana trova spazio sia ciò che è desiderabile che quanto eviteremmo volentieri, dentro un ciclo cronologico che assume la forma di oscillazione di un orologio, anzi di un pendolo. Qoelet/Ecclesiaste non è un idealista che auspica, ottimisticamente, un periodo di pace e festa in grado di cancellare la dimensione meno desiderabile dell’esistenza. Come ricorda il biblista William P. Brown: “Ogni attività ha la sua stagione e le stagioni hanno un loro posto nel ritmo dell’eterna rotazione, non è appropriato danzare in tempo di lutto, il pianto non si addice ai festeggiamenti, il silenzio quando sono in gioco i diritti degli oppressi. Persino l’odio ha il suo tempo, come ricordano i salmi di imprecazione.” La vera sfida del saggio è quindi “riconosci quale sia il tempo che stai vivendo”. Discernere il tempo opportuno e quello non opportuno per dire alcune cose, per compiere alcune azioni.
Un appello
Caro lettore, quando “condividi Gesù” sii aperto alle vite delle persone a cui ti stai rivolgendo. Saranno necessarie saggezza e discrezione, in alcune fasi e momenti; ma serviranno anche coraggio e intraprendenza, quando dovrete porre “le domande che contano”, le più difficili, per raggiungere gli studenti dove si trovano e aiutarli veramente, nel tratto di cammino che farete insieme. Ci sarà un tempo per camminare uniti e poi dovrete lasciare andare. Questa separazione alla fine del ciclo di studi è anche naturale e fisiologica.
Certo, speriamo di ritrovarli più avanti quegli studenti, diventati uomini e donne maturi e consapevoli, capaci di raccogliere il testimone e passare ad altre generazioni quel senso di stupore e consapevolezza della vita. Dentro una saggezza divinamente ispirata e cristologicamente orientata e, chissà, collaboratori a vario titolo del GBU. Ma “c’è un tempo per ogni cosa”, riconosci il tempo che stai vivendo e resta in ascolto dei progetti di Dio per la tua vita.
Cross Current Gennaio 2023 – Generosità
Di Lorens Marklund, Compassion Italia e collaboratore GBU
Alla fine del gennaio scorso abbiamo avuto l’occasione con il gruppo di Cross-Current Mi-To di incontrarci personalmente per il quarto modulo di questo percorso. Ci ha accolti per la seconda volta la location dell’ostello Parco Monte Barro. Forse la peculiarità di questo progetto è proprio quella di riunire chi è ora inserito nel mondo del lavoro, considerando i vari impegni. Anche questa volta abbiamo potuto godere di questo tempo insieme, per discutere di temi pratici alla luce della Parola di Dio.
IL TEMA
L’argomento che abbiamo trattato in questo incontro è stata la “Generosità”. Ci siamo chiesti come il Signore voglia che noi esercitiamo la generosità nelle nostre vite, e come poter fare ogni cosa alla Sua Gloria, anche nella gestione del denaro nella nostra vita privata e nelle nostre chiese, e su come poter essere di aiuto e sostegno in qualche servizio.
Abbiamo iniziato il nostro incontro proprio interrogandoci e sfidandoci l’un l’altro a ragionare su quali siano i pro e i contro del denaro, e di come la relazione dell’uomo con esso e con un mondo sempre più economizzato si sia evoluta dalle origini a oggi.
Partendo dalla lettura di numerosi passi biblici, abbiamo realizzato come la generosità non sia una dote di alcuni, una qualità particolare, ma un frutto e un elemento essenziale per ogni cristiano nel cammino con Dio, sintomo di obbedienza e immagine dell’esempio di Cristo.
IL TEMPO INSIEME
Anche questa volta non sono mancati momenti di condivisione, di gioco, di passeggiate in mezzo alla natura per godere dello splendido panorama del luogo; e soprattutto tavolate ricche (…di caramelle gommose 😊) attorno alle quali ridere e raccontarci delle nostre vite.
Passando del tempo nelle riflessioni personali, in piccoli gruppi e poi nei momenti insieme, abbiamo potuto ricordare come ogni cosa sia dono di Dio nelle nostre vite e come sia nostro compito amministrarla al meglio.
Così, arricchiti in ogni cosa, potrete esercitare una larga generosità, la quale produrrà rendimento di grazie a Dio per mezzo di noi (2 Corinzi 9: 11)
Atei non si nasce … si diventa!
Tempo di lettura: 4 minuti
di Giacomo Carlo Di Gaetano
Questa affermazione potrebbe ben assurgere allo status di quaestio degna delle migliori dispute teologiche medievali. In effetti, da un punto di vista dogmatico, ci sarebbe molto da discutere, incrociando i dati della dottrina della creazione con il corredo di quali fossero le dotazioni della creatura umana a immagine di Dio che poi sono andate perse con la caduta nel peccato, con quelli della dottrina del peccato e dell’antropologia, su quale sia la portata epistemica del peccato. Se cioè in questi sia ricompreso anche il rifiuto di credere nell’esistenza di Dio (incredulità), postura riconducibile a un’interpretazione piana del termine ateismo.
Ma in queste righe non mi interessa tanto la posta in gioco teologica, anche se personalmente, a leggere Romani 1, una certa idea ce l’ho e propende verso il corno della negazione, vale a dire che non sembrerebbe contemplata nella condizione di depravazione totale, nella condizione di caduta nel peccato, la non credenza, la negazione dell’esistenza di Dio.
Ragion per cui si pone il problema della sua origine: da dove viene la negazione professata della non esistenza di Dio?
L’affermazione vuole semplicemente porre il problema in questi termini: l’ateo non inizia la sua riflessione sul mondo a partire dal presupposto che Dio non esiste. Affermazione questa che in qualche modo vuole passare al lato all’esperimento attribuito a Ugo Grozio o più in generale allo scetticismo del Seicento: etsi Deus non daretur.
«Dio non esiste» sarebbe al contrario la conclusione di un percorso di varia natura: logico–argomentativo, esistenziale, fenomenologico, razionalistico, psicologico, sociologico, scientifico, etc. La rilevazione di questo spostamento, dal presupposto alla conclusione, è probabile che non avvenga nell’arco della speculazione o dell’esistenza di un solo individuo, di un solo pensatore – sulla possibilità di commisurare esistenza e speculazione filosofica del singolo, si guardi allo scritto ebraico e biblico di Qoelet.
La rilevazione potrebbe avvenire nel considerare dei fenomeni che vadano oltre le singole biografie, che coinvolgano periodi storici o scansioni temporali e culturali (si pensi agli anni in cui era in voga il nuovo ateismo!).
Questa possibilità, vale a dire che l’affermazione «Dio non esiste» sia una conclusione e una meta del percorso della mente umana piuttosto che un presupposto o un punto di partenza, spiazza totalmente l’impresa apologetica e in particolare l’apologetica evangelica degli ultimi vent’anni. Questa, infatti, è stata incentrata molto sulla mossa di poter dimostrare, magari dialogando, argomentando, dibattendo che no, non bisogna partire dal presupposto che Dio non esiste, ma dal presupposto opposto, Dio esiste, e ci sono molte cose che lo dimostrerebbero. Addirittura, una vera e propria scuola apologetica si è intestata questa strategia, definendosi appunto, presupposizionalismo.
Ebbene, che cosa cambierebbe se, invece di considerare la posizione atea un punto di partenza, la considereremmo al contrario un punto di arrivo, a volte di vero e proprio approdo?
In primo luogo, avremmo un indizio sulla possibilità di costruire una eziologia dell’ateismo; e qui scopriremmo che molto spesso la posizione atea è seconda rispetto alle posizioni teistiche variamente articolate nel corso della millenaria avventura della teologia, ma anche filosofia, cristiana.
Scopriremmo anche che alcune posizioni atee sono, legittimamente, conclusioni raggiunte a partire da costruzioni dogmatiche che tanto dicono di Dio quanto si allontanano dall’esperienza diretta del divino e, in particolare, dall’esperienza del Dio della Bibbia.
In secondo luogo, si aprirebbe la possibilità di ripercorrere, con tanta umiltà da parte dell’apologeta, il percorso che ha condotto alla conclusione ateista. Che cosa voleva dire veramente Nietzsche, quando fa dire a Zaratustra che «Dio è morto»? Con chi ce l’aveva l’altro maestro del sospetto, collega del filosofo del nichilismo, quando affermava che la «religione è l’oppio dei popoli»? Possiamo far nostro l’avvertimento freudiano sulle tante illusioni che albergano il discorso religioso, incluso il gergo della teologia cristiana.
L’ontoteologia tanto aborrita da gran parte della filosofia contemporanea è veramente un frutto indigesto del lavoro della teologia cristiana che ci presenta un Dio davanti al quale non possiamo più rivolgere preghiere e, quindi, meglio da rimuovere come uno dei deliri della mentalità violenta del pensiero occidentale?
Ci vuole un grande bagno di umiltà per ascoltare la conclusione dell’ateo e poi chiedergli, va bene, le tue conclusioni appaiono corrette, ma vogliamo ripercorrere la strada insieme per vedere se il Dio della Bibbia coincida totalmente con il dio dell’ontoteologia? Se c’è ancora una differenza, una pascaliana differenza, tra il dio dei filosofi e il Dio di Abraamo, Isacco e Giacobbe?
Un libro sicuramente non esente da spunti su cui continuare a riflettere, soprattutto per il debito che paga a Karl Barth, pensatore non molto distante da quella corrente del presupposizionalismo a cui si faceva riferimento sopra, ma tuttavia un libro che dovrebbero leggere e meditare tutti coloro che hanno a che fare con gli studenti universitari nella speranza di condividere con loro Gesù da studente a studente.
Se poi non bastasse, allora non possiamo non segnalare che, proprio il tema dell’ateismo e del vivere con e insieme agli atei, è il tema del XVI Convegno di Studi GBU (7–10 dicembre 2023) «Vivere e confrontarsi con l’ateismo».
Raccogliamo la sfida: andiamo in cerca di coloro che, forse, un po’ anche per colpa nostra, pur non essendo nati atei, sono diventati tali!
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Traduzione a Revive: un modo ‘diverso’ di servire Dio e gli altri
di Valentina Bernardi, GBU Bologna
Alla conferenza studentesca IFES Revive ho avuto modo di partecipare non solo in veste di studentessa, ma anche come volontaria, impegnandomi nella traduzione delle varie plenarie dall’inglese all’italiano, in un team di sette interpreti.
Ero già stata coinvolta come traduttrice nella conferenza Revive, e sono stata incoraggiata a svolgere di nuovo questo ruolo dal mio percorso di studi. Infatti, nel 2021 ho conseguito la laurea triennale in Mediazione linguistica e culturale, e si può dire che ho lavorato in quello che è stato ed è tutt’ora, con la magistrale, il mio campo di studi. Inoltre, sapendo che anche nelle piccole cose si trova l’opportunità di servire Dio, sono stata mossa dal desiderio di rendermi utile per chi avesse avuto qualche difficoltà a comprendere i temi della conferenza in lingua originale.
IL LAVORO DI INTERPRETE
Alla conferenza Revive gli interpreti si trovano nelle cabine, con un microfono e delle cuffie. Rispetto al 2019 le tecnologie erano più evolute. Abbiamo utilizzato i nostri PC per connetterci a un’app, mentre nel 2019 avevamo semplicemente un microfono connesso alle cuffie di coloro che ascoltavano la traduzione.
È stata stimolante per me anche l’esperienza di essere in un team di traduttori. Ci tenevo a mettermi in gioco con questo lavoro di squadra, in quanto, essendoci due sessioni ogni giorno, era necessario scambiare i propri turni con gli altri traduttori. Non sapevo però come sarebbe stato, dal momento che avevo avuto qualche difficoltà come interprete nel 2019, forse anche perché ero più inesperta.
Malgrado qualche mio piccolo timore, è andata bene! Il lavoro si svolgeva principalmente dietro le quinte e coinvolgeva non solo noi traduttori italiani, ma anche altri di altre lingue. Avevamo anche le dispense sui vari argomenti dei vari sermoni dei diversi speaker, che sono stati utili per sapere quale passo biblico sarebbe stato affrontato e anche a capire qualcosa del contesto. Ad ogni turno eravamo in due, e così quando sentivamo il bisogno di prenderci una pausa, passavamo il microfono al nostro ‘collega’.
UN BELLISSIMO INCORAGGIAMENTO
Il lavoro del traduttore è apparentemente facile, ma è una sfida. Quando si tratta di traduzione simultanea, infatti, bisogna tradurre mentre lo speaker parla, e a volte si potrebbe rischiare di perdere dei passaggi importanti. Grazie a Dio sono abbastanza esperta in questo campo, e inoltre, gli speaker che io mi sono trovata a tradurre, erano abbastanza chiari nelle loro spiegazioni e non ho riscontrato grosse difficoltà.
In particolare John Lennox è stato molto chiaro e coinciso, e mi ha piacevolmente colpito che alla fine del suo sermone sia venuto da noi traduttori delle svariate lingue a ricordarci quanto questo compito fosse importante.
Posso dire che anche quella è stata una bella soddisfazione, perché mi ha ricordato di essere utile a qualcuno. Nella mia vita ho avuto questa crisi d’identità nel pensare di non fare abbastanza per aiutare gli altri e di non avere particolari doni come altri miei fratelli in fede. Invece, Dio mi ha ricordato che ognuno di noi ha doni diversi da sfruttare nel momento giusto. In quel momento mi è venuto in mente questo versetto:
Perché Revive?
di Domiziana Fornasini, coordinatrice GBU Bologna
A dire la verità, non è stato il peso per un risveglio in Italia o in Europa a farmi decidere di andare a Revive. È stato semplicemente il mio bisogno di staccare un po’ dalla quotidianità e ricevere quella “scossa” tipica degli eventi come questo. Inoltre, ero interessata in particolare ad alcuni speakers che volevo ascoltare.
Con il passare delle settimane, ho capito quanto fosse importante per me ritornare a quello stato di adorazione puro, vero; quell’adorare Dio per chi lui è, e non per quello che ha fatto per me, né per quello che mi dà, o per le sue promesse. Tornare su questa strada era l’obiettivo che mi ero data prima di partire.
Il programma e gli small groups
Il programma era diviso pressoché in culti e seminari, questi ultimi a scelta. Il tema generale della conferenza riguardava il risveglio, prima personale, poi delle nostre università e infine dell’Europa; sia i seminari che le prediche giravano attorno questi temi, mantenendo sempre il nostro focus su Cristo e su come il suo mandato si applichi alle nostre vite. Tuttavia, non mancava il tempo libero né la possibilità di appartarsi in una stanza di preghiera in qualsiasi momento, dettaglio che ho trovato estremamente importante.
C’erano anche degli small groups per parlare un po’ più a fondo del tema trattato dal predicatore. Grazie a questi gruppi ho potuto conoscere nuove persone dall’Europa e da altre parti del mondo, e anche chi era venuto da solo ha potuto trovarsi in un contesto amichevole e accogliente, anche per chi ha qualche difficoltà a conoscere nuove persone (e per me di solito è difficile).
Far parte di un gruppo è stato in effetti essenziale per rendere l’esperienza di Revive piena. Un risveglio non è qualcosa che si fa da soli, né una chiesa può essere composta da una sola persona. Inoltre, far parte di un gruppetto è stato importante anche per il post conferenza, ovvero il momento peggiore: il ritorno a casa. Quando rientri nella tua quotidianità, e non sei più circondata da cristiani come te; quando pregare e adorare non è di default nel programma, ma devi essere tu a trovare quei momenti; quando diventa complicato rimanere in quello stato di connessione continua con Dio, in cui non si smette mai di parlargli o di ascoltarlo e non si ha nessuno con cui condividere esperienze così profonde. Sono questi i momenti in cui puoi ricontattare le persone del tuo gruppo, per tornare ad avere comunione e incoraggiarci a vicenda.
Non me l’aspettavo
La cosa che mi ha colpita di più è stata la quantità di persone. Ero stata ad altri eventi prima, anche internazionali, ma non avevo mai visto così tanti ragazzi da tutti quei background culturali, linguistici e denominazionali diversi adorare Dio insieme. Questo è stato un tuffo nella realtà, una realtà in cui migliaia di ragazzi e ragazze vogliono santificarsi, vogliono vivere per Cristo e vedere un mondo arreso a lui. Perché questa è la nostra realtà: non siamo pochi, non siamo soli. Ovunque andiamo, come cristiani, possiamo trovare fratelli e sorelle, possiamo trovare una famiglia, persone con cui, anche se non le abbiamo mai viste prima, abbiamo qualcosa di fondamentale in comune. E questo unisce, unisce tanto da farci dimenticare la nazionalità, la cultura, la lingua, la denominazione; si diventa un grande corpo e una grande Chiesa fatta da cittadini del cielo.
Obiettivo raggiunto
Alla fine della conferenza, direi quasi ovviamente, Dio ha superato le mie aspettative! Oltre ad incamminarmi nuovamente verso quell’adorazione pura, Dio mi ha spinta a pregare molto di più e a cominciare a pensare di organizzare delle preghiere continue 24/7, per una sua promessa per cui avevo quasi smesso di combattere.
Vivere a iniezioni
Indubbiamente è stata un’esperienza incredibile, tuttavia non vorrei far passare l’idea che vivere solo per aspettare eventi del genere sia una possibilità, come se fosse un’iniezione di Spirito Santo che ci dà la carica una volta all’anno, perché non lo è. Dobbiamo imparare a vivere Dio nel nostro quotidiano, anche quando siamo soli, non solo nel momento in cui siamo circondati da persone che ci spronano. Tuttavia, rimangono tutti i lati positivi del prendersi qualche giorno per partecipare ad eventi come questo e “ricominciare” con Dio.
Quindi, perché Revive?
Partecipare a Revive non significa solo passare un capodanno diverso. È molto di più. Significa conoscere nuove persone appassionate per Dio e pronte a mettere sottosopra l’Italia, l’Europa e il mondo. Significa scoprire cose di se stessi e di Dio che non si conoscevano; ma significa anche doversi mettere in discussione, confrontarsi con realtà diverse ed essere pronti a cambiare opinione, a uscire dalla propria zona di comfort, perché Dio non è il Dio del comfort, ma del risveglio.
La morte del papa-teologo. L’opinione di un evangelico.
Tempo di lettura: 5 minuti
di Valerio Bernardi
Nelle testate giornalistiche di fine e inizio anno, almeno in Italia, le notizie che hanno maggiormente spiccato sono quelle della morte di due personaggi celebri: Pelé e Benedetto XVI.
Lasciando momentaneamente da parte il tentativo di un bilancio sul primo, cercherò di tracciare un breve profilo valutativo di quello che è stato il primo Papa emerito della storia: Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Tentare di tracciare un bilancio del suo operato significa cercare di tracciare un bilancio del cattolicesimo post-conciliare e risulta impresa ardua. Partirò da due episodi significativi per me e, penso, rappresentativi di quello che ha fatto Papa Benedetto XVI.
Ho avuto la possibilità di sentire Ratzinger, quando era cardinale e rivestiva, sotto Giovanni Paolo II, la carica di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (ovvero era il capo dell’ex Sant’Uffizio e tribunale dell’Inquisizione) qui a Bari in una conferenza intitolata Unità e pluralità nella Chiesa. Sicuramente durante il suo eloquio si poteva dedurre che si trovava di fronte ad un teologo profondamente erudito e ben a conoscenza dei meccanismi della Chiesa in cui militava, ma, a me, giovane evangelico faceva sorgere diversi dubbi soprattutto quando, di fatto, negava la possibilità di qualsiasi pensiero dissenziente nei confronti del Magistero della Chiesa, ribadendo l’importanza del suo ruolo e della Curia nello stabilire quali fossero le basi della fede cattolica. Si trattava del Ratzinger che, appena qualche mese prima, aveva condannato in maniera ferma i Teologi della liberazione dell’America Latina, sostenendo che (forse anche giustamente) non ci poteva essere una conciliazione tra Marx ed il Magistero della Chiesa, ma, allo stesso tempo, ignorando le opzioni da cui era nata quella teologia e la questione della povertà che è sempre stata e deve sempre essere al centro del dibattito cristiano sin dai tempi biblici.
Il secondo ricordo, più vicino nel tempo, riguarda le sue dimissioni. Nella scuola dove insegno, nonostante la maggior parte dei ragazzi non sia normalmente interessata a questioni religiose e siano molto critici nei confronti della Chiesa Cattolica, le dimissioni di un Papa ha suscitato scalpore. Per questo motivo gli studenti hanno deciso di dedicare una loro assemblea di Istituto alla questione e, tramite la loro docente di religione, sono riusciti ad invitare Don Nicola Bux, un importante esponente del clero vicino a Comunione e Liberazione e collaboratore del Pontefice mentre era cardinale e Prefetto del Sant’Uffizio. Nonostante le varie dicerie sulla questione delle dimissioni (incapacità di governare la Chiesa, scandalo della pedofilia etc. etc.) Bux ha dato forse una delle migliori spiegazioni dell’accaduto: Ratzinger vedeva declinare la sua salute e, in tutta coscienza, non se la sentiva di continuare a governare senza vigore la Chiesa Cattolica.
Questi due episodi, a parte la lettura di diversi suoi testi e discorsi sono quelli che mi rimarranno impressi quando, anche in futuro, ricorderò Ratzinger. Ovviamente ci sono tante altre cose da poter discutere e voglio qui ricordarne qualcuna.
In primo luogo, Ratzinger è stato un teologo tedesco, formatosi in Baviera e docente alla facoltà teologica cattolica di Tubinga, uno dei più prestigiosi atenei tedeschi, dove è stato collega per diversi anni di Hans Küng, condividendone le posizioni progressiste almeno sino alla metà degli anni 1970, quando soffermandosi negli studi sul ruolo della Chiesa ha iniziato a reinterpretare alcune delle cose ribadite dal Concilio Vaticano II, si è allontanato dalle posizioni di critica nei confronti del Magistero e del ruolo del Pontefice ed ha ribadito un concetto di chiesa sacramentale che rimane uno dei pilastri del Cattolicesimo. La sua conversione non è stata repentina né frutto di un cambio di casacca per questioni squisitamente politiche (anche se è vero che ciò gli ha permesso di far carriera nella Curia), quanto un autentico timore dello sfaldamento della Chiesa Cattolica.
Questo lo ha gradualmente portato a divenire uno dei maggiori teologi dell’ala conservatrice della Chiesa Cattolica, condannando qualsiasi tentativo di andare al di fuori di schemi tradizionali. Allo stesso tempo, però, Ratzinger è stato colui che ha cercato di dialogare con il mondo secolarizzato occidentale. Lo ha fatto in diverse occasioni ed è entrato in dialogo sia con Habermas in Germania che con Flores d’Arcais in Italia. I suoi tentativi erano portati avanti anche da quello che, a mio parere, rimane il più importante documento ufficiale da lui scritto (anche se non ufficialmente) che è l’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio. In tale scritto il teologo tedesco è entrato in dialogo con il pensiero contemporaneo, cercando di ribadire un concetto di razionalità diverso da quello voluto dall’Illuminismo occidentale. La proposta è risultata interessante anche se il costante richiamo alla tradizione tomista come una sorta di “filosofia” ufficiale della Chiesa, appare limitante e forse troppo ristretta per un pensiero come quello evangelico che si è lasciato indietro l’impalcatura realista del periodo medievale.
Le testate giornalistiche italiane (in particolare Repubblica che non ha mai brillato per le sue competenze in campo religioso) continuano a ricordare il famoso discorso di Ratisbona fatto da Pontefice e lo ricollegano ad una sorta di antislamismo. Se è vero che Benedetto XVI in un passaggio di quel famoso discorso faceva riferimento all’Islam ed al fatto che tale religione non ricorresse alla ragione e non chiedesse alla fede l’uso dell’intelletto, è vero che l’intero discorso era una serrata critica al pensiero occidentale contemporaneo che era ricollegato in particolar modo al Protestantesimo e ad una linea di pensiero che partiva da Lutero ed arrivava fino a Kant in cui Dio era stato abbandonato a favore dell’uomo. Ratzinger (che in altri discorsi ha avuto parole di elogio per Lutero) ribadiva una vecchia linea di pensiero che riportava la responsabilità della secolarizzazione dell’Occidente alla Riforma Protestante, vista sempre con rispetto dal pensatore tedesco, ma anche guardata con una certa diffidenza.
Questo è, a grandi linee (se vogliamo anche in maniera sin troppo sintetica) il percorso di un grande personaggio per la Chiesa Cattolica. Cosa possiamo dire noi da evangelici? Intanto come spesso accade, a prescindere dal credere o meno nei rapporti ecumenici e di dialogo con la Chiesa Cattolica, il pensiero di Benedetto XVI va trattato con rispetto e lo si deve leggere con attenzione anche nei suoi tentativi divulgativi della fede che non sono mancati (non dimentichiamo che da Pontefice ha scritto delle monografie dedicate alla figura di Gesù, sicuramente discutibili in alcune conclusioni, ma molto interessanti perché si tratta, anche in questo caso, della prima volta che un Pontefice affermava di aver scritto libri da studioso e non da Capo della Chiesa). Leggendo i suoi testi è chiaro che le sue tesi rimangono pienamente all’interno della tradizione cattolica e, per questo, la sua concezione di Chiesa, il suo cedere in alcuni momenti al culto mariano, la sua idea di Magistero sono, da un punto di vista evangelico criticabili. Vanno però apprezzati il suo tentativo di dialogo con la società contemporanea, l’idea di render ragione della propria fede, quella di voler divulgare il suo pensiero. E, in ultimo, rimarrà sicuramente nella memoria dei posteri il suo atto più rivoluzionario: le sue dimissioni. Benché tradizionalista, Benedetto XVI ha rotto con una tradizione millenaria ed ha mutato l’idea di pontificato proprio abbandonando il soglio pontificio ed ammettendo che non si può dirigere una Chiesa in tarda età ed in condizioni precarie di salute. Probabilmente questo sarà uno dei suoi lasciti più significativi, oltre quelli della sua opera.
(Valerio Bernardi – Dirs GBU)
L’articolo La morte del papa-teologo. L’opinione di un evangelico. proviene da DiRS GBU.
source https://dirs.gbu.it/la-morte-del-papa-teologo-lopinione-di-un-evangelico/
Ascoltare il Figlio
di Andrea Becciolini, Staff GBU Firenze
Sei a lezione, nell’aula che è sempre troppo affollata. Stavolta però sei riuscito a prendere un buon posto per ascoltare ciò che il prof dice e vedere ciò che scrive alla lavagna. Hai la penna in mano e il blocco degli appunti davanti, ma… bastano pochi minuti per renderti conto di quanto poco ci stai capendo.
Ti è mai capitato? Io non riesco a contare le volte che mi è successo durante il mio percorso universitario.
Ascoltare, ma non capire…
Partecipare come attore a The Mark Drama mi ha fatto rivivere una sensazione simile. Infatti, mettendo in scena l’intero vangelo di Marco sono stato colpito da come Gesù insegnava, parlava e istruiva in modo molto chiaro e diretto riguardo a chi lui fosse e a ciò che era venuto a fare. Eppure, i discepoli capivano veramente poco!
Fin dai primi capitoli del vangelo di Marco, infatti, si percepiscono i tanti punti interrogativi nella loro mente. “Chi è costui?” si domandano l’un l’altro subito dopo che Gesù calma la tempesta. Pochi capitoli dopo, però, Pietro finalmente esclama “tu sei il Cristo!” in risposta alla domanda di Gesù.
Il Padre chiarisce ogni dubbio
Eppure, ciò che segue mostra che i discepoli non avevano veramente ascoltato, compreso, ciò che Gesù era venuto a fare. Infatti, dopo che Gesù spiega che sarebbe dovuto morire e resuscitare, Pietro lo prende da parte e lo rimprovera. Anche in questa occasione però, Gesù dimostra una pazienza e un amore impressionati! Pur allontanando Pietro, riconoscendo lo zampino di Satana nelle sue parole, non si tira indietro dallo spiegare cosa significa seguire il Cristo, cioè rinunciare a se stessi, prendere la propria croce e seguirlo. Inoltre, poco dopo, chiama proprio Pietro per salire sul monte insieme a Giacomo e Giovanni. Lì i tre assistono a qualcosa di glorioso: Gesù è trasfigurato e accanto a lui ci sono Mosé ed Elia, due fra i più grandi profeti dell’Antico Testamento. I discepoli sono presi da spavento, non sanno cosa pensare, dire o fare, ma ecco una voce dal cielo: “questo è il mio diletto figlio, ascoltatelo”. Il Padre spazza via ogni dubbio sull’identità di Gesù e sulla necessità di ascoltarlo! Lui è il diletto figlio di Dio che va ascoltato.
Il diletto Figlio di Dio: ascoltiamolo!
Il diletto Figlio, in cui il Padre si compiace dall’eternità e per l’eternità. Il diletto Figlio, che ha sempre vissuto in obbedienza al Padre. Il diletto Figlio, che adempie le profezie dell’Antico Testamento venendo al mondo come servo, per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti. Gesù è il diletto Figlio di Dio, caratterizzato da perfetta umiltà e assoluta autorità.
Per questo è degno di essere ascoltato! Comprendere le sue parole e ubbidire è vita per noi. Infatti, anche se umanamente parlando era follia che il Cristo doveva soffrire e morire, questo era proprio il piano del Padre per salvarci. Anche se umanamente parlando è follia rinunciare a se stessi e considerarsi morti al proprio ego, questa è la chiamata del Figlio.
Ascoltiamolo dunque! Ascoltiamolo questo Natale. Così facilmente ci concentriamo sui regali, i viaggi, le decorazioni, i momenti in famiglia; tutte cose belle e buone che però non devono distoglierci dall’ascoltare il Figlio. Prendiamo così tempo nella Bibbia, non per vivisezionarla né per meramente comprenderla intellettualmente; non leggendola in modo passivo né per spuntare un’attività sulla nostra lista di cose da fare. No!
Approcciamoci invece in modo intenzionale, attivo, gioioso alla Parola di Dio chiedendo al Padre di aprirci le orecchie per poter ascoltare il suo diletto Figlio.
Ucraina: un viaggio diverso
Di Johan Soderkvist, Segretario Generale GBU Italia
È passata qualche settimana da quando sono rientrato a Firenze dopo un incredibile e avventuroso viaggio a Leopoli, in Ucraina, per portare aiuti e incoraggiamento al movimento studentesco CCX.
Quello in Ucraina è da anni il movimento “forte” della regione, con gruppi e staff sparsi per il paese, incluse le regioni adesso occupate dalla Russia. CCX è stato un sostegno anche per le nazioni vicine, i cui movimenti studenteschi non avevano la stessa libertà; tra questi Bielorussia e Russia. Come sappiamo, dal 24 febbraio le cose sono cambiate.
Molti studenti e staff sono fuggiti dalle zone di guerra per trasferirsi nella parte occidentale del paese, altri in Europa. Come rifugiati, gli studenti cercano di frequentare l’università online, ma anche di incontrarsi per studiare e pregare insieme. Gli staff cercano di sostenere e incoraggiare questi gruppi nei modi che possono.
TEMPO DI QUALITÀ CON PERSONE DI QUALITÀ
Insieme a uno staff di IFES con cui collaboro nel programma di Governance Development* di IFES, ho avuto dunque l’opportunità di partecipare a una visita alla città di Leopoli (Lviv) che dista circa 80 km dal confine con la Polonia.
Abbiamo incontrato due staff di Leopoli, e altri due che erano arrivati in città dopo l’inizio della guerra, scappando dalle province orientali; poi Misha, il Segretario Generale, che fino al 2014 viveva in Crimea, e quest’anno per la seconda volta è dovuto scappare dalla guerra; e Andriy, il presidente del CCX, che vive a Kiev.
Passare una giornata con loro è stata un’esperienza che mi ha lasciato il segno. Abbiamo gustato la compagnia e la gioia di stare insieme, ma anche il dolore e le insicurezze di chi sa che da quel cielo blu sopra la città può, in qualsiasi momento, cadere un missile. Pregare con loro e ascoltare i loro racconti mi ha toccato profondamente.
IL CENTRO STUDENTESCO: UN PORTO SICURO
Gli Staff ci hanno fatto visitare il centro studentesco della città, un ambiente molto accogliente, con ampi spazi per studiare e stare insieme; è diventato un luogo di incontro per studenti cristiani e i loro amici che hanno bisogno di un posto caldo dove studiare o seguire i corsi online della loro università. Qui si fanno serate divertenti, ma anche studi biblici evangelistici e momenti di preghiera. È anche un hub di aiuti per chi ha bisogno di una coperta, di un po’ di carica per il laptop o il cellulare. E non manca di certo qualcosa di caldo da bere o mangiare, ad esempio la tipica zuppa boršč, originaria proprio dell’Ucraina.
Il viaggio è stato un incoraggiamento. Siamo partiti da Katowice alle 5 del mattino, viaggiando sotto una lieve nevicata fino al confine. Da quel punto in poi, la nevicata è diventata abbondante fino al rientro a Katowice a mezzanotte. Al confine, sia all’andata che al ritorno, la velocità e la semplicità con cui siamo passati sono state un vero miracolo. In particolare all’andata, quando avevamo il minivan pieno di aiuti di ogni genere: generatori elettrici, batterie usb, coperte, articoli per l’igiene personale, ecc. Tutte le scartoffie che avevamo preparato per dimostrare da dove venivano i doni e dove dovevamo portarli, tutti gli elenchi del materiale, tutte le preoccupazioni, si sono rivelate superflue: al confine hanno guardato i passaporti, hanno fatto annusare al cane e poi ci hanno detto di passare. Una grande lezione di Dio per me, che spesso mi preoccupo troppo.
IL VALORE DI QUESTA ESPERIENZA
Mi porto a casa tanti ricordi, in particolare la consapevolezza che Dio è presente intorno e nella vita di chi soffre e vive difficoltà; ho ascoltato racconti di come Dio opera in maniera soprannaturale e ne ho avuto un assaggio al confine. Questo mi insegna a confidare in Lui anche nelle preoccupazioni della mia vita.
Come movimento GBU credo che possiamo fare tesoro di esperienze vissute da altri movimenti del mondo IFES e in particolare quelli che vivono difficoltà. Siamo incoraggiati e sfidati a non fare silenzio con la buona notizia di Gesù. In Ucraina gli studenti evangelici soffrono e non sanno che futuro ci sarà per loro (e quando), ma sono attivi nel presente a portare speranza e a Condividere Gesù da studente a studente!
(Chi volesse seguire notizie da CCX può contattarmi a sg@gbu.it e ricevere un link a un canale telegram creato da IFES per questo scopo)
* un programma che ha come compito di formare i comitati direttivi dei movimenti nazionali per svolgere bene il proprio ruolo di guida
La gioia di vederli crescere
Di Hannah Donato, Responsabile Formazione e Cura Coordinatori Studenti
Crescere
Che cosa significa crescere e diventare maturi? Sia spiritualmente che fisicamente, ci sono molti aspetti del significato di crescita e maturità. Come cristiani dobbiamo crescere fino a raggiungere “l’altezza della statura perfetta di Cristo”, wow! Come parte del Suo corpo, ogni membro deve cercare di lavorare e contribuire a questa visione di vedere tutti diventare pienamente maturi in Gesù, usando i doni che Dio ci ha dato all’interno della Chiesa per edificare gli altri.
Qualcosa di simile succede anche in famiglia. Io e Giovanni abbiamo 3 figli e la nostra primogenita Isabella ha quasi 11 anni, e ha appena iniziato la scuola media. È in un momento della sua vita in cui ha iniziato a fare molte cose “da sola”. Ha iniziato a prendere l’autobus da sola, a volte deve preparare il pranzo e fare anche i compiti da sola. Come genitori, io e Giovanni cerchiamo di incoraggiarla a prendere l’iniziativa, a pensare in anticipo e a fare le cose senza dipendere solo da noi.
Nella mia vita lavorativa con il GBU vedo molti parallelismi tra l’essere genitore e l’essere uno staff GBU: in entrambi i casi desideriamo che le persone crescano e diventino un po’ indipendenti. È un po’ come essere una madre, una zia o una sorella maggiore; il rapporto che si instaura tra lo staff e i coordinatori è, infatti, molto stretto, ricco di momenti di insegnamento, sostegno, preghiere, chiacchierate, formazione, caffè e molto altro. All’università e attraverso i gruppi GBU spesso gli studenti cristiani fanno le prime esperienze nell’evangelizzazione, nella conduzione di studi biblici, nel rispondere alle domande delle persone, nel servire; è un grande momento e un’opportunità di crescita e maturità e, in quanto staff, affiancarli è un privilegio.
Continua a leggereLa pace come ideale regolativo
Tempo di lettura: 5 minuti
di Giacomo Carlo Di Gaetano
Sono passati più di duecento anni da quando il filosofo Emmanuel Kant, nella Critica della Ragion pura, nell’Appendice alla Dialettica trascendentale, dopo aver delimitato “criticamente” il campo del sapere che poi va a sostanziare la scienza, cercò di fare i conti con le “idee” della ragione. Le idee, prodotto intellettivo dalla natura sfuggente e che possono richiamare, ineludibilmente, altre dimensioni dell’esistente, non hanno il crisma di ciò che può condurre alla costituzione di un sapere, come i concetti; tuttavia, sono lì, influenzano, condizionano
Tra esse ce n’è una che è forse più ineludibile di tutte, l’idea di Dio!
Ecco allora che Kant scopre, per queste idee, un altro ruolo, un’altra funzione, quello della regolazione. Non portano a niente, però aiutano a mettere ordine e sistematicità in ciò che conosciamo, che veniamo a conoscere, ci spingono verso un focus, un obiettivo. Regolano il nostro sapere non dogmaticamente ma come impulso, come direzione.
Può tutto questo armamentario concettuale, qui delineato in maniera certamente superficiale, essere trasportato dal campo del sapere, dove Kant lo concepì, ad altri campi, a quello della morale (dove Kant immaginava ben altro), a quello della politica, a quello del vivere associato degli uomini, al tema della pace e della guerra?
Forse non sono il primo a fare questa comparazione ma penso che l’ideale regolativo di kantiana ascendenza possa ben esprimere il posto concettuale che potrebbe occupare il tema della pace in questo momento (scrivo all’indomani della grande manifestazione del 5 novembre a Roma organizzata da Europe for peace).
Il tentativo nasce dal tormento reale e non superficiale che chiunque, e in particolare anche un cristiano che vuole essere sensibile alla globalità del pensiero biblico (noi lo chiamiamo “il consiglio di Dio, At 20:27) avverte e prova nei confronti della guerra in Ucraina. Le condizioni storiche e geopolitiche acuiscono il tormento intellettuale. Sono pochi i paragoni possibili per l’aggressione della Federazione russa. Forse, con molti distinguo, e andando indietro negli anni, se teniamo conto di ciò che è accaduto dal 1991, anno della disgregazione della vecchia Unione sovietica, una crisi che avrebbe potuto avere uno sviluppo simile (ma che non lo ha avuto) si registrò trent’anni prima, nel caso dei missili sovietici a Cuba (anni ’60).
Oggi siamo di fronte a una situazione anomala; i profili relativi alla giustizia sono abbastanza netti: c’è il diritto internazionale, c’è l’autodeterminazione dei popoli, anche a difendersi, c’è lo scontro tra “democrazie” e “autocrazie” tra regimi di libertà (come quello nel quale il sottoscritto può scrivere quello che sta scrivendo, professare la propria fede – si ricordi: la libertà di culto è la madre di tutte le libertà occidentali!) e regimi che reprimono le libertà, guarda caso, anche la libertà di religione, soprattutto quando la religione viene assunta a stampella ideologica della guerra.
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Ma i profili relativi alla pace non sono così netti. La pace è al più un desideratum aleatorio affidato, da chi sul campo dirige le operazioni – di guerra, a un fatalistico domani che verrà, se verrà, considerato lo spettro dell’olocausto nucleare. Può essere utile al riguardo leggere l’ultimo libro di Massimo Rubboli (qui di fianco la cover)
Ed è qui che l’ideale regolativo kantiano potrebbe aiutare. La pace è e deve essere un ideale. Negativamente questo significa che la pace appare senza alcunché di definibile e percettibile: dove potremmo noi rilevare percezioni di pace che andrebbero a sostanziare un concetto, un sapere e delle azioni concrete di pace? Mosca dovrebbe essere il primo posto in cui rilevare queste percezioni, ma assolutamente nulla. E altrove? Si fa a fatica a precipitare la pace dal campo dell’ideale a quello del sapere, dalle idee al concetto.
Positivamente, però, è possibile che questo ideale giunga a regolare il pensiero e l’azione già qui e ora. Quali percorsi questo ideale sta illuminando? La piazza di ieri mi pare un piccolo sussulto che mette in circolo delle vibrazioni. Esse concernono le opinioni pubbliche; sono piazze, non sono ambasciate e diplomazie e tuttavia tante volte nella storia (vedi guerra in Vietnam) le opinioni pubbliche hanno scoperto dei possibili percorsi diplomatici.
La pace come ideale regolativo potrebbe anche mettere d’accordo i sostenitori dell’appoggio (anche militare) a Kiev e i sostenitori del “fermiamo le armi” ora (posizione questa che vive tutta nell’ideale); sì perché il primo, l’appoggio militare, ben si colloca in un tempo e in uno spazio determinato, sempre all’insegna dell’ideale regolativo della pace. C’è un tempo in cui è stato necessario dire no, questo non deve accadere. Che cosa sarebbe accaduto a febbraio, infatti, se l’Ucraina non avesse vissuto quella straordinaria primavera di “resistenza”?
Ma se la pace è un ideale che regola i nostri passi oggi, concretamente, allora lo spazio per la guerra (è triste parlare così) è e deve essere uno spazio e un tempo determinato. Ma il tempo e lo spazio non lo decide la guerra stessa ma lo decide l’ideale regolativo della pace. Abbiamo provato la guerra di resistenza, abbiamo vinto tutti con il popolo ucraino; adesso, facendoci condizionare dall’ideale, bisogna regolare i passi in modo diverso.
Che i governi occidentali, soprattutto europei, trovino lo scatto per creare al loro interno delle task force per la pace, piccoli gruppi di lavoro che mettano insieme magari governanti e opposizioni (altro ideale!), i quali a loro volta si interfaccino a livello continentale e planetario, che bussino alle case dei due belligeranti chiedendo loro di fornire uomini per discutere e ragionare di confini, di territori, di popolazioni, di sicurezza, di deterrenza…. Forse già la volontà di interrompere la fornitura di armi all’Ucraina potrebbe essere un qualcosa da mettere sul piatto delle trattative da intraprendere sul percorso dell’ideale della pace che regola.
È utopistico pensare tutto ciò? Certo, “utopia” e “ideale” non sono la stessa cosa, ma entrambi provengono da quel campo della “realtà” in cui non ci sono certezze, dogmi e ideologie. È il campo dell’umano, della voglia di vivere, in pace, cercando di creare lo spazio per quello che conta veramente.
E che cosa conta veramente, in questo scorcio segnato da una pandemia che ancora non ci lascia, da una crisi climatica che ha mostrato tutta la sua ferocia nella scomparsa delle stagioni, di una crisi economica e migratoria che si infiamma giorno dopo giorno?
Che cosa dobbiamo sperare (altro interrogativo kantiano)?
Nella mente di un cristiano evangelico quello che conta veramente è la possibilità di poter dire agli altri esseri umani che viviamo nell’ultimo tratto della storia quello segnato dalla morte e dalla risurrezione di Gesù Cristo; c’è una buona notizia da far circolare, da far comprendere, da incarnare per mostrare modelli di vita segnati dalla pace, quella che Gesù dà e non quella che il mondo dà (sono le parole dello stesso maestro di Nazaret, Gv 14:27).
Possiamo dire, che la pace non è un fine in sé per l’essere umano? È ancora Kant che ci mette in guardia da un ottimismo superficiale facendo appello a tutta la forza della parte pratica della ragione, allorquando si confronterà con il tema del “male radicale” presente nel mondo degli uomini, e di cui la guerra non è altro che l’espressione più parossistica. No, la pace non è un fine in sé; semmai la pace è un mezzo per altro fine. Con essa, per esempio, gli uomini possono fiorire (M. Volf), e con essa i cristiani possono mettere mano al supporto necessario della buona notizia che hanno tra le mani, la sua proclamazione.
Ecco abbiamo bisogno della pace come un ideale che regoli i nostri passi ora, perché abbiamo questo compito, urgente, per le popolazioni dell’Ucraina e della Russia, ma anche per quelle che vivono a Washington, a Berlino, come a Roma!
Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. 9 Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento (2 Pt 3:18)
L’articolo La pace come ideale regolativo proviene da DiRS GBU.
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