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Il Comitato Direttivo dell’Associazione Gruppi Biblici Universitari, ha annunciato il 1 marzo 2025 di aver nominato il suo nuovo Segretario Generale. Dopo un periodo di transizione con il Segretario Generale uscente, l’incarico verrà ricoperto nei prossimi cinque anni dal Dott. Francesco Schiano Lomoriello.

Francesco ha una lunga storia personale all’interno dei GBU, che risale ai tempi della sua esperienza come studente di Storia moderna e contemporanea presso l’Università Federico II di Napoli dove ha conseguito la Laurea Magistrale. Successivamente ha completato un “Certificate in Theological and Pastoral Studies” presso l’Università di Oxford. Il suo ruolo precedente era quello di Staff a Napoli, inoltre è uno dei responsabili della Chiesa Emmanuele di Bacoli (NA). Dal 2016 è sposato con Milena e insieme hanno tre figli: Gaia (2018), Cristian (2019) e Giorgia (2022).

Francesco ama la dimensione interdenominazionale dell’opera GBU, è appassionato di apologetica e desidera vedere il mondo universitario italiano trasformato dal Vangelo.

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Di Zach Taylor, Staff in Formazione a Roma

Questo articolo deriva da un evento evangelico organizzato dal GBU Roma, dove abbiamo esplorato le seguenti domande attraverso l’analisi di gruppo di opere d’arte, dibattito e una breve presentazione:

  • Cos’è l’arte?
  • Perché creiamo arte?
  • Cosa può dirci l’arte sull’umanità?

Per questo articolo, mi concentrerò principalmente sulla terza domanda come modo per esplorare la storia evangelica della creazione, della caduta e della redenzione attraverso l’arte. È scritto per essere accessibile sia ai cristiani che ai non cristiani. Se desideri leggere un’analisi più completa delle opere d’arte presentate, non esitare a contattarmi tramite il sito web del GBU.

Arte, bellezza e creatività

L’arte pone alcune domande profonde sull’umanità e può catturare la bellezza che vediamo nel mondo, dai bellissimi tramonti di un dipinto di Monet alle magnifiche montagne di Albert Bierstadt. Quando vedo queste opere d’arte, mi ricordano lo stupore e la meraviglia che provo quando vedo queste incredibili parti del nostro mondo. Poiché le pennellate sono state dipinte dagli artisti con passione e pensiero, la bellezza apparentemente infinita che vediamo nel mondo mi fa pensare che il mondo debba avere un certo disegno dietro di sé. La storia della Bibbia ci dice che il mondo non è stato creato per caso ma con uno scopo, soprattutto per essere vissuto e goduto dagli esseri umani nella loro relazione con Dio che li ha creati.

Genesi 1 afferma che gli esseri umani sono fatti a immagine di Dio. Può sembrare una frase strana, ma significa essenzialmente che Dio ci ha creati amorevolmente per essere diversi dal resto della creazione, perché in qualche modo riflettiamo il Suo carattere. Ciò include l’incredibile creatività che vediamo riversata in così tante opere d’arte. Come un genitore o un nonno che insegna a un bambino a disegnare, cantare o cucinare, Dio si compiace che noi prendiamo parte alla Sua creazione e che godiamo dell’uso delle straordinarie capacità che ci ha dato.

Tuttavia, non so voi, ma io non mi sento fatto a immagine di Dio la maggior parte del tempo. So che non amo e non mi prendo cura degli altri perfettamente, che ferisco i sentimenti delle persone e a volte mi sento confuso e isolato. E spesso mi ritrovo frustrato dal fatto di non avere il tempo o la capacità di essere creativo come vorrei e sono schiacciato dalle mie ambizioni irrealizzate. Questa frustrazione è ben espressa dal poeta Joshua Luke Smith:

A volte mi sono chiesto, e forse anche tu puoi averlo fatto, cosa ho esattamente da offrire al mondo? Quando scolpirò la mia statua di David come Michelangelo o dipingerò la nascita di Venere come Sandro Botticelli? Voglio fare qualcosa di grande ed essere qualcosa di grande, ma la maggior parte della mia vita la passo a districarmi dalle ragnatele della vergogna e della sfortuna in cui sono intrappolato.

Mi chiedo se ti sei mai relazionato con qualcuna delle emozioni che hai visto rappresentate in un’opera d’arte. Che si tratti della solitudine ritratta nel New York Movie di Edward Hopper o dell’ingiustizia in The Power of Music di William Mount. Quando guardiamo le opere d’arte create da persone diverse in tempi e luoghi diversi, sembra esserci un dolore e un’angoscia comuni per il fatto che il mondo non è come dovrebbe essere.

Cercare risposte nella rottura

La Bibbia ci dà una ragione per questo. Il dolore e la confusione che spesso proviamo sono il prodotto del fatto che abbiamo tutti rifiutato Dio e abbiamo invece scelto di renderci noi stessi dei delle nostre vite. Vogliamo decidere il nostro destino, fare le cose che ci porteranno più felicità, pensando di sapere cosa è meglio per noi. Ma dove ci porta questo? Fuori dalla relazione con Dio, siamo soli in un grande mondo dove ci sono molte pressioni che ci affliggono ogni giorno. E spinti dalla pressione di fare qualcosa di significativo con la nostra vita, spesso ci sentiamo schiacciati dall’indecisione o dall’ansia.

In molte opere d’arte, sembra che ci sia poca speranza per le situazioni e le persone raffigurate. Quindi, cosa facciamo con quelle opere d’arte che non sembrano offrire alcuna risposta? Ad esempio, un critico dell’opera d’arte Shibboleth del 2007 alla Tate Modern di Londra ha scritto:

l’opera d’arte mi rimbombava in testa tutto il giorno e mi perseguita ancora. Quando mi chiedo perché, mi rendo conto che è perché sembra una ferita, una ferita che non può guarire. Non offre alcuna speranza, lasciandoti vuoto come l’abisso che si apre sotto i tuoi piedi.

Doris Salcedo, Shibboleth I, 2007

Forse questa non è la tua impressione dell’opera d’arte (poiché tutti interpretiamo le cose in modo diverso), ma è chiaro che quando guardiamo l’arte attraverso la storia, c’è molta bellezza e anche molta rottura. Quindi questo ci porta a chiederci: come affrontiamo la tensione tra rottura e bellezza che vediamo nell’arte e nel mondo che ci circonda? Lo abbracciamo semplicemente come la crepa nel pavimento in Shibboleth o c’è una risposta? C’è speranza nella rottura?

Tutto è fatto nuovo

La risposta che dà la Bibbia è che quando l’umanità ha rifiutato l’amore di Dio, la morte è entrata nel mondo come conseguenza della scelta di andare per la nostra strada. Tuttavia, Dio ci ama troppo per lasciarci affrontare la punizione della morte che tutti meritiamo, senza un modo per tornare a Lui. Per questo ha mandato Gesù a morire al nostro posto, affinché non dovessimo pagare noi. E la parte più sorprendente è che Gesù non è rimasto morto ma è risorto dalla tomba, sconfiggendo la morte e aprendo una via per noi, per ricevere la vita eterna in Lui, quando scegliamo di seguire Gesù e di tornare a relazionarci con Dio.

Non solo la risurrezione di Gesù offre speranza di fronte alla morte, ma cambia tutto del nostro presente, mentre guardiamo al futuro. L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, dice: “Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. Non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né dolore, perché le cose di prima sono passate.” Ancora di più, nella frase successiva Dio dice semplicemente ma meravigliosamente “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Tutta la rottura che vediamo raffigurata nell’arte, nelle nostre vite e nel mondo che ci circonda sarà trasformata. Le nostre relazioni spezzate con Dio, con gli altri e con il mondo saranno ripristinate. Come il Kintsugi, la pratica giapponese di riparare la ceramica rotta per creare una nuova opera d’arte, quando scegliamo di seguire Gesù, Egli può trasformare i nostri pezzi rotti in qualcosa di nuovo. La crepa irrisolta nel pavimento è risolta.

Può essere doloroso riconoscere le parti rotte della nostra vita; la nostra sofferenza o la nostra vergogna. Tuttavia, quando le portiamo alla luce di un Dio amorevole che aspetta di perdonarci e darci nuova vita, Egli può fare qualcosa di bello dalla nostra rottura. E quando segui Gesù, puoi vivere con libertà e con uno scopo, alla luce del mondo a venire. Essere i figli creativi di Dio che siamo stati creati per essere, significa che possiamo fare cose straordinarie, senza la pressione di fare o essere qualcosa di grande o di risolvere i problemi del mondo da soli. Possiamo piangere il mondo com’è ora mentre indichiamo la speranza dell’eternità.

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I Gruppi Biblici Universitari esprimono il loro cordoglio per la prematura perdita di Nicoletta ARESCA (1965–2025), nostra sorella in fede, che è stata richiamata alla Casa del Padre il 21 gennaio di questo anno.

Ringraziamo il Signore per la vita e per il servizio di Nicoletta.
Impegnata fin dal 1985 nel gruppo GBU di Torino, ha preso parte a tutte le attività del Movimento, dai campi giovanili a La Salsicaia agli eventi nazionali fino alla partecipazione alla World Assembly del 1991 che si tenne al Wheaton College negli Stati Uniti.

Da subito ha fatto parte del Comitato delle Edizioni GBU dove, alla scuola di Marcella Fanelli, ha rappresentato per molti anni un punto di riferimento per l’attività editoriale.

Fino al 2011 è stata socia dell’associazione GBU, che ha fedelmente sostenuto fino all’ultimo.

Esprimiamo alla mamma Ida e al fratello Walter i nostri sentiti sentimenti di vicinanza e solidarietà cristiana convinti come siamo, noi e loro, che la fede professata da Nicoletta ci porta ad avere la certezza della sua condizione alla presenza del Padre.

Il gruppo staff è numeroso, coeso, capace, con una chiara visione, con valori e una strategia comune.
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Il 2025 sarà un anno di cambiamento per il GBU perché termino il mio impegno come Segretario Generale dopo 15 anni. In realtà gli anni effettivi sono 20 perché c’è stato un periodo di transizione di 5 anni, prima di entrare ufficialmente nel ruolo di SG. Non sarà una transizione facile per me, ma nemmeno per il GBU. La mia preghiera è che saremo capaci di farlo bene.

Il primo motivo per cui lascio è perché mi è stato chiesto di assumere il ruolo di direttore nell’ambito di un programma di IFES, la fellowship internazionale di cui facciamo parte, e i due ruoli non sono compatibili. Il secondo è perché penso che il GBU sia capace di accogliere il cambiamento e la sfida che questo comporta perché il gruppo staff è numeroso, coeso, capace, con una chiara visione, con valori e una strategia comune.

Non ho dubbi che chi continuerà a guidare il movimento e l’organizzazione GBU troverà una base solida su cui continuare a costruire, perché proprio di questo si tratta: continuare a costruire insieme un movimento e un’organizzazione capace di aiutare ogni nuova generazione di studenti a “Condividere Gesù da studente a studente” e a farlo ancora meglio di quella precedente, secondo le parole di Paolo a Timoteo

Ti scongiuro, davanti a Dio e a Cristo Gesù che deve giudicare i vivi e i morti, per la sua apparizione e il suo regno: predica la parola, insisti in ogni occasione favorevole e sfavorevole, convinci, rimprovera, esorta con ogni tipo di insegnamento e pazienza. 2 Timoteo 4:1-2

In accordo con il comitato direttivo rimarrò in carica fino a quando non avrà deciso chi mi sostituirà e non avrò avuto modo di fare il passaggio di consegne.

Quindi vi chiedo di pregare per i prossimi mesi; per coloro che si sentiranno chiamati a proporsi come candidati per questo ruolo, per il comitato direttivo che dovrà prendere delle decisioni importanti, per tutto lo staff GBU che dovrà adattarsi alle novità, ma più di tutto per il ministero di cui siamo portatori: che niente e nulla debba ostacolare la testimonianza nelle università italiane.

Vi lascio quindi nelle buone mani del nostro presidente che vi spiegherà il resto.

Il vostro segretario generale uscente,

Johan

di Johan Soderkvist, Segretario Generale GBU


Cari Studenti, Staff, Soci, Sostenitori e Amici

Vi scriviamo per informarvi che è stata avviata la ricerca per la posizione di Segretario Generale della nostra Associazione. Chiediamo quindi a chi intenda candidarsi di inviarci le sue intenzioni via mail entro il 31 dicembre del c.a. a cd@gbu.it.

Prima di tutto, vogliamo esprimere la nostra profonda gratitudine a Johan per l’enorme lavoro svolto fino ad oggi. Si è aperta nella sua vita un’opportunità umana e professionale in un ruolo di responsabilità all’interno di IFES; quindi, anche l’Associazione nazionale GBU entrerà inevitabilmente in una nuova fase. Potremo ancora contare sul suo supporto ed esperienza, così come Johan potrà sempre contare sul nostro. La sua dedizione e il suo impegno hanno lasciato negli ultimi tre decenni un segno profondo nel nostro movimento, e siamo immensamente riconoscenti per il servizio che ha svolto con umiltà e determinazione, gestendo una struttura e rete di staff e collaboratori che si è consolidata ed ampliata nel corso degli ultimi anni.

Il GBU è una realtà significativa nel panorama evangelico italiano, con oltre 70 anni di storia alle spalle. È un movimento costituito da laici volontari e missionari, impegnato nel compito di servire e rafforzare la Chiesa italiana attraverso la testimonianza cristiana negli Atenei. La nostra missione continua ad essere quella di sostenere gli studenti universitari nel loro percorso di fede e testimonianza e di promuovere un dialogo aperto e costruttivo all’interno delle articolate realtà accademiche. Qui i piani che si intrecciano sono almeno due: quello della fede e quello della cultura, in un confronto con le istanze sociali emergenti in questo primo scorcio di XXI secolo.

Per questo motivo, stiamo cercando una persona qualificata e appassionata che possa assumere il ruolo di Segretario Generale e possa guidare il GBU nel prossimo capitolo della sua storia, portando avanti la visione del movimento nel rispetto della strategia (https://gbu.it/informati/la-missione-la-visione-e-i-valori/).
Se conoscete qualcuno che risponda al profilo di seguito indicato o se vi identificate in esso, vi invitiamo a candidarvi o segnalarcelo scrivendo al seguente indirizzo e-mail: cd@gbu.it; organizzeremo colloqui individuali con i candidati che meglio risponderanno ai requisiti del profilo, che trovate allegata alla pagina del sito in cui presentiamo le nostre richieste di collaborazioni.

Confidiamo di poter nominare il nuovo Segretario Generale appena avremo individuato il candidato che meglio risponda al profilo richiesto. Sino ad allora vi chiediamo di unirvi a noi in preghiera affinché il Signore ci guidi in saggezza, nella fase di selezione della persona che dovrà gestire un team di quasi 30 staff e collaboratori, portando esperienza ed energie nuove.
Ringraziamo tutti voi per il continuo sostegno e per essere parte di questa missione insieme a noi.

Con gratitudine e speranza, a nome del Comitato,
Davide Maglie
Presidente GBU Italia,
28 novembre 2024

Tempo di lettura: 8 minutidi Lucia Di Fonso
(Psicologa, Edizioni GBU)

Il 25 Novembre di quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dell’istituzione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in ricordo delle tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa), violentate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione. In molti paesi, come anche in Italia, il colore esibito in questa giornata è il rosso e gli oggetti simbolo sono rappresentati da panchine o da scarpe da donna rosse posizionate per  ricordare le vittime di violenza e femminicidio.

Qui offriamo una breve prospettiva biblica sul tema, facendo riferimento a un intero capitolo intitolato La vittimizzazione delle donne del libro dei coniugi Derek e Dianne Tidball, Bibbia e quote rosa, Edizioni Gbu, 2021. Gli autori (marito e moglie) consapevoli della complessità dei dati, delle sfide e delle controversie, cercano un approccio umile e integrato al tema guardando alle donne come appaiono nella trama biblica, in luoghi e ruoli chiave.

«La Bibbia non è nient’altro che realistica. Presenta il mondo così com’è, sia quando le relazioni umane sono bellissime sia quando sono caratterizzate da una spaventosa brutalità. Le sue storie recano frequentemente testimonianza a quanto tali relazioni si siano deteriorate dal tempo dell’iniziale disubbidienza di Adamo ed Eva; quanto sono caduti in basso, uomini e donne, rispetto ai propositi creazionali di Dio! Questo è vero più che mai nelle descrizioni dei numerosi e raccapriccianti episodi che coinvolgono le donne» (p. 91).

La vittimizzazione delle figure femminili bibliche, secondo gli autori deriva dal fatto che la stragrande maggioranza degli insegnanti e dei predicatori tradizionalmente erano uomini: «il risultato è che l’esecrabilità a carico degli uomini per quegli atti di crudeltà è minimizzata e se ne fa addirittura ricadere la colpa sulle donne o si sorvola sulle obbrobriosità del comportamento maschile (p. 92).

Nell’Antico Testamento varie e importanti donne sono “vittime”. C’è Agar, vittima dell’impazienza di Abramo e dell’insofferenza di Sara.

Poi c’è Dina (il cui nome significa “giudicata” e la cui storia è narrata in Genesi 34). La teologa battista Lidia Maggi, in un articolo pubblicato sul sito Note di Pastorale Giovanile, così riassume la sua vicenda: «Dina, figlia di Giacobbe e Lea esce di casa per incontrarsi con le altre ragazze del villaggio. Il momento di svago si trasforma in un incubo che le cambierà per sempre la vita. Viene vista, rapita e violentata da Sichem, il figlio del capo del paese. Costui, dopo aver abusato di lei, se ne innamora perdutamente, chiede al padre di poterla sposare; “la sua anima si legò a Dina, figlia di Giacobbe; egli amò la fanciulla e parlò al cuore della ragazza” (Genesi 34:3). Il gesto di Sichem provocò una reazione devastante in un crescendo di orrore e violenza su tutti i maschi del popolo di Sichem da parte dei fratelli di Dina che vogliono vendicarne l’onore (o meglio, il loro stesso onore). Dina verrà riportata a casa, senza che le venga attribuita, nel testo, nessun sentimento e nessuna parola.  Dina esce di scena, precipitando nell’oblio, una sorte di merce di scambio tra mondi maschili, pedina dei loro rapporti di forza»[1].

Anche Tamar (Genesi 38) è vittima dell’indifferenza della sua famiglia e poi quasi vittima della giustizia dell’uomo, finché non ne mette allo scoperto l’ipocrisia. Più tardi, c’è un’altra Tamar figlia del re Davide (2 Sam 13) che fu rapita e abusata incestuosamente dal fratellastro e principe reale Amnon e vendicata due anni dopo da suo fratello Absalom (Bibbia e quote rosa, p. 93).

Diversi capitoli del libro dei Giudici (Gdc 11:29-40) sono dedicati alle figure femminili che denunciano la violenza della società patriarcale: alcune sono donne vittime (la figlia di Iefte o la concubina del levita) altre sono  donne eroine (la profetessa Debora; Giaele).

Nella storia della  giovane donna sacrificata dal padre (Gdc 11), Iefte fece un voto a Dio per vincere una battaglia contro gli Ammoniti, promettendo di offrirgli ciò che sarebbe uscito da casa sua al ritorno. Gli si fece incontro la sua unica figlia che lo accolse festante. Questa prese atto dello sconforto del padre ma lo esortò a compiere comunque il suo voto, chiedendogli due mesi di tempo per poter “piangere la sua verginità”. Allo scadere dei due mesi, il voto fu compiuto. Si trattava in effetti di un voto idolatrico in quanto il sacrificio umano non solo era vietato dalla Legge di Mosè (Lv 18, 21; 20, 2-5), ma era tipico del culto cananeo, come quello del dio ammonita Moloc. Il paradosso, quindi, è che Iefte convinto di fare un atto religioso per il Dio d’Israele, in realtà finisce per fare un sacrificio al dio del popolo nemico. Più tardi un altro capo (il re Saul) non esitò a rompere il giuramento pur di salvare suo figlio Gionatan, in una situazione simile (1 Sam 14).

La storia più sconvolgente di tutte, però, riportata in Giudici 19, è quella della moglie del Levita, un’anonima vittima della lussuria di un levita, della violenza di gruppo da parte di un’intera città e della fredda indifferenza del suo padrone.

Il protagonista di questa storia è un Levita della tribù omonima, addetta a importanti funzioni nel tempio. Abitava ad Efraim ma sposò una ragazza di Betlemme. La donna “concubina”, non ha un nome, appare passiva. Lei gli fu infedele, la traduzione non rende, il termine ebraico chiave può significare che fu “arrabbiata”, piuttosto che “infedele” verso di lui. Potrebbe darsi benissimo che sia stato lui, con il suo comportamento, ad averla indotta a tornare dal padre e abbia fatto quello che tutti gli altri facevano come viene descritto in tutto il libro dei Giudici, vale a dire, quello che le pareva meglio. Quattro mesi dopo, il levita si mise alla sua ricerca. L’uomo sembra interessato a riaverla con sé; decide, pertanto, di partire con l’intenzione di “parlare al suo cuore”. Perché si mise alla sua ricerca? Era perché l’amava o cercava una fredda giustizia, spinto dal desiderio di riprendersi quello che «gli apparteneva»? Se era in cerca di una vera riconciliazione, perché nel suo successivo comportamento la ignora tanto spesso? Quali che siano le sue motivazioni, il levita è ben accolto dal padre della concubina e sembra legare subito con lui. Per qualche giorno il levita si gode l’ospitalità dei genitori di lei. Della concubina non si dice nulla. I riflettori sono puntati sugli uomini, che rimangono il soggetto, gli attori principali; lei è una semplice comparsa. Pochi giorni dopo, questo clima conviviale comincia a deteriorarsi; il levita ha fretta di partire e di tornare a casa sua con la concubina.  Essendo ormai tardi, bisogna fermarsi per la notte.

Lidia Maggi nota: «Non è bene, tuttavia, fermarsi in un villaggio straniero, come suggerisce il servo. Conviene arrivare fino a Gàbaa, città di Beniamino, una delle tribù di Israele. La donna non viene consultata. Continua ad essere passiva. Nessuno sembra più interessato a parlare al suo cuore e neppure alle sue orecchie. Ironia della sorte, la terra che doveva proteggerli – terra promessa, dove avrebbero dovuto scorrere il latte ed il miele di relazioni libere – diventa terra pericolosa, ostile, straniera. Il levita con il servo e la concubina vengono sì ospitati in casa di un anziano; ma, mentre si godono l’ospitalità, ecco che dei pervertiti circondano la casa»[2].

Gli uomini all’esterno della casa vogliono abusare del levita. Il vecchio che li ospita interviene, facendo appello al sacro vincolo dell’ospitalità e propone di offrire in cambio due donne: la sua giovane figlia e la concubina del levita. Abusare di un uomo era inaccettabile. Lo stupro omosessuale sarebbe stata una palese violazione delle regole dell’ospitalità, che erano pesantemente sbilanciate in favore degli uomini. Violentare una o due donne, invece, non sembrava avere le stesse implicazioni o caricarsi dello stesso peso. L’aspetto più sconcertante di quest’episodio della storia è la facilità con cui gli uomini sono pronti a consegnare le donne perché diventino dei giocattoli nelle mani del branco. Viene loro detto: «Fatene quel che vi piacerà» (Tidball, p. 99).

A questo punto «il levita, lesto, spinge fuori la concubina che viene afferrata e violentata per tutta la notte. All’alba, quando i pervertiti si dileguano, la donna si trascina sulla soglia della casa e, con la mano tesa verso la porta, crolla a terra esausta. Passerà qualche ora prima che qualcuno si preoccupi di soccorrerla. Il levita, al risveglio, quando il sole è già alto, la trova sulla soglia. Come se niente fosse, le ordina di alzarsi: sono le prime parole che gli sentiamo rivolgere. Strano modo di parlare al suo cuore! La donna non risponde, non può rispondere.  Il levita non la soccorre: la carica di peso sull’asino e riprende il viaggio verso casa»[3].

L’abuso, lo stupro e la violenza erano degenerati nell’omicidio. Così il levita raccoglie il suo corpo malridotto come se fosse un «sacco di patate» o un tappetino in vendita in un mercato, la caricò sull’asino e partì per tornare a casa sua. Nulla, nella storia, ci offre alcuna indicazione dei suoi sentimenti. Non la piange. Il silenzio sembra calcolato per presentarlo come un uomo indifferente, freddo e spietato.  Si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise… (Tidball, p. 100).

Se non è stato lo stupro collettivo ad ucciderla, e neppure quell’assurdo viaggio di ritorno, ci penserà il coltello del levita che, in nome della giustizia, taglia il corpo della donna in dodici pezzi da mandare alle dodici tribù di Israele: “guardate che cosa mi hanno fatto!”[4].

I Tidball, commentano (op. cit., p. 101): Con un atto «inutilmente brutale», non mostra verso di lei nessun rispetto, non tratta il suo corpo con alcuna tenerezza d’affetti e la fa crudelmente a pezzi, proprio come se fosse la carcassa di un animale.

Ci si può immaginare il levita che giustifica il suo comportamento. L’ha fatto come segno d’avvertimento a Israele. È stato per impartire loro una lezione. La macabra natura del suo pacchetto doveva indurre tutti a fare un balzo sulla seggiola e a considerare quanto si fosse caduti in basso. Serviva una terapia d’urto.

Di primo acchito, l’azione del levita sembra avere sortito l’effetto sperato. Quella di tutti è una reazione d’orrore. «Una cosa simile non è mai accaduta né si è mai vista, da quando i figli d’Israele salirono dal paese d’Egitto fino al giorno d’oggi! Prendete a cuore questo fatto, consultatevi e parlate!» Inoltre, a un esame più ravvicinato, la reazione generale è più ambigua di quanto non possa sembrare. «Qualche cosa deve essere fatto», gridano. Che cosa, però? A ben pensare, la speranza è che vogliano dire che devono pentirsi del loro stato di anarchia e riformare le loro vite in vista della creazione di una società più giusta e meno violenta. Quello che segue, però, suggerisce che abbiano in mente altri tipi di risposta. Quello che hanno in mente è la guerra civile! L’azione del Levita serve soltanto a dare libero corso ad altra violenza, non ad arginarla, dato che tutto Israele si raduna a Mispa per un consiglio di guerra e stabilisce unanime di trattare la tribù di Beniamino «secondo tutta l’infamia che ha commessa in Israele». Il risultato è che 25.000 soldati beniaminiti muoiono in battaglia e le loro città sono date alle fiamme.

In conclusione, come sostengono i Tidball, il modo con cui sono trattate le donne, nel libro dei Giudici e non solo, fa da termometro per misurare la temperatura morale e spirituale del popolo d’Israele. Le tremende esperienze di alcune donne sono in genere riportate come dati di fatto, senza interpretazioni e spesso anche in modo asettico. L’approccio espositivo prevalente nella Bibbia è quello di lasciare che la storia parli da sola. Le storie in cui le donne sono vittime vengono dunque raccontate senza interpretazioni, senza lezioni morali e di solito senza che siano attribuite delle colpe.

È  il lettore dunque a doversi fare un’idea su quello che è giusto e quello che è sbagliato, su ciò che è bene o su ciò che è male.
Per questo motivo potremmo farci delle domande per contestualizzare questi eventi.

1) Perché nelle Scritture sono riportate con dovizia di particolari episodi così cruenti?

2) Quali sentimenti e considerazioni suscitano in noi racconti di tale efferatezza?

3) Quali comportamenti, nel caso del Levita (forse il personaggio più sinistro dei racconti biblici evocati) suscitano maggiormente la nostra indignazione?

4) Quali sentimenti possiamo immaginare provò la concubina nei confronti di diversi uomini (il marito-padrone, il padre, l’ospite e gli stupratori) di cui fu vittima?

In queste storie oltre alla violenza fisica non vanno dimenticate altre forme di violenza. Resta un’ultima domanda: è possibile un processo di guarigione della vittima e/o del violento? E in che modo?

[1]  L. Maggi, Dina e la concubina del levita: due storie distopiche, https://www.notedipastoralegiovanile.it/questioni-bibliche/dina-e-la-concubina-del-levita-due-storie-distopiche (visionato il 20/11/24).

[2] Art. cit.

[3]  L. Maggi, art. cit.

[4] Ibid.

L’articolo La vittimizzazione delle donne proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/la-vittimizzazione-delle-donne-2/

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di Luigi Palombo, staff GBU Milano

Mi chiedo, quale voto daresti a te stesso da 1 a 10 per quanto bene riesci a servire Gesù?
Se il punteggio fosse basato su quanto sei audace come evangelista, quanto vivi per Gesù piuttosto che per te stesso, quanto vuoi servire nel GBU e condividere il vangelo all’università, quale voto daresti a te stesso da 1 a 10?

Abbiamo così tanti impegni, e parlare di Gesù è così scoraggiante, e comunque pochissime persone sembrano interessate a sentir parlare di lui. Non si può semplicemente andare avanti e vivere per me stesso, concentrarmi sui miei studi e basta come tutti gli altri?

Le parole di Gesù

E poi leggiamo le terrificanti parole di Gesù:

“Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.”

Marco 8:34

E poi al versetto 38:

“Perché se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli.”

Sappiamo bene che spesso ci vergogniamo delle sue parole, e sentendolo parlare così ci fa andare nel panico e pensare: “AIUTO! Quando Gesù ritornerà si vergognerà di me?!”

Paura!

Ma come quelli di noi che erano presenti alla Formazione hanno visto da Marco capitoli 8-10, Gesù non vuole che il nostro servizio a lui quest’anno sia governato principalmente dalla paura.
Sa che se il nostro ingresso in paradiso dipendesse da quanto bene lo abbiamo servito da 1 a 10, nessuno di noi avrebbe un punteggio abbastanza alto per entrarci.
“È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per [noi] entrare nel regno di Dio”
Vuole piuttosto che comprendiamo che è impossibile per noi servirlo come dovremmo con le nostre sole forze. La nostra salvezza eterna è assicurata non perché siamo abbastanza bravi ma per il prezzo del proprio sangue egli ha pagato, il prezzo d’ingresso al nostro posto.

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Di Francesco Schiano Lomoriello, Staff GBU Napoli.

L’espressione “ricerca del Gesù storico” fa riferimento allo sforzo di ricostruire un ritratto di Gesù di Nazareth che scavalchi quello offerto dai vangeli, per giungere più vicino possibile alla verità storica.

L’assunto di partenza è che gli autori dei Vangeli non siano stati motivati dal desiderio di riportare la verità oggettiva, ma da intenti teologici e dottrinali. Pertanto, li si accusa di avere inserito nei loro racconti fatti non accaduti realmente, o almeno non nelle modalità descritte, per sostenere le posizioni delle comunità cristiane di cui erano espressione.

Tre fasi della ricerca

Oggi si riconoscono tre fasi della ricerca:

– La prima si è sviluppata tra il XVIII e la prima parte del XX secolo. Il Razionalismo di derivazione illuiminista spinse studiosi come Hermann Reimarus a suggerire la differenza tra il “Cristo della Fede” e il “Gesù della Storia”. Vennero scritte biografie di Gesù che erano soprattutto il tentativo di razionalizzare e naturalizzare i vangeli, epurandoli di tutti gli elementi sovrannaturali. Rudolf Bultmann è stato l’ultimo protagonista di questa fase e colui che vi ha posto fine. Egli suggeriva che il Gesù della Storia fosse inaccessibile alla ricerca. Tale conclusione era stata motivata dalla constatazione che ogni biografia di Gesù pubblicata nei precedenti 2 secoli aveva offerto un ritratto diverso dalle altre, alimentato non tanto dagli auspicati criteri di oggettività, quanto dall’orientamento e dai pregiudizi di chi l’aveva proposto.

– Proprio un discepolo di Bultmann, Ernst Kasemann, è stato l’iniziatore della seconda ondata di studi sul Gesù storico. Convinto, a differenza del suo maestro, della possibilità di colmare il gap tra il Cristo della Fede e il Gesù della Storia attraverso lo studio critico dei testi del Nuovo Testamento. Era la metà del XX secolo e questa stagione durò poco perché importanti scoperte archeologiche imposero un nuovo approccio alla ricerca.

– Studi basati su scoperte come la biblioteca di Nag Hammadi e i rotoli di Qumran permisero agli storici di giungere a una conoscenza più profonda della società e della cultura del Medio Oriente antico. Tale conoscenza è il fondamento dell’approccio della terza fase della ricerca sul Gesù storico. A partire dagli anni ‘60 del secolo scorso, sempre più studiosi si sono interessanti alla possibilità di distillare la verità storica dai testi del Nuovo Testamento. Questo non solo attraverso un lavoro filologico e letterario, ma attraverso l’analisi dei resoconti biblici alla luce delle conoscenze acquisite sulla società nella quale Gesù visse e i vangeli furono scritti. Una caratteristica importante di questa terza fase è la presenza tra i suoi animatori di studiosi atei e agnostici, che in alcuni casi sono cristiani deconvertiti.

Come affrontare la questione

Confrontarsi con le opere di studiosi, passati e presenti, che mettono fortemente in discussione l’affidabilità dei racconti evangelici può rappresentare una sfida di non poco conto per i credenti. Tuttavia abbiamo gli strumenti per affrontare tale sfida e trasformarla in un’opportunità evangelistica.

1. I testimoni oculari e il vero Gesù

L’assunto di partenza a cui abbiamo fatto riferimento, cioè la convinzione che i Vangeli canonici non rappresentino resoconti storici ma ricostruzioni teologiche della figura di Gesù, non è assolutamente dimostrato. Le prove interne sembrano suggerire tutt’altro. Se si pensa alla presenza di tanti particolari non necessari alla narrazione (il numero di pesci pescato alla seconda pesca miracolosa, il giovane coperto da un lenzuolo presente all’aresto di Gesù, il fatto che Giovanni arrivò al sepolcro prima di Pietro, ecc.), alle storie che mettono in cattiva luce i discepoli, o alla dichirazione d’intenti che Luca offre all’inizio del suo Vangelo (…è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine, di scrivertene per ordine…), si può sostenere ragionevolmente che gli evangelisti abbiano riportato testimonianze oculari con lo scopo di presentarci il vero Gesù.

Proprio la categoria della testimonianza è quella che suggerisce lo studioso Richard Bauckham nel suo Gesù e i testimoni oculari1 per comprendere correttamente il genere letterario Vangeli. Estremamente soggettivo, ma non per questo non attendibile.

D’altra parte, la data di pubblicazione degli scritti del Nuovo Testamento, collocabile al più tardi tra il 60 e il 95 d.C., rende piuttosto difficile sostenere che essi contengano miti e leggende, visto che i testimoni oculari dei fatti narrati erano ancora in circolazione in quegli anni.

2. Incontrare il Cristo con la ricerca del Gesù storico

Oggi la maggior parte degli studenti è convinta che la Bibbia non sia un testo affidabile; parlare di Gesù a partire da ciò che affermano i Vangeli spesso vuol dire scontrarsi con questo pregiudizio. In un contesto simile, la ricerca del Gesù storico rappresenta un punto di incontro tra il credente e lo scettico. In altre parole, ci si può avvicinare ai testi del Nuovo Testamento da scettici e analizzarli con gli strumenti della storiografia moderna. Si può cercare di capire chi sia stato Gesù di Nazareth, senza dover prima accettare la dottrina dell’ispirazione della Bibbia, e incontrare il Cristo.

Non mancano le testimonianze di persone comuni e studiosi2 che, analizzando i Vangeli da non credenti, sono finite per riconoscere Gesù come loro Dio e Signore, proprio come accadde al primo scettico, il discepolo Tommaso.

  1. Bauckham R., Gesù e i testimoni oculari, Ed. GBU, Chieti 2010 ↩︎
  2. Si vedano, ad esempio, i seguenti libri di autori che hanno raccontato la loro esperienza: Chi ha rimosso la pietra?, F. Morison, Più che un falegname, J. MacDowell, Il caso Gesù, L. Strobel ↩︎
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Di Cristiano Meregaglia, Staff GBU Milano.

L’articolo è la sintesi del seminario che lo stesso Cristiano ha proposto ai coordinatori durante la Formazione GBU (ndr)

Imagine there’s no heaven / It’s easy if you try / No hell below us / Above us only sky / Imagine all the people / Living for today… / Imagine there’s no countries / It isn’t hard to do / Nothing to kill or die for / And no religion too / Imagine all the people / Living life in peace…

Lennon, John. Imagine

Così cantava John Lennon nel 1971, auspicando un tempo in cui le persone potessero vivere, finalmente, solo per l’oggi, senza essere oppresse dal pensiero di un paradiso o un inferno che si schiudessero loro davanti al momento del trapasso. Un mondo in cui non ci fossero nazioni e religioni, contrapposte le une alle altre, ad impedire una pace altrimenti possibile.

Certo, seppur a distanza di più di 50 anni, queste parole e questi auspici sono ancora presenti, e forti, nella società in cui viviamo. Parole che sembrano suggerire che la fede è non solo razionalmente insostenibile, ma anche moralmente dannosa. Pertanto, la società risulterebbe molto più funzionale se, da essa, si sradicasse ogni radice religiosa.

Il “nuovo” ateismo

Tutto ciò è stato sostenuto, in modo esplicito, dai principali esponenti del cosiddetto movimento del New Atheism. Questi hanno dedicato lunghe pagine a descrivere, senza mezzi termini, i grandi mali che la religione ha prodotto nella storia. Dalle crociate alla Jihad, dalle guerre di religione ai regimi teocratici contemporanei, questi intellettuali hanno messo bene in evidenza come la soluzione per un mondo migliore sembri essere proprio quella prospettata dal cantante dei Beatles.

È interessante notare, però, che, sebbene questi autori vengano appellati come nuovi atei, le tesi che sostengono sono tutt’altro che nuove. Esse sono infatte desunte, a tutti gli effetti, dalle riflessioni di pensatori del passato. Tra questi pensatori del passato è impossibile ignorare Bertrand Russell. Con la raccolta di saggi confluiti nel testo Perché non sono cristiano, Russell rappresenta, a tutti gli effetti, un riferimento normativo per buona parte della letteratura prodotta in seno al nuovo ateismo. 

La religione: una malattia da estirpare

In uno di quei saggi, intitolato “La religione ha contribuito alla civiltà?”, infatti, Russell espone proprio quelle tesi che, decadi dopo, Dawkins, Hitchens, Harris, Odifreddi, Augias e altri intellettuali contemporanei continuano a proporre per sostenere il danno prodotto dalla religione. Nella fattispecie, Russell sostiene che la religione sia «una specie di malattia, frutto della paura e fonte di indicibile sofferenza per l’umanità». Questo sostanzialmente per due motivi che hanno a che fare con la sfera intellettuale e con quella morale. Infatti, da un lato la religione impedisce il libero pensiero e la libera indagine razionale; dall’altro imponendo una morale, ritenuta assoluta e ancorata a concetti arcaici, produce i conflitti alla base dell’infelicità umana. Così, infatti, si esprime a conclusione del suddetto saggio:

«Con il progresso del sapere e della tecnica, la felicità universale può essere raggiunta; ma il principale ostacolo alla loro utilizzazione per tale scopo è l’insegnamento della religione. La religione impedisce ai nostri figli di ricevere un’educazione razionale; la religione ci impedisce di rimuovere le cause fondamentali delle guerre; la religione ci impedisce di insegnare l’etica della collaborazione scientifica in luogo delle vecchie, aberranti, dottrine di colpa e castigo. Forse l’umanità è alla soglia di un periodo aureo; ma per poterla oltrepassare sarà prima necessario trucidare il drago di guardia alla porta: questo drago è la religione».

Russel, B. “Perché non sono cristiano”, Longanesi & C., Milano, 1960, p.24

Ora, per quanto mordenti siano tali critiche, è utile sottolineare che è lecito, e forse doveroso, essere d’accordo con alcune delle istanze presenti nel saggio. È indubbio, infatti che diverse persone, reclamanti il nome di cristiani (o di altre religioni), nel corso della storia, abbiano compiuto azioni effettivamente riprovevoli, spesso abusando della posizione sociale fornita loro dalla religione; ed è altrettanto condivisibile l’insistenza sulla necessità di rifiutare una fede acritica, che non sia consapevole di ciò che crede e del perché lo creda.

Stante ciò, però, è anche necessario indicare come tali critiche, in verità, si espongano a delle forti contro-obiezioni, le quali possono essere articolate secondo tre linee di risposta.

1. Ciò che Cristo predicava e l’impatto sulla società

Innanzitutto è facilmente dimostrabile come il cristianesimo vero, quello incarnato e predicato da Gesù Cristo stesso, sia radicalmente diverso dalle altre religioni e, in molti casi, dalla rappresentazione che di esso ne hanno fatto i cristiani. Il vero cristianesimo, infatti, lungi dall’essere fonte di violenza, ha alla propria radice la persuasione attraverso la contrizione interiore, piuttosto che la costrizione esteriore tramite l’uso della forza. Non è un caso, perciò, che, quando Gesù, a poche ore dalla sua condanna a morte, si trovò nel Getsemani e Pietro provò a difenderlo con le armi dai suoi nemici, non solo ordinò al suo discepolo di riporre la spada nel fodero, ma guarì anche il servo del sommo sacerdote che era stato ferito proprio da quella spada (Mt 26:51-52; Lc 22:51)

È facile mostrare, inoltre, che il vero cristianesimo non solo non è causa di male per la società, ma che, piuttosto, la società intera ha beneficiato dell’influsso del cristianesimo, il quale ha generato ospedali, croce rossa, orfanatrofi, università… al punto che un giornalista ateo ha potuto scrivere, su The Times, che, in Africa, il contributo che l’evangelismo ha dato per il progresso della società è stato di gran lunga superiore a quello fornito da qualunque altra organizzazione, governativa o meno che fosse (M.Parris, The Times, 27.12.2008).

2. Una società che vuole liberarsi di Dio

In secondo luogo, si può, altrettanto facilmente, mostrare come una società in cui Dio sia rimosso si apra alla possibilità di qualunque violazione e sopruso da parte dei più potenti, proprio perché si rimuove il presupposto secondo cui si debba rendere conto delle proprie azioni davanti ad un Dio giusto. Di tali situazioni il XX secolo abbonda di esempi, dalla Russia di Stalin, alla Cina di Mao, alla Cambogia di Pol Pot. Il premio Nobel per la letteratura Solzhenitsyn, a riguardo, affermava che «se si chiedesse oggi di formulare nella maniera più conscia possibile la causa principale della rovinosa Rivoluzione che ha inghiottito 60 milioni di persone del nostro popolo, non potrei essere più accurato nel dire: gli uomini hanno dimenticato Dio; ecco perché è accaduto tutto ciò» (A. Solzhenitsyn, Templeton Prize Address, 1983).

3. Fallacia argomentativa

Si può, infine, evidenziare come proprio i principi in base ai quali oggi si critica la religione sono principi cristiani, principi che non ci sarebbero se non ci fosse stata la rivoluzione culturale prodotta da Gesù e dal conseguente cristianesimo. La libertà, l’uguaglianza, il progresso, la scienza, la pace che sembrano essere messi in dubbio, nella società, dalla religione, sono, in verità, nient’altro che il prodotto del cristianesimo, e noi ne siamo così immersi che sono come l’aria che respiriamo (cfr. G. Scrivener, The air we breath, Introduzione).

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di Sharon Fichera, coordinatrice GBU Bologna

Ciao a tutti! Mi chiamo Sharon, ho 20 anni e sono siciliana. Sono anche bolognese di adozione, da quando mi sono trasferita nella capitale dei tortellini per studiare Lettere Classiche. Amo Gesù e amo parlare di Lui, e proprio per questo, quando ho conosciuto il GBU me ne sono innamorata e mi sono unita al gruppo di studenti a Bologna.

Quest’anno ho partecipato alla Formazione per coordinatori, che si è tenuta a Rimini a inizio ottobre. Brevemente, la Formazione prepara giovani leader per essere un supporto al GBU a livello locale. Inutile dire che Dio ha lavorato in me più di quanto mi potessi aspettare, e per questo voglio raccontarvi la mia esperienza.

Il programma si è sviluppato seguendo tre filoni: 

Bibbia e Preghiera

Abbiamo approfondito la conoscenza delle Scritture e il nostro rapporto con Dio tramite studi biblici induttivi (SBI), preghiera, lode e prediche. In questo track abbiamo studiato i capitoli 8-10 di Marco. Ciò che mi ha colpito è stato vedere il continuo gioco di potere intrinseco nell’animo umano. Gesù cercava di insegnare ai discepoli che dovevano sacrificare sé stessi ogni giorno, amare e servire gli altri con disinteresse, smetterla di cercare di guadagnarsi la vita eterna con i propri sforzi e accettare l’amore di Dio. Loro invece si comportavano con arroganza, non capivano gli insegnamenti di Gesù e credevano di essere superiori agli altri, oltre che a fare a gara tra loro stessi su chi fosse il maggiore. Gesù cercava di insegnare loro cosa fosse la vera grandezza, ma loro (e spesso anche noi) avevano un cuore duro. 

Coordinatori

Questo track era pensato per farci apprendere chi un coordinatore deve essere e cosa deve fare per dare il giusto apporto al GBU locale e alla missione nell’università. È stato bello concentrarci anche sulle nostre potenzialità e quelle dei nostri gruppi GBU. Ciò che mi ha colpito di più è stato imparare cosa voglia dire essere coordinatori maturi. La definizione che abbiamo dato di maturità spirituale è “Crescita costante, coerente e consapevole in Cristo”. Per camminare in questa crescita è necessario morire a sé stessi, accettare la sofferenza, abbracciare il sacrificio e la croce, consapevoli che tutto ciò lo si attraversa per una gioia e una gloria più grandi, ovvero la proclamazione del vangelo e l’avanzamento del Regno di Dio.

Evangelizzazione

Con questo track ci siamo concentrati su condividere Gesù da studente a studente, sia individualmente che come gruppo locale. Mi è piaciuto molto un seminario dal titolo “La fede è dannosa (?)”, in cui abbiamo letto alcune delle critiche mosse al cristianesimo nel corso della Storia e della Filosofia. Ho trovato utile e stimolante ricevere degli strumenti per controbattere a queste critiche. Inoltre, è stato molto interessante notare come molte persone non siano indignate o in collera a causa di Dio, ma a causa di ciò che la Chiesa ha fatto in nome di Dio. Questo mi ha sfidato ad essere un buon esempio per chi mi circonda e a onorare Cristo in ogni cosa che faccio.

Ma la Formazione, a livello pratico, a cosa è servita?

Personalmente, la formazione mi ha incoraggiata e sfidata ad avere consapevolezza del mio ruolo come coordinatrice, a servire gli altri, a sacrificare me stessa per Cristo, a vivere una vita di preghiera, a cercare il volto di Dio, e a diffondere il vangelo senza vergogna. Sono sicura che tutti noi presenti lì abbiamo ricevuto una grande spinta a lavorare nei nostri GBU, per i nostri GBU e con i nostri GBU, per condividere Gesù da studente a studente.

A questo punto rimane una sola domanda, implicita, a cui rispondere: “Qual è la vera grandezza?”

Per scoprirlo basta guardare a Gesù, il più grande Re che abbia calpestato la Terra, il servo che lavò i piedi ai suoi discepoli.

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Andy Bannister

Solo perché un racconto utilizza gli stessi nomi e personaggi di un altro non significa automaticamente che le due storie siano collegate. Anzi, dobbiamo capire se questi elementi sono stati presi in prestito o se sono stati ereditati.

Per comprendere la differenza fra eredità e prestito consideriamo un esempio architettonico. Uno dei miei edifici preferiti è il duomo di York, probabilmente la più bella cattedrale d’Inghilterra. La sua storia è affascinante: la splendida chiesa normanna, poi cattedrale, fu costruita al di sopra di una chiesa sassone più antica; l’edificio medievale cresceva mentre la chiesa più antica fu ampliata e rimodernata. Sotto la chiesa sassone, però, c’è qualche cosa di ancora più antico: le rovine di un presidio militare romano. Se fate il tour della cripta, potete scendere attraverso strati di storia fino alle rovine romane nelle fondamenta.

C’è però una differenza sostanziale fra le rovine romane, sassoni e normanne. Nel suo processo di ampliamento, il duomo di York si è sviluppato organicamente dalle chiese più antiche, parallelamente al loro accrescimento e arricchimento. Che dire, però, delle rovine romane nella cripta? Certo, sono state utilizzate delle pietre romane, in quanto era agevole per le maestranze della chiesa sassone avere tonnellate di pietre squadrate sparse intorno e inutilizzate[1]. I Sassoni, però, usarono il materiale romano solo come mattoni da costruzione, non c’è nessuna continuità fra le rovine romane e la chiesa.

In altre parole, il duomo medievale di York ha preso in eredità dalle chiese normanna e sassone, mentre ha preso in prestito dal presidio romano, modificando la funzione delle pietre e gettandole senza troppe cerimonie nelle fondamenta della nuova costruzione.

Nel suo libro The Qur’an and Its Biblical Reflexes, Mark Durie propone un altro esempio che può aiutarci a comprendere la differenza fra eredità e prestito, stavolta preso dalla linguistica. Quando due lingue derivano da una fonte comune, condividono non soltanto delle parole ma anche delle strutture profondamente correlate. Consideriamo, per esempio, le parole per dire «topo» in inglese, islandese e tedesco[1]. In inglese il singolare è “mouse” e il plurale “mice”; in islandese è mus/mys e in tedesco Maus/Mause. Si noti come le forme singolare e plurale mostrino tutte lo stesso schema: una variazione vocalica interna. Questo tratto strutturale condiviso è indizio della derivazione di queste lingue da una fonte comune; hanno, cioè, una comune eredità.

Il prestito, al contrario, di solito è altamente distruttivo. Si pensi alla parola “juggernaut” [furia devastante, ndt], presa in prestito dalla lingua inglese dal sanscrito tramite l’Hindi. Originariamente era Jagannatha, nome sanscrito di una divinità indù il cui culto prevedeva di schiacciare i fedeli sotto le ruote di enormi carri. Quel contesto si era però totalmente perso quando l’inglese ha distruttivamente preso in prestito il termine.

Il Corano e la Bibbia: prestito o eredità?

Un lettore del Corano che abbia anche dimestichezza con la Bibbia noterà presto i frequenti riferimenti coranici a racconti e personaggi biblici. Fra i personaggi presenti nelle pagine del Corano[1] possiamo trovare Aaronne, Abraamo, Adamo, Davide, Elia, Eliseo, Esdra, Gabriele, Golia, Isacco, Ismaele, Giacobbe, Gesù, Giovanni, Giona, Giuseppe, Lot, Maria, Mosè, Noè, Faraone, Saul, Salomone e Zaccaria.

Oltre ai nomi compaiono anche idee e nozioni bibliche: di tutto, dal monoteismo all’adorazione, dall’idolatria al peccato, dalla legge alla Scrittura. Nulla di sorprendente se qualcuno, osservando questo fenomeno, ha concluso che il Corano deve essere un sequel della Bibbia e l’Islam il terzo atto dell’opera, dopo l’Ebraismo e il Cristianesimo. Queste idee e queste nozioni di provenienza biblica, però, sono per il Corano un’eredità o un prestito? Nella mia tesi, la teologia coranica non scaturisce organicamente dalla Bibbia; anzi, come le fondamenta romane del duomo di York, la parola “juggernaut” o la versione fantascientifica del Macbeth, il Corano ha fatto un ricorso massiccio e distruttivo al prestito, perdendo nel processo il contesto e il senso. Il risultato è una grande confusione, fra l’altro, su Dio, la sua natura e la sua identità. Come possiamo dimostrare la mia tesi secondo cui nel Corano non troviamo un’eredità ma un prestito? L’esempio per eccellenza per provarlo è Gesù.

 

…. Continua la lettura prenotando il libro di Bannister che sarà presentato al 17° Convegno Studi GBU: Cristiani e Musulmani adorano lo stesso Dio?, Edizioni GBU

 

[1] Molti dei quali con nomi arabizzati; per esempio, Aaronne è Harun, Elia è Elias e Giona è Yunus.

[1] Mark Durie, The Qur’an and Its Biblical Reflexes, op. cit., p. XL.

[1] «Guardate che cosa i Romani hanno fatto per noi!»

 

*Immagine di jeswin su Freepik

L’articolo Prestito o eredità (Vivere e confrontarsi con l’Islam) proviene da DiRS GBU.

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