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di Glen Scrivener

L’aria che respiriamo. Il cristianesimo, la libertà, l’educazione, il progresso e l’uguaglianza
Edzioni GBU 2025

Ho scritto questo libro rivolgendomi a tre tipologie di lettori [a tre interlocutori]:

  • quelli del “rifiuto” (privi di qualsiasi affiliazione religiosa)
  • quelli del “rigetto” (quanti sentono di essersi allontanati dal cristianesimo)
  • quelli della “riserva” (quanti sono già cristiani)

 

Quelli del “rigetto”

Se appartenete alla categoria del “rigetto”, sentite in qualche misura di esservi lasciati il cristianesimo alle spalle. Sapete tutto della fede cristiana. L’avete osservata a fondo e non vi è piaciuto quanto avete visto. Forse in passato siete stati anche profondamente impegnati in chiesa ma ora siete andati o volete andare oltre. Se siete così, vi ringrazio moltissimo per avere preso in mano questo libro e per essere arrivati fin qui. Voglio assicurarvi che posso capire bene le critiche alla chiesa istituzionale. I cristiani onesti dovrebbero esserne pieni e io ne ho
tutto un armamentario. Consentitemi di elencare alcune comuni critiche alla chiesa e di metterle, nel farlo, alla prima persona, perché anche i cristiani hanno problemi con questi temi. Questo, però, è il punto (e non vi sorprenderà sentirmelo dire ancora una volta): ci creano problemi per motivi cristiani.

Se non mi piace la violenza delle guerre veterotestamentarie o quelle della storia della chiesa negli ultimi duemila anni, è probabilmente perché ho metabolizzato gli insegnamenti di colui che disse: «Riponi la tua spada al suo posto». Se mi ripugna l’antica pratica israelita della schiavitù è quasi certamente perché ho ereditato le nozioni bibliche di riscatto, libertà e uguaglianza. Se sono devastato dagli scandalosi abusi ecclesiastici, sono con Cristo e contro gli utilizzi distorti della sessualità e del potere endemici alle civiltà umane.

Se detesto gli episodi in cui la chiesa ha maltrattato le minoranze, sto attribuendo un valore sacrale (e peculiarmente cristiano) ai deboli, ai poveri e agli oppressi.
Se ritengo la chiesa dalla parte sbagliata della storia, sto considerando la storia e il progresso in modi assolutamente biblici.
Se odio l’arrogante colonialismo cui a volte si è accompagnata la crescita della chiesa, sono in linea con ideali profondamente cristiani: chi governa dovrebbe servire, non dominare e le differenze andrebbero valorizzate, non eliminate.

Potrei proseguire.
La litania delle colpe cristiane è lunga. Notate, però, quello che succede anche quando do voce a queste fondate lagnanze. Sto chiamando il potere istituzionale a rispondere delle sue azioni di fronte a un’autorità superiore, sollecitazione incredibilmente biblica. In più, sto confessando dei terribili comportamenti nel nome del cristianesimo istituzionale. Una tale confessione è, di nuovo, profondamente cristiana.
Più di tutto, però, gli standard da me prospettati per il nostro giudizio sono peculiarmente “cristiformi”. Mi sto riferendo a Gesù quale «linea retta» in base alla quale misurare tutte le storture. Quando pertanto la chiesa è giudicata e le sue pecche sono messe a nudo, questa non è un’operazione anti–cristiana. Una riforma radicale e un continuo ravvedimento sono parte integrante del cristianesimo, quanto meno della sua versione più autentica.
John Dickson ricorre all’analogia di una canzone e dei suoi esecutori. Gesù ha donato al mondo una canzone meravigliosa. Il suo popolo, cantandola, l’ha spesso stonata; qualche volta siamo state le voci più stonate di tutte. La canzone, tuttavia, rimane buona e bellissima e se l’avete ascoltata davvero, non riuscirete a togliervela dalla testa.
Lori Anne Thompson è stata forse la principale vittima del famigerato evangelista cristiano Ravi Zacharias. La sua era stata una doppia vita, tanto che perfino al suo funerale, nel 2020, il vice presidente [degli Stati Uniti, ndt] Mike Pence l’ha definito «il più grande apologeta cristiano di questo secolo». In realtà era stato coinvolto per decenni nei più vergognosi
abusi sessuali, spirituali e finanziari. Lori Anne Thompson ha denunciato il modo con cui aveva abusato di lei ma le occorsero anni per essere creduta. La cosa è venuta alla luce solo quando un’ostinata inchiesta dall’esterno mise a nudo le tenebre dell’interno. Il tradimento provato dalla Thompson fu devastante, come svelò nella sua dichiarazione d’impatto della
vittima del 2021:

«Prima di incontrare Ravi Zacharias sapevo che il mondo è un posto insicuro, tuttavia conservavo ancora la speranza nell’esistenza di alcuni spazi sicuri e sacri. Non vivo più con quella speranza. Gli avevo creduto. Avevo creduto nel cristianesimo, una fiducia irreparabilmente e drammaticamente andata in frantumi. Tuttavia, credo ancora in Cristo, anche se magari è una finzione, in quanto non potrei trovare un’etica più alta. Loro (le élite religiose) l’hanno spogliato, percosso senza pietà, insultato in tutti i modi e poi l’hanno anche pubblicamente crocifisso».

Ecco una persona profondamente ferita da autorità e istituzioni cristiane. Tuttavia, la canzone l’ha avvinta. In un certo senso, la canzone è ineluttabile. Se Cristo può essere incontrato e incontrato nel modo più intimo possibile, proprio quando il suo cosiddetto popolo vi disgusta e abusa di voi, allora, come un antico testo scritturale chiede a Dio, «dove fuggirò dalla tua presenza?» (Sal 139:7). Come altrove la Thompson ha detto, «non posso trovare nulla di riprovevole, nulla di falso nella persona di Cristo… Il cristianesimo ha creato dei rifugiati; il Cristo invece li ha accolti».

Da questo punto in poi la strada si presenta simile a quella consigliata a quelli del “rifiuto”: aprire i Vangeli e ascoltare la canzone ancora una volta. Al tempo stesso è fondamentale anche ripristinare la fiducia nella chiesa. Non possiamo sopravvivere con il ricordo di una melodia. Abbiamo bisogno di sentirla suonare. Abbiamo bisogno che prenda vita e si manifesti davanti a noi. La responsabilità di ripristinare la fiducia nella chiesa, però, risiede massicciamente all’interno della chiesa. Per questo voglio finire con una parola rivolta ai cristiani.

 

 

L’articolo A quelli del “rigetto” non andatevene! 2/3 proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/a-quelli-del-rigetto-non-andatevene-2-3/

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Di Davide Maglie, Presidente GBU

Il nostro Bilancio Sociale 2024 non è solo un insieme di numeri, ma un fermo immagine che intende raccontare una storia vivida e dinamica, in cui i protagonisti sono studenti universitari, staff, collaboratori a vario titolo, associazioni consorelle che fanno parte della fellowship GBU, laureati, chiese e sostenitori, che hanno scelto (tutti insieme anche se a farlo in prima linea sono e saranno sempre gli studenti) di condividere la fede in Gesù nelle università italiane.

In un contesto sociale segnato da ansie, precarietà, relazioni fragili e incertezze per il futuro, il GBU in tutte le sue articolazioni ha continuato a offrire spazi di ascolto, accoglienza, amicizia e fede. Nel corso del 2024 sono stati attivi 29 gruppi in 23 città, oltre 150 studenti sono stati in qualche forma coinvolti, si sono tenuti eventi nazionali e locali partecipati e un bilancio economico solido che ci ha permesso di guardare con fiducia ai progetti da sviluppare nel corso del 2025. La solidità però non deriva da mere considerazioni finanziarie, ma dalla certezza che è il Signore a spingere avanti questa missione, attraverso le persone che si impegnano con passione, attraverso la Sua provvidenza generosa che si rinnova stagione dopo stagione, espressa per tramite di decine e decine di donatori che hanno investito le proprie risorse personali. Questo report è un modo di dire grazie anche a loro.

Il cammino in questo 2025 del GBU non si ferma qui. Le linee guida dei prossimi anni sono già tracciate: ampliare la platea degli studenti credenti che collaborano con la nostra missione, coinvolgendo un numero maggiore di chiese e sensibilizzandole alla testimonianza negli atenei nel segno della interdenominazionalità, raggiungere una generazione di studenti disillusi per renderli sensibili alla voce del Maestro di Nazareth, rafforzare e incoraggiare i gruppi locali esistenti e attivarne di nuovi, consolidare la nostra struttura organizzativa, e accogliere con calore gli studenti internazionali.

C’è un filo rosso che lega passato, presente e futuro: la convinzione che, come dice il Segretario Generale uscente Johan Soderkvist citando la lettera agli Ebrei, “ogni casa è costruita da qualcuno, ma chi ha costruito tutte le cose è Dio”. Ed è con questa certezza che il GBU guarda avanti, pronto a scrivere nuove pagine di speranza tra i corridoi e dentro le aule universitarie italiane.

La nostra missione e stella polare non è cambiata negli ultimi, anzi nei “primi” 75 anni della nostra storia: condividere chi è Gesù e perché è importante conoscerlo (per citare un titolo di un bel libro del teologo Alister McGrath) grazie all’impegno di studenti evangelici, in un contesto complesso e sfidante come quello universitario, dove abbiamo bisogno di sviluppare una fede biblicamente fondata che continui a riflettere, pensare a confrontarsi con una pluralità di visioni del mondo e con quel marcato relativismo e materialismo molto presenti anche in questo primo scorcio di XXI secolo. Anche se nuove sfide si affacciano all’orizzonte e le analizzeremo con gli strumenti e doni che il Signore ha riversato in questo movimento.

E il cammino continua, con il desiderio di raggiungere sempre più giovani e costruire insieme nuove storie di speranza, di trasformazione e redenzione, sostenuti dalla grazia del Signore.

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di Glen Scrivener

L’aria che respiriamo. Il cristianesimo, la libertà, l’educazione, il progresso e l’uguaglianza
Edzioni GBU 2025

Ho scritto uesto libro rivolgendomi a tre tipologie di lettori [a tre interlocutori]:

  • quelli del “rifiuto” (privi di qualsiasi affiliazione religiosa)
  • quelli del “rigetto” (quanti sentono di essersi alluontanati dal cristianesimo)
  • quelli della “riserva” (quanti sono già cristiani)

 

Quelli del “rifiuto”
«Come ben sai, non potrei mai condividere la tua fede!» Così una mia amica ha scritto in una lettera. Si sentiva costituzionalmente impossibilitata a credere. Molti dei miei amici si sentono così. Pensano di non essere persone di fede, mentre io lo sono. In qualche modo, io ho «fatto il grande passo»; un passo che loro sono troppo scettici o impauriti per farlo.

L’idea di un salto di fede è popolare. La sua rappresentazione hollywoodiana più celebre è forse quella del film Indiana Jones e l’ultima crociata. L’intrepido archeologo deve oltrepassare un profondo burrone e si limita a credere nella presenza di un sentiero invisibile a fargli da ponte. Anche se non può  vedere il ponte, nondimeno muove i suoi passi in quell’apparente vuoto e… thud… i suoi piedi poggiano su qualche cosa
di solido. Il ponte esiste. Il salto è stato premiato. Buon vecchio, coraggioso Indy!

Certo, se la fede è questo, quasi tutti concluderanno che non fa per loro. Serve qualcuno davvero coraggioso (o stupido!) per scommettere la propria vita su un salvatore invisibile. Quasi nessuno è spiritualmente un Indiana Jones; così, se questa è la fede, allora non c’è nulla di strano quando i miei amici dicono: «Non fa per me».

La fede, però, non è così e qui si pone un problema più serio. Neppure la vita è così. L’idea del «salto di fede» presuppone un terreno solido sul quale ce ne andiamo in giro quasi tutto il tempo; non serve nessuna fede. Semplicemente, viviamo in base alla scienza, alla ragione e a quanto può essere dimostrato in laboratorio. Stando a questa concezione, le persone si muovono in generale su un terreno solido, fondato sulle evidenze, mentre pochi, bizzarri religiosi scelgono di vivere su un indimostrato piano più alto. È questo il vero problema dell’idea del «salto di fede» e non potrebbe essere più lontano dalla verità.

Se avete seguito le argomentazioni di questo libro, vi renderete conto che tutti noi viviamo ad altezze vertiginose. La cristianizzazione del nostro mondo è stato il grande «salto di fede» della storia. In rapporto ai valori da noi dati per scontati, siamo tutti sospesi a mezz’aria, a diecimila metri d’altezza! Ben pochi fra noi, forse nessuno, può vivere al livello della terra, semplicemente trattando noi stessi e gli altri esseri umani
nostri simili come delle piccole scimmie dispettose. Il presupposto delle nostre attitudini e dei nostri obiettivi fondamentali è che noi e gli altri siamo esseri morali profondamente importanti. Ci trattiamo (o almeno sentiamo di doverci trattare) a vicenda come esseri investiti di una dignità indimostrabile e immeritata. L’accettiamo per fede.

Per dirla con il filosofo Larry Siedentop, il cristianesimo ci ha insegnato a «scommettere sull’uguaglianza morale degli esseri umani»1. In altre parole, muoviamo i nostri passi nel mondo sulla base di preesistenti convinzioni su noi stessi e sugli altri ed è un azzardo, perché forse tratterò l’altro come qualcuno investito di un valore supremo e lui, in cambio, potrebbe trattarmi come una scimmia malriuscita. Nondimeno, faccio la scommessa. Vivo per fede, proprio come voi.

Se dite di non avere fede, io dirò: «Non ti credo». Non si tratta soltanto di diritti umani e uguaglianza morale ma di tutti e sette i valori tipicamente occidentali da noi esplorati e anche di tanto altro. Siamo tutti già credenti. Non abbiamo bisogno di fare un «salto di fede». La nostra civiltà ne ha già fatto uno molto incisivo. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è qualche tipo di terreno su cui poggiare i piedi.

Come trovarlo? Un primo passo potrebbe essere incontrare il vostro creatore (non preoccupatevi, non è quello che potreste pensare). Magari non credete che Gesù sia il vostro Creatore con la C maiuscola ma forse avete notato che, fra i corsi e i ricorsi della storia, è il creatore del vostro universo morale. Così, ecco il mio consiglio: incontratelo. Incontrate Gesù. Leggete lentamente i Vangeli, le biografie di Gesù contenute nella Bibbia intitolate Matteo, Marco, Luca e Giovanni e vedete se per caso percepite in lui una potenza più autentica e profonda rispetto ai valori su cui poggiate: una compassione alla base della compassione da voi apprezzata; un amore alla base dell’amore in cui credete.

Quando incontrate il Gesù dei Vangeli fatevi due tipi di domande, una universale e una personale.

Chi è Gesù, a livello cosmico? È solo uno dei tanti protagonisti della storia o potrebbe essere qualcosa di più? Potrebbe essere il «figlio dell’uomo» e il «figlio di Dio», l’essenza stessa dell’umanità e della divinità? Potrebbe essere quello che Dio è, vale a dire il Signore di questo mondo?
Poi chiedetevi: Chi è Gesù, a livello personale? È degno di fiducia? Potreste credere in Gesù più di quanto non crediate in voi stessi? Potreste arrivare a considerare una tale fiducia una felice resa? Una bella avventura? Un ritorno a casa? Questo significa conoscerlo come “Signore” in senso personale.

In tutto ciò, l’incoraggiamento non è a fare “salti”; guardate dove mettete i piedi! Gesù Cristo si è dimostrato un fondamento per miliardi di persone. Egli è una roccia solida su cui poggiare.

 

L’articolo A quelli del “rifiuto”: niente salti! (1) proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/a-quelli-del-rifiuto-niente-salti-1/

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Vivere e confrontarsi con il Dubbio
con Mark Meynell
5-8 Dicembre 2025

Montesilvano (PE)

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Le cinque sessioni che svilupperanno il tema

 

1. Dubbi dovuti alla nostra NATURA
Siamo deboli e limitati per nostra stessa natura.
Dio no. Questo crea immediatamente uno squilibrio che il mondo moderno, nella sua futilità, cerca di superare.
Isaia 55:6-13
2. Dubbi insiti nelle nostre CREDENZE
Abacuc lottò contro l’assenza di giudizio nei confronti del male che imperversava ai suoi tempi;
quando alla fine arrivò il giudizio, lottò ancora di più contro i metodi di Dio (poiché gli agenti divini del giudizio erano i Babilonesi!)
Abacuc 3:1-19
3. Dubbi dovuti al nostro SCETTICISMO
Tommaso è stato definito il santo patrono degli scettici, ma forse questa nomea è un po’ ingiusta.
È più simile a qualcuno che non vuole essere ingannato o raggirato.
C’è così tanto da imparare dal modo in cui il Signore lo tratta.
Giovanni 20:24-29
4. Dubbi che non CONDIVIDIAMO
Come possiamo affrontare lo scetticismo e persino l’ostilità del mondo contemporaneo?
Esamineremo alcuni episodi verificatisi nel corso del primo arrivo di Paolo in Europa.
Atti 17
Culto: Dubbi relativi alla nostra INDEGNITÀ
La restaurazione di Pietro è uno dei doni e delle dichiarazioni più importanti che il Signore fa alla chiesa primitiva.
Perché!?
Luca 22:54-62

L’articolo 18° Convegno di Studi GBU proviene da DiRS GBU.

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Il recinto
Per un’etica cristiana (ed evangelica) de-politicizzata

di Giacomo Carlo Di Gaetano

 

Mi piace pensare al recinto come figura e metafora per l’articolazione delle verità bibliche. Non lo immagino come un luogo chiuso che separa dal resto del mondo; un gregge deve per forza di cose pascolare “fuori” se non addirittura “transumare” cioè spostarsi verso altri ambienti geografici e, fuor di metafora, culturali. No, il recinto, unicamente come articolazione di segmenti di verità capace di creare uno spazio ampio, e non angusto, in cui potersi muovere, spaziare non stare fissi in un unico punto.
Ci sono altre figure che vengono proposte: c’è la linea di separazione netta tipica del fondamentalismo e di tutti i dogmatismi: o stai di qua o stai di là, prendi posizione. C’è la ruota con i raggi che convergono verso il centro, figura tipica di un certo liberalismo teologico, nonché figura cara al discorso ecumenico. C’è infine la piramide evangelicale con verità apicali ineludibili per tutti e poi via via a scendere con verità di secondaria importanza. Ognuna di queste figure ha i suoi punti di forza e di debolezza. Magari se ne parla un’altra volta.

Veniamo all’etica de–politicizzata di cui abbiamo estremo bisogno in questo momento storico segnata da sigle quali MAGA, WOKE, etc.

Quali sono queste verità “bibliche” con cui costruire un recinto in cui ritrovarsi? Non sono nuove ma il condensato di una sapienza e saggezza che ritengo antica, equilibrata e, appunto, de-politicizzata.

Il primo tratto del recinto: la Creazione
La prima verità è la creazione. Come cristiani, ed evangelici, noi confessiamo di vivere in un mondo “creato” voluto da un’Intelligenza che è Persona e che tutti chiamiamo Dio! Non conosciamo le modalità della creazione (meno male, affermava il sociologo Peter Berger) e per quanto mi riguarda offro il mio personale rispetto alla ricerca scientifica che si impegna a cercare di capire questo “come”, che sia atea o credente – l’indagine scientifica.

Ma che cosa discende sul piano dell’etica il fatto di credere nel Dio creatore e di considerare la realtà tutta, creazione?
Per esempio che i generi maschile e femminile hanno un ancoraggio ontologico chiaro (maschio e femmina li creò). Punto! Naturalmente questo non significa non prendere in carico i temi culturali e sociali della mascolinità e della femminilità. Possiamo discuterne. Penso che sia una sfida da accettare onestamente il motto della de Beouvoir relativo alal femminilità “donne non si nasce ma si diventa” (ce ne sono anche sul versante della mascolinità). Tuttavia, per un cristiano è ineludibile che il genere maschile e il genere femminile sono nel disegno di creazione di Dio. Il transgenderismo non è parte della “buona” creazione di Dio.
Ancora.
Significa credere, in virtà della creazione, che tutti gli uomini sono uguali in quanto fatti a immagine di Dio. Chiunque si è battuto per l’uguaglianza, a prescindere, si chiami Bartolomeo de Las Casas, William Wilberforce, Martin Luther King, Nelson Mandela o Papa XY, va riconosciuto e onorato come un alfiere della Creazione. Si tratta di battaglie che sono ancora più forti dell’ambientalismo e del Canto delle creature di un Francesco d’Assisi. Chi getta una sola ombra sul fatto che possano esserci delle differenze (addirittura nel cervello di una famosa donna di colore, per il fatto che sia di colore) ha sfasciato il lato del recinto delle verità bibliche, quello della creazione. Non mi importa quale sia la sua colorazione politica, è out.

E potremmo continuare: per esempio parlando di tutti i meccanismi per “accoppare” un’altra immagine di Dio, un altro uomo, un’altra donna. Che lo faccia lo Stato (pena di morte), un invasato, o un lucido solutore finale, o un macho in un femminicidio. Tutte le ideologie che per qualche ragione, non solo di pigmentazione della pelle, ma anche ideologiche o religiose (fascismo, comunismo, nazismo, suprematismo, femminicidio e tanto altro ancora) che abbassano la soglia della creaturalità dell’uomo, sono demoniache. Chi abita simili ideologie (spiriti demoniaci: legione) si trova a suo agio nell’umano come nell’animale; non vede differenza.

Il secondo tratto della creazione: il Peccato
La seconda parte della staccionata, il secondo tratto del recinto è il peccato. Il buon mondo creato è caduto in una condizione di confusione. Come ricorda un teologo che ha scritto sul capitolo 3 di Genesi (quello in cui si parla della “caduta”), non è caduto perché non ha visto una buca davanti a sé, ma è caduto perché ha fatto un salto più alto delle sue possibilità (sarete come Dio) ed è caduto male, rovinosamente, si è sfasciato. Viviamo in un mondo segnato, ovunque, dalla presenza del peccato. Nelle relazioni micro come nelle relazioni macro (la GUERRA).

Quali sono le implicazioni etiche per chi crede in questa verità biblica, per chi prende i pali e mette su nella sua mente questo lato del recinto, in prosecuzione di quello della “creazione”?
Una prima conseguenza sta proprio nel linguaggio, nelle forme di comunicazione. Questa cosa del peccato dobbiamo farla conoscere ed è qui che scoppia il putiferio.

Secoli di colpevolizzazione e di pratiche disumane d riparazione hanno fatto del discorso sul peccato uno spartiacque tra progresso e arretratezza, tra sviluppo e regressione, tra liberazione e schiavitù.
Abbiamo bisogno, per parlare del peccato, del politically correct! Ma dai!! Proprio di quella cosa che ha impedito la libertà del pensiero, che ha irregimentato il discorso pubblico e non solo il discorso?
La predicazione del peccato ritiene in sé due elementi tipici del politically correct: è universale (tutti hanno peccato) e implica il coinvolgimento del parlante, del predicatore (Io sono il primo dei peccatori – Paolo). Chi stigmatizza il transgenderismo deve guardare il proprio razzismo. Chi stigmatizza il razzismo deve guardare al suo orgoglio (pagliuzza, trave e occhio!, vi ricorda qualcosa?). La predicazione del peccato implica l’umiltà e il senso di vergogna per quello che si è per natura (peccatori). Poi arriva la grazia, la grazia per chi parla e la grazia per chi ascolta.
Ma ci sono tante altre implicazioni che discendono dal lato del peccato. Forse possiamo racchiuderle in una piccola frase del Nuovo Testamento: imitare Dio.
Che cosa fa Dio con il suo mondo, creato e sfasciato per colpa della sua creatura? Fa tante cose. Per questo serve la Bibbia e non l’immaginazione!

Ne fa soprattutto due.
Prepara la riscossa, la soluzione, che nel linguaggio biblico si chiama redenzione (ed è il terzo lato del recinto – ci arriviamo fra un attimo). Ma la preparazione è una cosa straordinaria perché si sviluppa proprio nel mondo, creato, ma segnato dal peccato. A volte viene usata l’immagine del pedagogo: Dio prende per mano gli uomini e passando per i tempi dell’ignoranza, sporcandosi le mani nei vari pantheon del Vicino Oriente antico come della cultura ellenica e latina, al punto da apparire anche lui come un Dio guerriero, purifica l’immagine che gli uomini devono avere della sua Persona. Il punto finale di questa traiettoria che risponde proprio alla presenza del peccato è la sua parola finale, il Figlio incarnato, Gesù.
Dunque la prima cosa che Dio fa nel mondo del peccato lavora, prepara, opera e ripulisce l’immagine che gli uomini possono farsi di Dio.
La seconda cosa è che nel mentre disegna e prepara il suo intervento, usa la sua pazienza. Non impedisce al peccatore di peccare. Fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi; protegge Caino, l’assassino del fratello. Prende le distanze dalla legge del taglione. Inventa un nuovo modo di trattare il peccato: PREDICARGLI contro, sperando di persuadere il peccatore. Non fa un partito.

Il terzo tratto del recinto: la Redenzione
Il recinto si deve chiudere, questo ha tre lati (magari qualcuno potrà costruirlo quadrato). La terza verità da affiancare a Creazione e Peccato è Redenzione. Immaginiamo di cosa si tratta. Il piano di contrasto alla presenza del peccato prevede un inviato speciale, un sacrificio finale. Siamo alla croce di Cristo. Sono ENORMI le implicazioni sul piano etico della redenzione compiuta da Dio mediante la croce e la risurrezione del suo Figlio incarnato.
Proviamo a indicarne alcune, utili per il tempo che stiamo vivendo.
La prima è che Dio detiene il copy right della redenzione. Dio non cede a nessun soggetto umano l’efficacia di un’azione redentiva in tutto ciò che i soggetti umani sono capaci di fare (anche se molte, tante buone azioni umane richiamano la redenzione, sono un rimando a essa). Non c’è ideologia, non c’è teologia, non c’è partito politico, non c’è “chiesa”, non c’è analisi, non c’è VALORE (cristiano) che possa redimere. La salvezza appartiene a Dio e all’Agnello, si canta in una delle visioni dell’Apocalisse. Nessuna delega, nessun Unto del Signore, dopo quello che è stato fatto fuori dai peccatori sul Golgota. Nessun altro Messia che possa rendere grande una nazione piuttosto che un’altra.

L’esclusivismo del Redentore e della Redenzione si porta appresso, nell’etica, la questione del tempo e della storia. Come opera oggi questa redenzione? Non vediamo ancora  il suo dispiegamento (Ebrei 2). Dobbiamo entrare dentro di noi per scoprire qui e ora i segni della redenzione: la rigenerazione e ancora confrontarsi con il percorso della santificazione (che è un percorso nel tempo della vita dell’individuo). Sì la redenzione ci porta a dire che esistono uomini nuovi, trasformati, e che insiieme questi fromano un nuovo raggruppamento. Ma attenzione, la comunità dei redenti non sta di contro a Gentili ed Ebrei (Efesi) non sta di contro a conservatori e/o progressisti; non sta di contro a islamismo e quant’altro. La comunità dei redenti propone un nuovo modo di essere uomini, favorendo con il recupero e lo sviluppo in Cristo della bontà della creazione oltre alla lotta al peccato che si trova dentro di noi (non il peccato che si trova dentro di “loro”). Una novità di vita vivibile e interpretabile a qualsiasi latitudine culturale, geopolitca e sociale.
E allora? La redenzione è già all’opera ma non è ancora dispiegato il suo effetto sociole, globale. L’etica segnata dalla redenzione a questo punto ha bisogno di una visione delle cose ultime (si chiama escatologia) che sia sottratta ai progressismi amillenaristi, a quelle visioni cioè in cui il progresso dell’umano, grazie al cristianesimo ma non si sa come, si trasfonde nel regno d Dio e dei cieli. Al contrario abbiamo bisogno di una visione che lasci che sia Dio a decidere come e quando farci vedere concretamente che cosa avrebbe potuto essere il mondo sotto la guida dell’unico vero Dio e del suo Figlio Gesù Cristo.
Una visione millenarista delle cose ultime posrta a pensare che così come Dio ci ha mostrato la sua redenzione nel Figlio, che noi non abbiamo visto ma nel quale crediamo, gioendo, allo stesso modo ci mostrerà la sua grandezza nell’amministrare le sorti del mondo. Questo aspetto dell’etica segnata dalla redenzione fa diffiddare di qualsiasi altro che voglia scimmiottare il futuro regno di Dio o che lo voglia anticipare mandando all’inferno tutti i peccatori, magari anche solo in un dibattito pubblico.
Se sarà Dio a dire come e quando ci sarà il suo Regno, allora oggi, facciamoci condizionare, qui e ora, da ciò che sarà realtà solo un giorno in quel regno.

Questo è il recinto di queste tre verità: Dio ha creato, il mondo giace in una condizione di peccato; Gesù Cristo ha aperto la possibilità della redenzione, facciamola nostra e aspettiamo la SUA manifestazione.

L’articolo Il recinto. Per un’etica cristiana (ed evangelica) de-politicizzata proviene da DiRS GBU.

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Sono appena passate poco più di 24 ore dall’assassinio in Utah del politico evangelico Charlie Kirk, un giovane leader del Partito Repubblicano che, negli ultimi anni aveva entusiasticamente aderito alla dottrina trumpiana ed era leader di una fondazione che aveva come suo scopo precipuo quello di diffonderne le idee tra gli studenti universitari.

Lasciatemi dire in premessa che si tratta di una morte tragica e tremenda e che, dobbiamo dirlo, si associa ad una serie di omicidi ed assassini che non sono estranei alla tradizione americana. Non si tratta di un unicum nella storia USA, ma di certo questo non toglie la tragicità per la maniera violenta in cui è stata tolta la vita di un uomo di 31 anni  che ha lasciato una moglie e due figli.

Su questo atto violento molto è stato già detto e, anche da parte evangelica italiana ci sono state delle ottime riflessioni come quelle di Giovanni Donato che chi vuole, può vedere nel videoblog l’Asina loquace (chi vuole lo può guardare a questo link: https://www.youtube.com/shorts/FI54UUdDzPg).

Personalmente anche io non voglio fare un discorso né politico né teologico in senso stretto, ma voglio partire da due questioni poste su FB da Giacomo Carlo di Gaetano che, insieme a me, dirige questa rubrica e cercare di dare, per quanto possibile delle risposte o fare delle riflessioni su due quesiti.

Riporto qui quanto postato:

  1. Premesso che un omicidio è un omicidio (di un trentenne per giunta …) questo è un omicidio politico o un omicidio religioso?
  2. Il cuore dell’attività di questo bravo attivista erano i dibattiti dal titolo “Dimostrami che ho torto” (Tell Me I’m Wrong). Che cosa ci fa pensare questo modo di intersecare fede e cultura, fede e politica, fede e ragione?

La risposta alla prima domanda, alla luce anche di quanto scoperto dell’attentatore, è che mi pare chiaro che si tratti essenzialmente di un omicidio politico, come lo stati quello di Lincoln, dei due fratelli Kennedy e anche quello di M. L. King (che forse è il più religioso di tutti). L’attentatore, infatti, pare avesse dei proiettili dove si accusava Kirk di essere fascista e di pratiche discriminatorie nei confronti dei gay. Si tratta di accuse essenzialmente politiche per un personaggio che si configura come un politico, di religione evangelica. La fondazione di Kirk non serviva necessariamente a convertire persone a Cristo (anche se questo poteva succedere), ma a farle diventare aderenti di un movimento politico. Questo è vero anche se fatto da un credente.

Pertanto, benché anche io mi associo alle preghiere per la famiglia di Kirk che vive una personale tragedia che nessuno di noi vorrebbe vivere, non posso che dissociarmi da coloro che vogliono far passare Kirk com un martire della fede, benché sia assolutamente convinto della sua buona fede come credente, anche se non concorderei su molto di quello che credeva, ma sono convinto che la salvezza appartiene a Cristo ed alla sua Grazia e che ha poco a che fare con il nostro Credo e le nostre opere.

Trovo più interessante la seconda domanda. Cosa dobbiamo pensare del metodo di dibattere di Kirk? E’ veramente utile per portare alla fede ed alla conversione le persone. Come ha recentemente affermato un articolo del Post (https://www.ilpost.it/2025/09/12/charlie-kirk-dibattiti-universita-stati-uniti/) il Debate politico-sociale negli Stati Uniti è una tecnica molto usata. La tradizione evangelica americana è piena di Debate. Uno dei fondatori del movimento evangelico a cui appartengo, Alexander Campbell, nel XIX secolo ha tenuto molti dibattiti pubblici dove cercava di difendere la propria fede nei confronti di coloro che erano ritenuti degli avversari. I dibattiti erano pubblici e servivano anche per persuadere i presenti. 

Kirk (come anche altri opinionisti conservatori da Peterson a Ben Shapiro) hanno usato e usano questa tecnica in maniera aggiornata. Il loro scopo non è tanto di esporre quello che pensano, quanto quello di confutare quello che pensano gli altri e di mostrare le debolezze del loro discorso. Si tratta di un metodo pseudo-socratico, in quanto a differenza di Socrate, Kirk e gli altri pensano di avere la Verità e di doverla proclamare agli altri che devono accettare senza una reale discussione, perché sono caduti in contraddizione. Il modello socratico, invece, prevederebbe una condivisione delle conclusioni ed un portare l’altro ad arrivare a comprendere quanto si voleva dire, convincendolo della bontà delle tesi condivise.

Il modello pseudo confutatorio non è a mio parere di un modello evangelico. Se guardo al Nuovo Testamento e ai modelli di incontro con coloro che la pensano in maniera diversa da me, personalmente leggo due esempi eccellenti: quello di Gesù e quello di Paolo. In uno dei discorsi più difficili di Gesù, quello con il giovane ricco (Mt. 19: 16-30), dove più che confutare le idee si chiama il proprio interlocutore all’azione, l’altro è quello di Paolo all’Areopago (Atti 17). Benché l’apostolo fosse indignato con gli ateniesi, questo non gli impedisce di porgergli la mano, citando loro poeti e mostrando quello che vi era di buono nella loro cultura.

In realtà, i Debate religiosi americani del XIX secolo erano più simili a questi modelli che a quello degli odierni conservatori e ritengo che i modelli di dibattiti di Gesù e Paolo rimangono ancora validi per i credenti oggi, al contrario di una eccessiva polarizzazione delle posizioni senza dimostrare in primis l’amore di Gesù per gli uomini ed in secondo luogo per l’annuncio del Vangelo che, per ogni credente, deve rimanere valido.

Rimane però una terza questione cui voglio rispondere brevemente. Qual è il rischio che un credente corre nel mescolare messaggio del Vangelo con messaggio politico (a prescindere dalle proprie convinzioni che in questo articolo non discuto)? 

Il rischio è quello di compromettere il Vangelo. Molti di quelli che scrivono hanno sempre visto, pur con tutte le sue imperfezioni e difetti (non ultimo un alto livello di violenza), al modello politico americano come ad un faro per la libertà di parola ed individuale, un modello di convivenza religiosa senza che questa interferisca con lo Stato o viceversa. Questa sua caratteristica è proprio dovuta alla maniera in cui sino ad ora gli evangelici hanno inteso la divisione tra Stato e Chiesa. 

Appartenendo ad una tradizione strettamente collegata con il battismo, volevo ricordare che il governo democratico, dove tutti (anche i nativi americani) hanno diritto di avere il proprio spazio, ha radici profondamente cristiane. Voglio ricordare quanto Roger Williams, pastore battista e fondatore della colonia del Rhode Island, ricordava a Cotton Mather, un predicatore calvinista che, nonostante la tradizione della politica come covenant (patto), non comprendeva: 

“Quando [la Chiesa] apre un varco nella siepe o nel muro di separazione tra il giardino della chiesa e il deserto del mondo, Dio ha sempre abbattuto il muro stesso, rimosso il candelabro, ecc., e reso il Suo Giardino un deserto come lo è oggi. E quindi, se mai Gli piacerà restaurare di nuovo il Suo giardino e il Suo Paradiso, dovrà necessariamente essere recintato in modo particolare per Sé, separato dal mondo, e tutti coloro che saranno salvati dal mondo dovranno essere trapiantati fuori dal deserto del Mondo.”

La separazione dei fatti ecclesiastici da quelli politici è, quindi, una garanzia per la stessa Chiesa e non per il mondo. Il senso del governo aperto a tutti e in cui la Chiesa non impone il suo pensiero, ma vive in mezzo al mondo per convertirlo, garantita nella sua libertà, proprio perché non interferisce con le scelte politiche in maniera sopraffatoria, rimane uno dei messaggi fondamentali che dobbiamo ancora portare avanti, di fronte alla crisi delle democrazie liberali che, per l’appunto, non sono state inventate dall’Illuminismo (o solamente da esso), ma sono frutto della riflessione di persone come Althusius, Williams, Penn ed altri e che quindi sono fortemente radicate nelle radici bibliche del nostro modo di essere chiesa e luce del mondo.

Non vorrei che movimenti come il Maga o (in decenni precedenti) come il Vangelo sociale, possano compromettere la predicazione di quel Vangelo di cui tutto il mondo ha bisogno.

La mia speranza è che la morte di Kirk ci porti a riflettere su questi aspetti piuttosto che farci ulteriormente prendere dalla paura e dal timore che non deve essere presente in nessun credente.

                                                                                                                                                                                                                                                                                              Valerio Bernardi – DiRS GBU

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Di Francesco Schiano, Segretario Generale GBU

Per molte persone settembre rappresenta il vero inizio dell’anno nuovo. Sicuramente è così per le attività
dei GBU, che seguono il calendario accademico delle università.


Questo, tra l’altro, per noi è un anno particolare. Dopo 20 anni di servizio benedetto da Dio, il nostro amato
Johan non è più il Segretario Generale dei GBU; chi scrive ha l’arduo compito di sostituirlo, e sente l’onore e
l’onere che derivano dal nuovo inizio. In queste condizioni la preghiera diventa un bisogno particolarmente
sentito.


Non penso sia per caso che proprio in questi giorni mi sono ritrovato a leggere la biografia di C. H. Spurgeon
(A. Dallimore, pubblicata in italiano da Passaggio). Il Principe dei predicatori, che ha visto frutti straordinari
nel suo mistero, era un uomo di preghiera che spingeva la sua chiesa alla preghiera: “in vista della battaglia
spirituale del credente, si preoccupava in primo luogo che la sua chiesa imparasse a pregare” (p.70); “D. L.
Moody, di ritorno in America dopo la sua prima visita in Inghilterra, alla domanda: «Ha sentito predicare
Spurgeon?» rispose: «Si, ma cosa ancora migliore, l’ho sentito pregare»” (p.105).


La Parola di Dio ci invita a pregare con fede, incessantemente, insistentemente e disperatamente. Sono
convinto che a volte il Signore trattenga la Sua mano dall’operare con potenza nel desiderio di insegnarci a
dipendere veramente da Lui.


Non credo di dover convincere nessuno, tra i lettori di questo articolo, dell’importanza prioritaria della
preghiera, ma so per esperienza quanto sia raro avere una vita di preghiera che sia coerente con quanto
affermiamo di credere riguardo ad essa. Per questo motivo, incoraggiato dalla partecipazione di tanti di voi
alla settimana di preghiera della scorsa primavera, vi chiedo di prendervi un impegno per questi giorni di
settembre: dall’8 al 14 settembre scegliete di dedicare del tempo al digiuno e alla preghiera, perché gli
studenti possano annunciare con franchezza il Vangelo di Gesù Cristo tra i loro colleghi, e noi tutti possiamo
vedere tante anime passare dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita!


Il link alla fine dell’articolo conduce a un modulo anonimo attraverso il quale potrete indicare il vostro
desiderio di saltare uno o più pasti, in quella settimana, per dedicarvi alla preghiera. Speriamo di vedere
una numerosa staffetta di digiuno e preghiera impegnata con noi dello staff a supplicare Dio perché lui
faccia infinitamente di più di quanto speriamo.


“la preghiera del giusto ha una grande efficacia” (Giacomo 5:16b)


https://forms.gle/CiAU4PNMuaCY8EVt5

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

 

Si stima che in questo anno giubilare la città di Roma sarà raggiunta e visitata da più di 30 milioni di visitatori: pellegrini, turisti, avventori, etc. Uno dei momenti più caldi sarà (è stato) sicuramente quello del Giubileo della Gioventù (28 luglio – 4 agosto).

Non è una novità, questo è il destino di Roma.

Il Giubileo ha sempre aggiunto a questo itinerario un alone sacrale, associando in tal modo Roma ai grandi santuari e luoghi di pellegrinaggi disseminati in tutto il mondo.

La presenza di questi luoghi (il lettore della Bibbia ricorderà la perplessità di una donna samaritana su due di essi, relegati nella provincia di Palestina – Gerusalemme e/o Samaria, Gv 4) sono una rappresentazione plastica di quell’anelito all’incontro con il divino che ha sempre animato gli esseri umani.

Per i cristiani che si sono fatti condizionare dalle parole di Gesù in Giovanni 4 sull’avvento di un’ora in cui l’incontro con Dio poteva fare a meno della geografia (bisogna adorarlo in spirito e verità!) è iniziato un lungo tormento interiore e una lunga riflessione “iconoclasta”. Nessuno nella storia ha mai fatto a meno di qualche luogo che sebbene spoglio di qualsiasi aura sacrale, ha però assunto un rilievo simbolico in grado di condizionare sempre e nuovamente la spiritualità. Si pensi a Ginevra nell’universo calvinista.

Anche il monaco agostiniano Lutero andò a Roma (nell’inverno del 1510–1511)! In un documentato viaggio di tipo amministrativo il padre della Riforma accompagnato da un suo confratello fece questo viaggio e soggiornò nella capitale per alcuni mesi. Tutte le biografie di Lutero ne parlano. Quelle da me consultate, dalle classiche di Bainton e Miegge (in italiano) a quelle più recenti di Adriano Prosperi e Silvana Nitti dedicano un certo numero di pagine a questo evento che ha suscitato la mia curiosità fin dall’inizio di questo anno santo e fin dalla registrazione delle iniziative messe in campo dagli evangelici per intercettare e in qualche modo condizionare questo gigantesco fenomeno del viaggio a Roma.

Le biografie sono concordi nel rilevare il silenzio o quanto meno la sottigliezza delle fonti relative a questo viaggio. Ci sono i ricordi dello stesso Lutero affidati ai suoi Discorsi a tavola (Tischreden) e qualche riferimento in altri scritti molto lontani nel tempo; e qualche legenda fiorita all’indomani della morte di Lutero.

La più famosa è quella che vuole Lutero che riceve l’illuminazione sulla giustificazione per fede in cima alla scala santa da lui risalita in ginocchio e secondo le modalità della spiritualità medievale.

Forse il suo commento più spendibile da un punto di vista dei significati posteriori è questo: «Anch’io, come uno stupido, portai cipolle a Roma e ne portai indietro aglio». La Nitti suggerisce che lo scambio, grazie alle sue lontane origini contadine, era considerato estremamente svantaggioso (Nitti, p. 60). Lo svantaggio stava naturalmente non solo nel fallimento del compito amministrativo per il qual era stato inviato ma anche per alcune delusioni avute nel suo soggiorno nella capitale religiosa, soprattutto relativamente al modo di celebrare la messa e la scarsa considerazione che il sacramento aveva nella bolgia romana. Proprio la Nitti segnala che, al di là della pervadente corruzione ecclesiale, di cui Roma era un concentrato, ciò che rimase impresso nel monaco tedesco fu la disponibilità e la facilità del perdono, da ricercare, procurarsi, ottenere con i più svariati e creativi modi, dal giro delle sette chiese, alla visita a una reliquia, etc.

«Ero un così pazzo santo (so ein toller Heilig) che correvo per tutte le chiese e le cripte, e credevo tutte le bugie e le invenzioni che raccontavano. Io pure ho detto una messa, o anche dieci, a Roma, e quasi mi dispiaceva che mio padre e mia madre fossero ancora in vita, perché li avrei volentieri liberati dal purgatorio con le mie messe e con altre più eccellenti opere e preghiere» (Miegge p. 75).

 

Questo perdonificio «fece dubitare anche lui». La principale conseguenza della visita a Roma non fu dunque la critica alla corruzione quanto l’acuirsi di domande interiori che esplosero da lì a qualche tempo con il suo studio sulla Lettera ai Romani e la scoperta della “giustificazione”.

«I suoi dubbi, a Roma come prima a Erfurt e dopo a Wittenberg, non erano l’inizio di una battaglia contro la gerarchia e il papa; erano il suo modo di vivere la fede …» (Nitti, p. 63).

Sta tutto qui in questa tensione tra il sacro e l’interiore, tra l’esposizione ai simboli e allo spettacolo della spiritualità istituzionale e la ricerca di Dio nella Bibbia e, da buon agostiniano, nell’interiore, che si gioca il significato di questa piccola parentesi romana nel contesto più ampio della stagione della Riforma. E sta anche qui la possibilità di riprendere questo episodio per avere ulteriori chiavi di lettura per la contemporaneità.

Questo è anche il dibattito che anima i biografi (relativamente come sostiene Prosperi, p. 52) e ben riassunto dalla rilevazione di Bainton: «quel che egli vide e quel che non si curò di vedere ne illumina la personalità» (p. 22, corsivo aggiunto)

Per Miegge (pp. 76–77):

 

«le quattro settimane passate a Roma ebbero per il giovane monaco, ardente e ingenuo, l’effetto di una sconsacrazione». E il silenzio viene così interpretato: «Furono forse soltanto fugaci impressioni di malessere dovute all’oscurarsi di un ideale forse eccessivo, che dovevano precisarsi in seguito, liberando il Riformatore dallo scrupolo di far torto, con la sua azione rivoluzionaria, alla città santa della sua giovinezza» (p. 77)

 

Adriano Prosperi dal canto suo (p. 63) precisa che Lutero non era un moralista; pensava sd altro: si chiedeva se la Scala Santa fosse davvero quella su cui Gesù aveva posato i pieri. La Scrittura era la sua enciclopedia, il suo mappamondo. (p. 63)

 

Ma che ne è della contemporaneità?
Questo episodio sicuramente non detta un paradigma di interazione tra evangelici e cattolici (in questo campo se ne è sempre alla ricerca di uno) ma sicuramente segnala una precauzione e un interrogativo al quale facciamo bene a non rispondere, aspettando … come fa un lettore di una biografia di Lutero: aspettando il capitolo successivo (i più eloquenti sono quelli di Prosperi e di Miegge: – [Prosperi, Il dottor Lutero e il problema della coscienza, pp. 65–82]; [Miegge, La crisi, pp. 79–101]).
Perché un cattolico, convinto o meno che sia, da Occidente o da Oriente (grazie alla macchina organizzativa delle diocesi) non dovrebbe recarsi a Roma e attraversare la Porta Santa? Magari è fortunato e si ritrova a Roma proprio mentre, morto il Papa, c’è il Conclave che ne sta eleggendo un altro (un intervistato durante il Conclave che ha eletto Leone XIV: siamo a Roma per il weekend, speriamo di vedere la fumata bianca prima di ripartire …).

Viene riproposto davanti a noi, in maniera abbastanza provvidenziale, il dilemma del giovane Lutero, vale a dire la ricerca di un qualcosa che si ritiene possa essere accordato da uno spettacolo imponente di un’istituzione che si ammanta di sacralità (sfumando tutte le naturali e ataviche problematiche, incluso gli scandali, che tutte le istituzioni umane si portano con sé, da che mondo è mondo, a Roma come a Canterbury o Westminster). Bainton lo dice chiaramente: finché il giovane Lutero credeva che “la chiesa avesse efficaci mezzi di grazia”.
Sta tutta qui la possibilità del vangelo (non degli evangelici): far esplodere la tensione tra coscienza è istituzione, tra libertà e formalismo, riuscire a canalizzare quella spinta a guardarsi dentro che pure un agostiniano come l’attuale Papa dovrebbe conoscere bene, al punto tale che la cita in un passaggio della sua omelia a Tor Vergata (il 3 agosto). Che cosa si porteranno dietro il milione di giovani convenuti a Roma. Ci auguriamo per loro tanta forza e tante cose positive come auspicano tutti gli osservatori, anche ecclesiastici, che hanno goduto dei numeri della partecipazione (un po’ come gli organizzatori di una protesta sindacale o di una kermesse politica).

Hanno incontrato veramente il Cristo risorto come lasciava intendere l’incipit dell’omelia papale che è partita dall’episodio dei due discepoli sulla via di Emmaus per poi perdersi nei meandri della caducità umana (i fili d’erba) segnata dal consumismo e da altri mali del secolo?

Non ritroviamo in quella omelia, e lo diciamo sommessamente, l’afflato espositivo che anima un lettore e un espositore dei vangeli (quell’afflato che condizionerà il Lutero tornato dall’Italia). Ma è proprio questo che ci lascia sperare: l’ossimoro grammaticale tra un’istituzione che si concepisce prosecuzione dell’incarnazione e che relega Gesù Cristo ai riti penitenziali e sacramentali e una coscienza che cerca la “parola di Dio” unico luogo in cui Cristo continua a vivere e permanere (1 Pietro) e unica grazia che può penetrare nelle crisi che incontreranno il milione di giovani, così come le incontrano tutti gli esseri umani.

Dunque?
Lasciamo che Lutero vada a Roma, che cerchi la pace interiore, che cerchi Cristo. Prima o poi tornerà a Wittenberg e lì ci sarà qualcun altro ad attenderlo: il vangelo di Gesù Cristo. Facciamoci trovare lì come testimoni del vangelo … e non come discepoli di Lutero (sic!).

 

Letture
Roland H. Bainton, Lutero, ed. RCS, Corriere della Sera, 2006;
G. Miegge, Lutero. L’uomo e il pensiero fino alla Dieta di Worms (1483–1521), Claudiana, Torino, 4 ed., 2003;
A. Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Mondadori, Milano, 2017;
S. Nitti, Lutero, Salerno Editrice, Roma, 2017.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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di Chris Burnett
(Los Angeles, California)

Il 14 luglio 2025, il pastore John MacArthur è stato chiamato in gloria all’età di 86 anni, dopo due anni segnati da complicazioni cardiache e polmonari. Per 56 anni ha guidato fedelmente la Grace Community Church a Los Angeles, in California, plasmando il panorama evangelico conservatore moderno attraverso la sua predicazione e leadership. La sua scomparsa segna la fine di un’epoca che ha profondamente influenzato l’esposizione biblica e l’evangelicalismo conservatore negli Stati Uniti e nel mondo. Il pastore John ha lasciato la moglie Patricia, sposata nel 1963, quattro figli, quindici nipoti e nove pronipoti.

La storia della mia famiglia con il pastore John copre cinque decenni e tre generazioni, segnata da tappe fondamentali. Mio padre si convertì da adolescente nella chiesa del padre di John, quando John era ancora semplicemente conosciuto come “Johnny.” Fu lui a battezzare mia madre quando, a diciotto anni, lasciò il cattolicesimo romano per seguire Cristo. Quando ero neonato, prese tra le braccia me e mia sorella gemella per dedicarci al Signore. Anni dopo, tornato da sette anni di missione in Italia, divenni studente nel suo seminario, The Master’s Seminary. In quegli anni, John prese in braccio mio figlio più piccolo per pregare con lui prima di un intervento al cuore e consolò personalmente mia moglie Erma quando suo fratello morì di cancro. In mezzo secolo alla Grace Community Church, la nostra famiglia ha condiviso numerosi momenti speciali con il pastore John, che ci hanno sempre ricordato che, pur essendo uno dei più noti insegnanti della Bibbia in America, desiderava essere conosciuto soprattutto come un amico.

È un tempo di dolore per la nostra famiglia e per tutta la Grace Church, ma anche un’opportunità per riflettere su ciò che John MacArthur ha rappresentato per noi e per il mondo. Il seguente riassunto della sua vita, del suo ministero, delle sue convinzioni e del suo carattere vuole mostrare come la sua influenza continuerà a risuonare nell’eternità.

Vita e Ministero

John Fullerton MacArthur Jr. nacque il 19 giugno 1939, quinta generazione di una straordinaria linea di predicatori che risale al Canada e alla Scozia. Suo padre fu pastore battista ed evangelista itinerante, noto per il suo ministero tra le celebrità di Hollywood e per il programma radiofonico di grande impatto Voice of Calvary.

Nel febbraio 1969, a 29 anni, John fu chiamato a servire nella Grace Community Church di Sun Valley, California. La sua prima predicazione domenicale fu tratta da Matteo 7:21: “Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli; ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.” Con questo messaggio inaugurale, John mise subito in discussione la genuinità della fede professata e stabilì il tono di tutto il suo ministero: una predicazione esaustiva, versetto per versetto, fondata su circa 30 ore settimanali di studio accurato della Scrittura.

L’ampia richiesta delle sue predicazioni portò alla nascita del ministero radiofonico Grace to You, con il motto: “La verità di Dio, un versetto alla volta.” Alla fine della sua opera, la biblioteca gratuita su gty.org contava oltre 3.300 sermoni, che coprono ogni versetto del Nuovo Testamento e buona parte dell’Antico. Per grazia di Dio, il sito ha recentemente superato i 225 milioni di download gratuiti.

Il pastore John è stato giustamente riconosciuto come uno dei più influenti predicatori esegetici della sua generazione. La sua predicazione era segnata da autorità biblica, chiarezza del testo, comunicazione coinvolgente e amore per Gesù Cristo. Ma la vera forza non stava soltanto nei metodi interpretativi che applicava, bensì nell’evidente realtà che Dio gli aveva donato un carisma unico per insegnare la Parola. Quel dono, ricevuto dal Signore, aveva lo scopo di farci “crescere nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo” (2 Pietro 3:18).

L’eredità lasciata da MacArthur sul piano editoriale e formativo è immensa. Ha scritto quasi 400 libri e guide di studio, tradotti in più di venti lingue. Tra i più noti, la Bibbia di studio MacArthur, con 20.000 note specifiche per versetto e oltre due milioni di copie vendute, e la collana di commentari sul Nuovo Testamento in 34 volumi—ora affiancata da una serie in sviluppo sull’Antico Testamento, per continuare a formare pastori in tutto il mondo.

Nel 1985 fu nominato presidente del The Master’s College (oggi The Master’s University), e l’anno seguente fondò The Master’s Seminary, servendo come presidente e poi come cancelliere per oltre 35 anni. Attraverso queste istituzioni e The Master’s Academy International (TMAI), più di 10.000 uomini sono stati formati al ministero pastorale in 41 nazioni. Ho il privilegio di servire con entrambe e di vedere una nuova generazione di fedeli insegnanti della Bibbia crescere ed essere inviati per adempiere la Grande Commissione (Matteo 28:18–20).

La visione di John per un ministero fedele continua ancora oggi attraverso la Shepherds’ Conference, ospitata ogni anno presso la Grace Community Church e il Master’s Seminary. All’ultima edizione, oltre 5.000 pastori e leader provenienti da tutti i 50 stati americani e da 70 nazioni si sono riuniti, desiderosi di essere nutriti dalla Parola di Dio per poter nutrire a loro volta il gregge nei propri contesti.

Convinzioni e Controversie

L’intero ministero di MacArthur si fondava su una convinzione incrollabile: la Scrittura è pienamente sufficiente per ogni verità spirituale, capace di offrirci “tutto ciò che riguarda la vita e la pietà” (2 Pietro 1:3). Difese con chiarezza il metodo storico-grammaticale, affermando che la Bibbia deve essere interpretata in modo semplice, letterale e conforme all’intento originale dell’autore.

Da questa base scaturirono molte delle sue posizioni più distintive. MacArthur sostenne la creazione letterale in sei giorni, rifiutò le teorie evoluzionistiche e mise in guardia contro l’influenza della psicologia secolare nella consulenza pastorale, sottolineando i pericoli di affidarsi a modelli umani che possono distorcere la verità rivelata. Rigettò anche la visione della Teologia dell’Alleanza secondo cui la chiesa avrebbe sostituito Israele, affermando invece che le promesse dell’Antico Testamento rivolte a Israele si realizzeranno letteralmente nel futuro.

Nel 1988 pubblicò Il Vangelo secondo Gesù (Edizione Coram Deo), un’opera che suscitò un ampio dibattito nel mondo evangelico. In essa sosteneva che la vera fede comporta sottomissione a Cristo come Signore, e non solo come Salvatore. Alcuni critici lo accusarono di confondere fede e opere, mentre teologi come J. I. Packer lo sostennero, riconoscendo in quelle parole la continuità con la dottrina storica della Riforma.

MacArthur espresse anche una forte opposizione al movimento carismatico, che considerava una deviazione dal cristianesimo biblico. Da cessazionista convinto, sostenne nei suoi libri I carismatici (1992, Ed. Centro Biblico) e Strange Fire (2013) che i doni dello Spirito manifestati nell’epoca del Nuovo Testamento fossero cessati con la fine dell’era apostolica, e riteneva molte delle manifestazioni contemporanee un travisamento dell’opera dello Spirito Santo.

Durante la pandemia di COVID-19, guidò con fermezza la Grace Community Church nella riapertura, nonostante le restrizioni imposte dalle autorità. Affermava con decisione che la chiesa locale è essenziale per la vita cristiana. La battaglia legale che ne seguì si concluse con una vittoria significativa a favore della libertà religiosa, raccontata nel documentario The Essential Church, che ripercorre la sua leadership coraggiosa in un tempo di forte pressione pubblica.

L’Eredità di un Pastore Fedele

Chi ha conosciuto personalmente MacArthur ha spesso notato quanto il suo carattere mite contrastasse con la forza con cui predicava dal pulpito. Nella vita di tutti i giorni, molti di noi lo ricordano come un uomo gentile, sempre rispettoso, e profondamente dipendente da Cristo. Il suo cuore pastorale si rendeva visibile in tanti piccoli gesti: visite inaspettate in ospedale, colloqui personali, e atti di generosità sincera. Il suo impegno era instancabile — 30 ore settimanali di studio, predicazioni multiple ogni domenica, insegnamento durante la settimana alla chiesa, all’università e al seminario, oltre a numerosi interventi mediatici e conferenze — molti dei quali continuano a circolare ancora oggi online.

Tra tutte le sue influenze, credo che la più duratura sia questa convinzione profonda che ci ha trasmesso: che la Scrittura è lo strumento scelto dallo Spirito Santo per attirare le anime a Cristo e trasformarle secondo la Sua immagine.

Sono grato che l’influenza di MacArthur sia arrivata anche in Italia, dove il suo impegno per la predicazione versetto per versetto ha messo radici grazie a numerose traduzioni fedeli e iniziative pastorali.

Ciò che è cominciato con un uomo determinato a “liberare la verità di Dio, un versetto alla volta,” è diventato un movimento globale. Il messaggero è tornato a casa, ma la Parola che ha proclamato continua la sua corsa — attraverso la voce di espositori fedeli, fino al giorno in cui ogni popolo, lingua e nazione si prostrerà davanti al trono per adorare l’Agnello

Chris Burnett insegna presso The Master’s Seminary e serve in ambito accademico con The Master’s Academy International, che forma pastori in 85 paesi attraverso 20 scuole.
Vive a Los Angeles con sua moglie Erma e i loro tre figli.

 

Foto di copertina: David Torres

 

 

L’articolo Fedele fino alla fine: l’eredità pastorale di John MacArthur proviene da DiRS GBU.

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di Miroslav Volf

articolo tradotto e pubblicato con il permesso di Christianity Today

Molto tempo prima di noi, l’umanista Giovanni Pico della Mirandola è stato il primo sostenitore del transumanesimo. Nella sua Orazione sulla dignità dell’uomo del 1486, egli fa pronunciare al Creatore le seguenti parole ad Adamo, il primo essere umano:

Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che preferirai. Potrai degenerare nei esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini.

Pico della Mirandola è il santo non ufficiale dei transumanisti perché spingeva la plasticità umana oltre il limite. Credeva che le forme superiori degli esseri umani fossero, in realtà, più che umane, pensava che fossero divine.

Nel XXI secolo, il filosofo Nick Bostrom definisce un postumano come un essere per il quale almeno una capacità centrale generale, come la durata della salute, la cognizione o le emozioni, “supera di gran lunga il massimo raggiungibile da qualsiasi essere umano attuale senza ricorrere a nuovi mezzi tecnologici”.

L’azienda di neurotecnologie Neuralink ha sperimentato interfacce cervello-computer per persone paralizzate, per aiutarle a comunicare e a controllare dispositivi a distanza. Neil Harbisson, nato daltonico, nel 2004 ha ricevuto un impianto sul cranio sotto forma di antenna che gli permette di “vedere” i colori come vibrazioni audio. Un regista di nome Rob Spence ha sostituito il suo occhio destro con una videocamera wireless e si definisce un “eyeborg”. L’amministratore delegato della biotecnologia Elizabeth Parrish si è sottoposta a una terapia genica sperimentale nel 2015 e ha dichiarato di aver rallentato il processo di invecchiamento con successo .

Altri potenziali sviluppi sono puramente estetici. “Se poteste rimodellare il vostro piede e trasformarlo in un tacco a zeppa, lo fareste?”, si chiede un articolo a proposito delle modifiche del corpo nel mondo della moda. “O che ne direste di un capo d’abbigliamento che consiste in morbide corna turchesi su entrambe le spalle?”.

Basta leggere il grande filosofo pessimista  Schopenhauer che disse che “la vita oscilla come un pendolo avanti e indietro tra il dolore e la noia”, per essere tentati di unirsi al progetto transumanista. Ma se l’obiettivo di trascendere l’umanità sia degno di essere perseguito dipende dal fatto che crediamo che l’essere semplicemente umani sia qualcosa che deve essere superato.

Io, per esempio, credo che così come c’è bellezza e bontà nell’essere un’aquila o un delfino, c’è bellezza e bontà nell’essere umano e basta. L’articolo centrale della fede cristiana, dopo tutto, è che il Verbo divino si è fatto carne umana. Dimorando tra di noi, il Verbo ha santificato l’umanità nella sua finitudine e fragilità. Allo stesso tempo, non sono esclusi i miglioramenti,e mi riferisco allo sviluppo e all’uso di strumenti, anche integrati nel nostro corpo.

Qualche anno fa, ho tenuto un corso all’Università di Yale su fede e globalizzazione con il primo ministro britannico Tony Blair e un collega laico. A un certo punto della lezione, il mio collega ha preso in mano una pillola e l’ha mostrata agli studenti. Quando le persone religiose sono malate, ha detto, pregano, credendo che Dio farà un miracolo. Ma le persone laiche si affidano alle meraviglie della medicina moderna, come questa minuscola pillola che cura quasi istantaneamente la pressione alta. Ha concluso che la medicina moderna, ovviamente, funziona meglio di Dio.

Quando ha finito, mi sono rivolto a lui e gli ho detto: “Io e te siamo d’accordo su una cosa importante: entrambi neghiamo lo stesso Dio!”. Mi guardò perplesso.

“Il dio che lei nega è incompatibile con l’inventiva e il lavoro umano, con tutti i processi del mondo”, dissi. “Anch’io nego quel Dio. Al contrario, il Dio in cui credo rende possibile l’intera realtà del mondo in tutta la sua dinamica complessità, compresi l’inventiva e il lavoro umani”.

Le prime pagine della Bibbia raccontano di Dio che lavora con queste realtà mondane. Nel Giardino dell’Eden, Dio non fece cadere il cibo dal cielo nella bocca di Adamo ed Eva e, facendo pressione sulle loro mascelle, li costrinse a masticare. Al contrario, essi lavoravano per il cibo, coltivando e custodendo il giardino; e nel loro lavoro e sotto il loro lavoro, anche Dio era all’opera.

Quando si tratta dei dilemmi etici che incontriamo quando parliamo di transumanesimo, dovremmo esercitare notevole cautela. Tuttavia, è un errore pensare che l’opera divina e l’opera umana, compresi i progressi tecnologici, si escludano a vicenda.

Gli uomini sono arrivati a credere in Dio quando non avevano alcuna conoscenza scientifica sulla struttura di base della realtà, quando il miglior antisettico era la lavanda e quando il mezzo di trasporto dominante erano i loro piedi nudi e callosi.

Sebbene la nostra comprensione del mondo e, quindi, della relazione di Dio con il mondo, sia cambiata, noi uomini moderni possiamo ancora credere in quello stesso Dio ora che stiamo esplorando le proprietà astrofisiche e quantistiche dei buchi neri, modificando il genoma per prevenire le malattie e migliorare le capacità umane, e viaggiando in auto senza conducente, e possiamo credere senza abbandonare la ragione.

Più potere abbiamo, più è importante scegliere con saggezza la direzione di base della nostra vita. Più strumenti intelligenti e potenti creiamo, più dobbiamo essere chiari sugli scopi umani che questi strumenti serviranno. E l’unico modo per discernere quali scopi siano degni della nostra umanità è sapere di cosa dobbiamo fidarci e cosa dobbiamo amare sopra ogni cosa e di che tipo di esseri umani speriamo di essere.

Essere umani, creati nell’imago Dei, significa vivere una visione della vita buona. Questa visione traccia un ritratto del tipo di uomo che dovremmo essere e fornisce i criteri di orientamento per ciò che dovremmo desiderare e per come dovremmo vivere. Tutti noi viviamo in base a una visione di questo tipo, sia che la abbracciamo consapevolmente sia che rimanga incoerente e nascosta alla nostra vista, intessuta nel tessuto delle nostre credenze e pratiche.

Poiché le visioni della vita buona hanno per definizione un carattere normativo, la scienza non può formularle. La conoscenza di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che probabilmente sarà, per quanto precisa e dettagliata, non può mai prescrivere ciò che dovrebbe essere.

Immaginiamo di aver deciso di rinunciare alla privacy e di permettere la raccolta di tutti i dati disponibili su di noi: tutte le nostre conversazioni e la nostra corrispondenza, la nostra salute, le nostre abitudini e i nostri acquisti. Un algoritmo altamente intelligente potrebbe elaborare un resoconto eccezionalmente accurato del nostro comportamento e quindi sarebbe probabilmente in grado di prevedere cosa faremmo in molte situazioni. Potrebbe dirci cosa desideriamo e cosa troviamo desiderabile, persino cosa crediamo di chi dovremmo essere e cosa dovremmo fare. Potrebbe persino arrivare a conoscerci meglio di noi stessi, uno scenario con cui Yuval Noah Harari conclude il suo libro Homo Deus: breve storia del futuro.

Ma l’unica cosa che un algoritmo così intelligente non sarebbe in grado di dirci è chi dovremmo essere, cosa dovremmo fare e verso cosa dovremmo tendere, chi oggi dovremmo essere e cosa dovremmo desiderare. La scienza e i progressi tecnologici non possono darci una visione della vita vera e buona. La ragione non può portare alla luce ciò che dovrebbe essere più importante per noi, non può rispondere alla domanda su come noi, come individui e come comunità umana, dovremmo vivere. Per questo, noi credenti ci rivolgiamo a Gesù Cristo.

L’articolo LA QUESTIONE TRANSUMANISTA. Il nostro essere semplicemente umani è un qualcosa che deve essere superato? proviene da DiRS GBU.

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