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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Vivere e confrontarsi con l’Islam

Bisogna decidere da dove partire. Il confronto con il “mondo islamico” (già questa sembrerebbe una scelta intepretativa – mondo islamico?) è una sorta di rompicapo.
Prima di tutto la cronaca che ci restituisce indizi molto eloquenti relativi a un conflitto senza quartieri tra il “mondo” cristiano e il “mondo” islamico (anche qui una interpretazione: che cosa significa “mondo” cristiano?).

In tutti i modi, la presenza strisciante del terrorismo, ormai non più declinato secondo le logiche delle organizzazioni globali modello spectre di 007, da Al Qaeda all’Isis, passando per lo stato islamico, ma un terrorismo che segue in maniera quesi ineluttabile i flussi migratori e il succedersi delle generazioni di immigrati che mal si integrano in Occidente (vedi rivolte in Gran Bretagna), ebbene questi indizi quasi ci impongono di partire da questioni di storia e di geo-politica.

Poi c’è l’aura un po’ esotica del tema; ma è prooprio una priorità impegnare la chiesa in interrogativi concernenti una fede che non sempre è a contatto con le chiese, in quanto spesso si rifugia in enclave etniche? Nei suoi confronti basterebbe una buona dose di politica da “riserva indiana” affinché tutti stiano buoni e noi si possa pensare al nostro mandato evangelistico che ha a che fare tradizionalmente con le estremità della terra (come se lì i musulmani non ci fossero) e più recentemente con una riconquista delle terre d’Europa, contro il secolarismo.

L’Islam lasciamolo o ai teorici del pluraismo religioso, predicatori astrusi di un mondo inesistente in cui tutte le strade porterebbero a Dio. Per niente proprio, vi risponderebbe un fedele musulmano e uno “cristiano”. Oppure lasciamolo a quei missionari-predicatori “arrabbiati” che, vedendo quello che gli altri non vedono, gridano al lupo al lupo dove il lupo sarebbe il rischio per tutti noi di diventare muslmani. Un po’ come l’apporccio identitario al cattolicesimo (ARC) per il quale rischiamo di diventare tutti cattolici e seguaci di Bergoglio … per la simpatia che suscita.

E poi c’è sempre la politica. Il tema dell’Islam può essere lasciato alla politica, sia essa di destra (prima gli italiani e attenzione alla sostituzione etnica e amenità del genere) sia essa di sinistra (multicolore è bello, è indice di una superiorità etnica e sociale).

Rinunciare al confronto con l’Islam o paralizzarsi a causa del rompicapo iniziale è un po’ come riscrivere il Grande Mandato di Gesù (Matteo 28) cancellando il passaggio da Samaria: mi sarete testimoni a Gerusalemme e poi alle estremità della terra. Ebrei (ma sfido a pensare alla testmonianza agli Ebrei in termini meno problematici di quella ai musulmani) e secolaristi, cioè quelli che ci assomigliano di meno e sono più distanti da noi quanto a regimi di credenze ben delineati.

Ma il mondo è una vasta distesa di chiaroscuri, di grigi. C’è un mondo che ci assomiglia pur essendo radicalmente diverso da noi. La categoria del “samaritano” nella Bibbia serve proprio a questo, a ricordarci che nella missione incontriamo dei nostri alter ego che ci obbligano a uno sforzo di penetrazione e di comprensione di che cosa crede l’altro (la donna samaritana) e di revisione della nostra identità (la parabola del buon samaritano).

L’Islam come una gigantesca Samaria onnipresente in tutto il mondo.

Colin Chapman studioso anglosassone che ha speso la vita a insegnare materie islamiche tra l’Inghilterra e il Medio Oriente, nel suo famoso libro dedicato al rapporto tra la croce e la mezzaluna (IVP, 2007) suggerisce che il primo passo da fare nel confornto con l’Islam e “avvicnarsi al musulmano, come nostro prossimo”. Prima ancora di capire l’Islam, prima ancora di discutere con i musulmani, di affronatare i temi di fondo o presentare loro il vangelo, è fondamentale:

– incontrarli faccia a faccia
– apprezzare la cultura islamica
– avere consapevolezza dei nostri pregiudizi.

“Ciao come stai”! Questa fu la risposta che il professore di studi islamici diede a uno studente che, durante il corso sull’Islam, gli chiese proprio: come devo approcciarmi a un musulmano? Salutandolo con un caloroso “Ciao come stai?” Fu la risposta del professore! Avviciniamo degli esseri umani prima che dei portatori di credenze. E il cristianesimo è l’unica visione del mondo che chiede ai suoi seguaci di incontrare l’altro sull’unico piano possibile, quello della sua umanità, indipendentemente dalle sue convinzioni. Poi ci sono altre cose e tra di esse mi stupice come Chapman insista sull’assunzione dell’iniziativa, per esempio nell’area dell’ospitalità: invitarsi e andare da loro e molto meglio che invitare loro (sic!).

Un altro step in questo incontro tra esseri umani è naturalmente quello di comprendere dove è l’altro. Sembra che la curiosità, quanto meno come prima mossa, stia in capo ai cristiani. Il cristianesimo una fede curiosa? Si scopre allora che per i musumani la famiglia, l’onore, l’educazione e l’onnipresenza di Dio nella vita siano pilastri di qualsiasi configurazione geo-culturale, dalle Filippine, alla Turchia, dai Paesi del Golfo alle enclave islamiche nel nord Europa.

Infine ci sono i nostri atteggiamenti. Stiamo parlando di un ipotetico primo passo nel “vivere e confrontarsi con l’Islam”, come suggeritoci da Colin Chapman.
Prima però di accennarvi, è bene sottolineare che questa iniziativa (vai a casa loro, chiedigli delle feste del loro calendario, scopri i loro valori) è relativa allo scambio “umano” cioè tra esseri umani che si riconoscono come tali.
Un po’ complicato attuare questa curiosità nei pressi dei tunnel di Gaza, e sotto le attuali macerie della Striscia. Ma sarebbe quasi impossibile anche per un gay dichiarato approcciarsi a un evangelico o cattolico conservatore, per gli stessi rischi che corre.
Quando si discute di queste cose c’è sempre una riserva da avere presente, una riserva che concerne la possibilità o meno di incontrarsi sul piano più propriamente umano. Non è sempre scontato. E sembra di ascoltare quei secolaristi che ci sussurrano: è chiaro, pensateci un po? Che le religioni ci facciamo meno che umani?

In tutti i modi, ecco alcuni dei nostri pregiudizi sull’Islam, secondo Colin Chapman.

I musulmani perseguitano i cristiani!
L’Islam appare come una religione di violenza!
L’Islam vuole dominare il mondo
Se il cristianesimo è vero, all’ora l’Islam è falso
E’ impossibile convertire un musulmano e noi non dovremmo neanche provarci!
I musulmani sono ottusi e arroganti!

Sarà vero? Può darsi di sì; può darsi di no.

Per il momento, anche solo a livello iniziale, hai tanti buoni motivi per partecipare al

XVII Convegno studi GBU: Vivere e confrontarsi con l’Islam!

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di Vinoth Ramachandra

(Tratto dal libro Il riso di Sara, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU)

Fin dai suoi inizi, la chiesa occidentale ha usato il salterio quale proprio innario. Agostino, Lutero e Calvino hanno scritto dettagliati commentari sui Salmi, compresi quelli di lamento. L’opera più lunga di Agostino è il suo Enarrationes in Psalmos, una raccolta di sermoni sui Salmi in cui sollecitava le comunità cristiane a fare proprie le parole di lamento dei salmisti: «Se il Salmo è una preghiera, pregate; se è un lamento, lamentatevi»[1]. I Salmi penitenziali di Lutero (1517) sono stati la sua prima opera originale a essere pubblicata e il primo libro pubblicato nelle colonie americane fu il Bay Psalm Book, nel 1640. Dietrich Bonhoeffer, pastore e martire tedesco, apprezzava i Salmi; per lui erano la principale forma di preghiera, sia individuale sia comunitaria. In una lettera ai genitori dalla cella in cui era prigioniero, scrisse: «Leggo i Salmi ogni giorno, come faccio da anni; li conosco e li amo più di qualsiasi altro libro»[2].

La sostanziale scomparsa del lamento dalle predicazioni, dalle preghiere e dalle liturgie comunitarie nelle chiese asiatiche, in una pedissequa imitazione degli stili d’adorazione delle opulente chiese occidentali, è oggetto di grave preoccupazione, se non altro perché incoraggia la disonestà nelle nostre relazioni con Dio e fra di noi. Dire alle madri che hanno perso i loro figli di non piangere perché «Dio ha il controllo» o che «Dio sta insegnando loro qualche cosa attraverso la sofferenza» non è solo pastoralmente dannoso ma teologicamente inesatto. Non soltanto viviamo in società dilaniate da rivalità etniche e religiose e provate da severi eventi climatici, crescenti disparità economiche e politici corrotti. Molti, nelle nostre comunità, schiacciati da queste realtà sociali non meno che dagli abusi domestici, sono tormentati dai dubbi sull’affidabilità delle promesse di Dio contenute nella Scrittura o sulla rilevanza del vangelo per i contesti culturali da loro abitati e lottano con preghiere inesaudite e con il silenzio di Dio di fronte ai loro traumi più profondi. Costoro non hanno un vocabolario con cui dare voce al loro dolore, perché nelle loro chiese la tradizione biblica del lamento è stata ignorata. Come rilevato dal pastore e teologo di Singapore Gordon Wong, «le nostre chiese enfatizzano la preghiera e la lode a Dio. Quasi sempre, però, pensiamo che le sole preghiere accettabili a Dio siano parole di lode e ringraziamento»[3]. Nulla di strano, allora, se tanti giovani sensibili e riflessivi scelgono di “ritirarsi” dalla chiesa, dove non ci si cura dei loro onesti dubbi e delle loro lotte.

Nancy Lee racconta la storia di un giovane cristiano traumatizzato dalla guerra, esperienza fin troppo comune, ovunque abbiamo la ventura di vivere.

 

«Nel 1996 ho abitato in Croazia; subito dopo la fine delle varie guerre ho percorso gran parte della Bosnia grazie a una borsa di studio Fulbright[4]. La gente lottava con i traumi della devastazione della guerra. Era normale imbattermi in esempi di straordinaria fede e coraggio a fronte di atrocità e orrori inenarrabili. Un giovane impegnato nel ministero musicale in una chiesa protestante, un giorno, mi confidò che al tempo del servizio militare, durante la guerra, aveva prestato servizio nell’esercito in difesa del suo paese. La sua esperienza della violenza era stata devastante e lui era molto angustiato. Quello dei veterani di guerra caduti nell’alcolismo per non essere riusciti a elaborare il trauma e il dolore da loro subiti era comune. In quella cultura tradizionale dell’est Europa, la terapia era vista ancora come una sorta di tabù. Il giovane pensava di poter guardare alla chiesa e al suo pastore come a un luogo in cui, grazie al suo ministero musicale, o almeno grazie al canto, avrebbe potuto trovare un po’ di sollievo per la sua guarigione e anche un modo per aiutare altri. Quando propose al pastore alcuni canti tristi, fu subito liquidato: gli fu detto che la chiesa deve concentrarsi sulla musica positiva e sulla lode di Dio. A questo rimprovero, il cupo scoraggiamento in cui il giovane cadde si sovrappose al suo irrisolto trauma interiore; tristemente, dovette prendere atto della sostanziale inutilità della musica della sua chiesa come aiuto per chi, come lui, fosse psicologicamente ferito»[5].

 

A chi rifiuta di affrontare la sofferenza di coloro fra cui vive o si vergogna delle loro fragilità, le grida di lamento sembrano così poco “spirituali”, imbarazzanti, perfino fastidiose! Quanto poi alla soppressione, da parte di alcune chiese, della tradizione biblica del lamento nella predicazione e nella liturgia, sono chiese per lo più adagiate sullo status quo, che hanno massicciamente investito nella preservazione di relazioni sociali basate sullo sfruttamento e sull’oppressione.

Questo tragico rigetto verso il lamento nella nostra predicazione e adorazione non è solo un problema d’ignoranza; è una mancanza di fede nel Dio della Scrittura. Un bambino sa di essere amato incondizionatamente dai suoi genitori e di godere della libertà di parlare apertamente con loro, di esprimere non meno il suo disagio e la sua rabbia della sua gratitudine e del suo amore. Abbiamo osservato che, nella fede dell’Israele veterotestamentario, il Dio di tutta la creazione aveva istituito un patto con loro, un patto assimilabile a quello di una relazione matrimoniale; fu proprio questa convinzione a consentire ai profeti e agli scrittori d’inni israeliti di inquadrare tutte le loro esperienze di vita individuali e comunitarie, nessuna esclusa, in quella relazione. Se in tempi di sofferenza e tumulti anche noi sappiamo di essere oggetto dell’amore incondizionato di Dio, siamo liberi di fare domande, di sfidare e anche di manifestare la nostra rabbia a Dio. È la sicurezza dell’amore a produrre e incoraggiare il lamento.

Ecco il consiglio del pastore australiano Malcolm Gill ai suoi colleghi pastori.

 

«Far leggere in chiesa un Salmo di lamento, anche senza commentarlo, dà voce a quanti affogano in silenzio sotto il peso del dolore. Recitare collettivamente una preghiera di dolore incoraggia quanti sono abbattuti: non sono i soli a portare il peso del dolore. Per quanto molto raro, anche un lamento musicale tramite un inno tradizionale o un canto contemporaneo può dare voce agli abissi del dolore, quando non si possono trovare le semplici parole»[6].

 

Da ultimo, ai conduttori di chiesa evangelici tentati dal fascino di una cultura dell’intrattenimento o semplicemente timorosi dei rischi dell’esposizione all’intenso dolore del mondo, raccomando il monito di papa Francesco nella sua enciclica Evangelii Gaudium («la gioia del vangelo»):

 

«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze […] Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6:37)»[7].

NOTE

[1] Augustine, Enarrationes in Psalmos 30.2.3, cit. in Rachel Ciano, “Lament Psalms in the Church” in Finding Lost Words: The Church’s Right to Lament, a cura di G. Geoffrey Harper e Kit Barker, Wipf & Stock, Eugene, 2017, p. 11. Fra le possibili ragioni per il venir meno del lamento nell’adorazione della chiesa occidentale a partire dal diciottesimo secolo, Ciano propone il declino della fede nella divina sovranità, le spiegazioni scientifiche della sofferenza e gli stereotipi culturali della «mascolinità» [L’opera citata di R. Ciano non è disponibile in Italiano; è tuttavia disponibile il testo di Agostino: Commento ai Salmi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano. 2001, ndt].

[2] Dietrich Bonhoeffer, Letters and Papers from Prison, SCM, Londra, 1953; tr. it., Resistenza e resa, Queriniana, Brescia, 2002, lettera del 15 maggio 1943, p. 18.

[3] Gordon Wong, God, Why?: Habakkuk’s Struggle with Faith in a World out of Control, Armour, Singapore, 2007, p. 7.

[4] Il programma Fulbright nasce negli Stati Uniti nel 1946 grazie alla legge proposta dal Senatore dell’Arkansas J. William Fulbright. La legge, approvata dal Congresso degli Stati Uniti, si prefigge l’obiettivo di finanziare borse di studio per lo studio, la ricerca e l’insegnamento in modo da favorire il processo di pace attraverso lo scambio d’idee e di cultura fra gli Stati Uniti e le altre nazioni nel mondo; fonte: http://www.fulbright.it/il–programma–fulbright/

[5] Lee, Lyrics of Lament, p. 14.

[6] 30. Malcolm J. Gill, “Praying Lament”, in Harper e Barker, Finding Lost Words, op. cit., pp. 232–233.

[7] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, Catholic Truth Society, Londra, 2013, pp. 29–30; § 49; testo italiano liberamente consultabile on line sul sito http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa–francesco_esortazione–ap_20131124_evangelii–gaudium.html.

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Tre domande a
Emil Shehadeh

Relatore al prossimo
Convegno Studi GBU, 31 ottobre – 3 novembre 2024

 

 

 

 

Per rispondere alle tre domande, dobbiamo definire alcuni termini

Estrema destra: le persone che militano in questa area politica odiano chiunque non sia d’accordo con la loro definizione dell’identità britannica. Tendono a essere puristi, e ricorrono alla violenza per esprimere la loro frustrazione per quello che ritengono essere il modo indifferente, e a loro parere subdolo e ingannevole, con cui i governi che si sono succeduti hanno ignorato la questione dell’immigrazione di persone provenienti da culture che sono totalmente in contrasto con i valori britannici ed europei, per non dire cristiani. Si tratta però di una piccola minoranza che ha un impatto minimo.

Estrema sinistra: le persone che militano in questa area politica sembrano condividere un odio per la maggior parte dei valori tradizionali ebraico–cristiani e ambiscono a un mondo in cui, superficialmente, tutti, incluso le varie opinioni sarebbero benvenuti nel Regno Unito, tranne le opinioni tradizionali di provenienza ebraico–cristiane. Uno dei tratti più evidenti è la critica unilaterale a Israele e di conseguenza agli ebrei, una critica che in molti casi si esprime con un odio cieco. Per questo motivo sono spesso alleati con i musulmani, in particolare con gli musulmani attivisti. La relazione è bilaterale. L’80% dei musulmani vota laburista, un partito politico di sinistra, un partito che dai tempi di Neil Kinnock ha però lottato per controllare l’antisemitismo dei suoi membri più estremi, come Jeremy Corbyn.

 

Le rivolte

Southport ha pianto la perdita di tre giovani ragazze uccise da un uomo i cui genitori erano immigrati dall’Africa. Un soggetto irresponsabile e ignorante ha affermato, sui social media, che l’assassino era musulmano. Questa notizia ha innescato un attacco a una moschea di Southport, da parte di estremisti di destra, alcuni provenienti da fuori Southport. Hanno attaccato la polizia, ferendo alcuni ufficiali, devastando e saccheggiando negozi e imbrattato i muri di slogan. Che cosa possiamo dire da un punto di vista cristiano di questa rivolta.

  1. La violenza è un male, indipendentemente da chi la pratica e dalle sue motivazioni.
  2. Attaccare i musulmani con o senza prove di colpevolezza, serve solo ad aumentare lo spettro dell’islamofobia.
  3. Anche se l’assassino fosse stato un musulmano, non si possono giustificare gli attacchi a una moschea, soprattutto in un contesto cristiano.
  4. La verità è fondamentale. I rivoltosi di Southport sono stati fuorviati da una bugia. Non conosciamo la religione dell’assassino delle ragazze. Anche se la conoscessimo e anche se l’aggressore fosse un musulmano, i cristiani non possono tollerare la violenza. Le autorità devono ai cittadini una maggiore trasparenza, una lezione che avrebbero dovuto apprendere dal disastro natalizio di Colonia (Justin Huggler, ‘Cover-up’ over Cologne sex assaults blamed on migration sensitivitiesPolice and media have been accused of silence on wave of New Year’s Eve assaults by men ‘of north African or Arab appearance’ because of fears of stirring social tensions, The Telegraph, 06 January 2016).
  5. La polizia ha fatto del suo meglio per sedare la rivolta di Southport e nessun cristiano ha tollerato le azioni dei rivoltosi.

 

Ciò nonostante, una delle dichiarazioni più forti è stata fatta da un uomo che ha rischiato la vita per salvare i bambini durante l’attacco di Southport. John Hayes, 63 anni, ha detto:

Non sono particolarmente motivato politicamente, ma mi sento sconcertato quando sento Keir Starmer e Yvette Cooper parlare di come la polizia si scaglierà con tutta la forza della legge, ecc., su queste persone [i rivoltosi]. Di fatto non stanno parlando della causa principale, e devono iniziare a capire che devono ascoltare e affrontare la causa piuttosto che i sintomi. Mettere questi ragazzi in prigione non risolverà i problemi fondamentali” (Matthew Weaver, Man who tackled Southport attacker says he wished he could have been ‘more Bruce Willis’, The Guardian, Wed 7 Aug 2024)

 

Al contrario, l’arcivescovo Welby ha criticato “l’odio e la violenza” che hanno sostenuto le rivolte (Hattie Williams, Christians have no place in far-right groups, Archbishop Welby warns, Church Times, 12 August 2024). Commentando la violenza, ha inoltre aggiunto:

È razzista… Prende di mira le minoranze etniche. È anti–musulmana, contraria ai rifugiati e ai richiedenti asilo. … E per togliere ogni dubbio, bisogna dire che è un’offesa alla nostra fede e a tutto ciò che Gesù è stato ed è l’uso fatto dall’estrema destra dell’iconografia cristiana. Vorrei dire chiaramente ai cristiani che non dovrebbero essere associati a nessun gruppo di estrema destra, perché quei gruppi non sono cristiani. Vorrei anche dire chiaramente alle altre fedi, in particolare ai musulmani, che noi ci dissociamo dalle persone che abusano di tali immagini in quanto sono fondamentalmente anticristiane” (Justin Welby, “After all these days of hate and violence in the UK, we must find a way to live together well,” The Guardian, Sun 11 Aug 2024).

 

Ironicamente, il Church Time ha pubblicato l’opinione di Welby con una foto di una “manifestazione” a Londra Islington con cartelli che recitavano “Schiacciamo il fascismo e il razzismo” e “Benvenuti rifugiati, fermate l’estrema destra”. Questi due slogan sono tipici degli atteggiamenti di sinistra e del governo: in primo luogo, chiunque chieda che nelle politiche sull’immigrazione venga inoculata una dose di razionalità viene etichettato come di estrema destra. In secondo luogo, la sinistra vuole una porta aperta per tutti i rifugiati senza calcolarne i costi. In terzo luogo, la violenza non è un’esclusiva dell’estrema destra, come dimostrano gli slogan e come hanno dimostrato anche le rivolte di Harehills. A Londra, rifugiati e immigrati che si sono ribellati per le strade hanno incendiato furgoni, rotto le vetrine e saccheggiato i negozi, mentre alcuni intonavano Allahu Akbar, sono stati criticati da un politico che poi è stato accusato di islamofobia. Il Muslim Council of Britania ha sostenuto che Allahu Akbar è una semplice preghiera musulmana (Millie Cooke, Outrage as Jenrick says people shouting ‘Allahu Akbar’ on London streets should be arrested immediately, Independent, 9th August 2024.). Non hanno detto che fu usata per la prima volta da Maometto quando decimò un’intera tribù ebraica. Mentre guidava il suo esercito verso il Khaybar ebraico, Maometto affermò “Allahu Akbar. Kharibat Khaybar“, che significa “Allah è grande, Khaybar verrà distrutto“. Il takbir può essere usato come lode, ma spesso è usato per alimentare la violenza musulmana.

Come al solito, l’establishment è così ansioso di proteggere gli immigrati che si concentra sulle reazioni estreme all’immigrazione incontrollata piuttosto che sull’immigrazione non regolamentata, mentre chiude un occhio sulla violenza degli immigrati, in particolare di quelli di religione musulmana.

 

Prima domanda

Qual è la relazione tra i recenti disordini e la fede della gente che proviene da altre tradizioni religiose?

Le rivolte di cui stiamo parlando sono una reazione a una violenza ancora più grande perpetrata contro degli inglesi (tre innocenti bambine) compiuta da immigrati o figli di immigrati. Non è certo una giustificazione, ma una semplice spiegazione.

Gli immigrati possono impiegare diverse generazioni per integrarsi e identificarsi con il loro nuovo paese. Si tratta di un freddo dato della vita, che prescinde dalla geografia. La difficoltà intrinseca all’adattamento a un nuovo paese può causare stress, sentimenti di rifiuto e persino problemi di salute mentale. L’incapacità ad assimilarsi (per lo più a causa del grande abisso culturale tra la vecchia e la nuova cultura) produce rabbia e odio, che a volte si traducono in attacchi criminali contro innocenti.

Appartenere a una fede che considera il cristianesimo una falsa religione e che condanna i suoi seguaci non solo al fuoco dell’inferno, dopo la morte, ma li rende passibili di aggressioni e uccisioni in questa vita, non aiuta il processo di integrazione. Ciò induce i figli degli immigrati verso tre alternative: l’estremismo, con il quale aderiscono alla loro religione in modi più rigorosi dei genitori; il secolarismo, in cui perdono la fede e diventano ostili alla loro precedente religione perché li priva dello stile di vita che l’Occidente offre. In terzo luogo, l’approccio culturale (ad esempio i musulmani culturali) che rendono omaggio sia alla loro nuova cultura sia alla religione dei padri. Sono musulmani nominali che sembrano avere lealtà divise. Citerebbero il Corano selettivamente per convincerti che l’Islam è pacifico e scelgono di ignorare o interpretare in modo diverso i Versetti di Sward del Corano e sostengono di non credere negli Hadith.

Un altro meccanismo di difesa preferito è quello di dare la colpa al colonialismo occidentale e al sionismo per tutti i mali presenti nel mondo musulmano. Non riescono a riconoscere che l’Islam è la potenza colonialista più longeva. Gli arabi della penisola [arabica] hanno conquistato il Medio Oriente, la Spagna, la Turchia, il Nord Africa e il subcontinente asiatico (Pakistan, India, Afghanistan, Iran ecc.) e hanno imposto la loro religione e la loro lingua.

Le rivolte attuali devono tenere conto delle reazioni alle rivolte di destra. Le contro-manifestazioni sono state animate da attivisti musulmani e da sostenitori dell’estrema sinistra che sventolavano la bandiera palestinese e condannavano Israele. La sinistra contiene elementi che sono violenti quanto, se non di più, dell’estrema destra. Un consigliere laburista è stato arrestato per aver dichiarato in un video: “Sono disgustosi fascisti e nazisti e dobbiamo tagliargli la gola e liberarcene tutti” (Aletha Adu, Suspended Labour councillor arrested over video ‘urging people to cut throats, The Guardian, Thu 8 Aug 2024).

L’attuale governo laburista sembra più propenso a esagerare l’impatto dell’estrema destra che ad affrontare la questione dell’immigrazione incontrollata. Si è detto poco sull’assassino delle tre ragazze innocenti. Ora l’attenzione è sulle “rivolte” e la reazione sembra provenire principalmente dall’estrema sinistra, pro-palestinese, che odia Israele.

 

Seconda domanda

In Inghilterra, in considerazione della grande tradizione pluralista e multiculturale della società inglese, anche in ragione del suo passato coloniale, l’Islam e i musulmani rappresentano un caso speciale?

 

Di tutte le minoranze che vivono nel Regno Unito, e con l’eccezione dell’ebraismo, l’Islam è l’unica religione che cerca di fondere religione e razza. Questo è il concetto di al-Ummah. Ma in realtà, mentre la maggior parte degli Ebrei è tale etnicamente e religiosamente, la maggior parte dei musulmani ha origini razziali diverse. L’Islam è una religione, non un’etnia. I musulmani sono individui appartenenti a etnie diverse. Tuttavia, i musulmani, sostenuti dall’ala sinistra, hanno portato avanti una campagna volta al riconoscimento dell’islamofobia come forma di razzismo.

Una delle caratteristiche dell’Islam è il suo senso di supremazia, come espresso in questo versetto:

 

“Voi siete la migliore nazione prodotta [come esempio] per l’umanità. Ordinate ciò che è giusto e proibite ciò che è sbagliato e credete in Allah. Se solo le persone della Scrittura avessero creduto, sarebbe stato meglio per loro. Tra loro ci sono credenti, ma la maggior parte di loro sono corrotti”. (Q 3:110). Fasiqun significa corrotto.

 

Il Corano chiama i non musulmani anche najas, che significa sporchi. In un certo senso questo è simile all’insegnamento chassidico, per cui i gentili sono sporchi e dovrebbero bollire negli escrementi.

L’Islam divide il mondo nella Casa dell’Islam e nella Casa della guerra. Tutti i non musulmani, incluso l’Occidente, appartengono alla Casa della Guerra e poiché sono fasiqun, corrotti, i musulmani hanno il dovere di combatterli

La narrazione musulmana afferma che Maometto e i primi musulmani furono perseguitati. E sebbene l’Islam sia stato all’offensiva per 1400 anni, in qualche modo i musulmani crescono con un senso di vittimismo.

La maggior parte dei musulmani cresce così con un senso di supremazia e di disprezzo per la cultura ebraico–cristiana. Allah aveva infatti dato l’intera terra a Maometto e ai suoi seguaci! Questo dà loro un senso di diritto che spiega il comportamento di alcuni musulmani in Occidente. Tendono a comportarsi come persone privilegiate ma perseguitate, che meritano più diritti e privilegi di chiunque altro.

 

Terza domanda

Esiste una prospettiva cristiana nei confronti degli attuali disordini? Cosa possono fare i cristiani in un contesto in cui lo scontro tra occidentali e musulmani raggiunge una violenza così estrema?

 

La prospettiva cristiana dovrebbe essere quella della saggezza e dell’amore. A volte è meglio tacere. Né Gesù né i suoi discepoli si sono coinvolti nelle proteste contro la crudeltà romana presente in Palestina. Dobbiamo comprendere queste dinamiche e incoraggiare le buone relazioni basate sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Ma dovremmo incoraggiare le nostre autorità a controllare l’immigrazione in modo tale che le persone siano aiutate ad integrarsi. In una delle sue parabole Gesù insegnò l’importanza di calcolare il costo di una casa, prima di intraprendere un progetto di costruzione (Lc 14:28–30) e bisogna esprimere il punto di vista attraverso gli eletti nel parlamento e la stampa libera facendo notare che l’immigrazione non regolamentata è negativa per gli immigrati e la gente del posto.

I cristiani dovrebbero essere un buon esempio di prudenza e di tolleranza. Dovremmo impegnarci nei confronti dei musulmani per mostrare loro una visione del mondo migliore, uno stile di vita migliore, vale a dire Gesù la “via, la verità e la vita”. Le rivolte fomentano solo l’odio e l’odio va contro il cuore di Dio la cui sostanza è amore.

Dobbiamo incoraggiare più cristiani a intraprendere la carriera politica e giornalistica, sapendo che dovranno prepararsi a navigare controcorrente. Sostenere i valori cristiani in un mondo di menzogne, intrighi ed egoismo sarebbe per loro la croce da portare. I ministri cristiani del Vangelo non dovrebbero essere coinvolti nella politica.

Dobbiamo pregare per la saggezza, il coraggio e l’integrità in politica.

L’alleanza innaturale tra grandi aziende e politica ha come risultato che poiché gli immigrati, legali o meno, accetteranno salari bassi, allora i politici tendono a non fare nulla riguardo all’immigrazione; quando i politici vanno in pensione (spesso relativamente giovani) hanno prospettive incredibili nel mondo delle grandi aziende, quali ricompense per i favori fatti alle grandi aziende.

[I riferimenti culturali e politici sono da riferire naturalmente alla società inglese, e sono dell’autore, ndR]

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Il racconto di un'amicizia. Dialogo tra papa Francesco e il pastore Giovanni Traettino - Alessandro Iovino - copertinaNote a margine della lettura del libro di Alessandro Iovino, Il racconto di un amicizia. Dialogo tra papa Francesco e il pastore Traettino, Eternity, Milano, 2024, pp. 182.

 

Iovino ha fatto un capolavoro giornalistico. Non c’è che dire, anche in considerazione della diffusione del libro. Non c’è giorno in cui non si aggiunga un opinionista, un recensore, un’intervista alla lunga sequela di coloro che segnalano la novità rappresentata dal libro.

Dobbiamo allora, in prima istanza, dire qualcosa sul progetto che sta dietro il prodotto editoriale.

Tutto parte dall’amicizia tra l’attuale Pontefice e il pastore Giovanni Traettino, figura di spicco dell’evangelismo pentecostale e carismatico italiano e punto di riferimento della “Chiesa della Riconciliazione”. Questa amicizia raggiunge l’apice nella visita che Francesco fa al pastore, alla sua famiglia e alla chiesa di evangelica di Caserta il 28 luglio 2014. Il libro contiene belle e preziose foto di questo evento, in particolare quelle nella casa del pastore Traettino.

Il lavoro di Iovino comincia all’indomani di questo evento con un percorso di avvicinamento allo stesso pastore, che l’autore rivela di non aver conosciuto in precedenza, e poi di preparazione dell’intervista vera e propria che si è svolta il 7 novembre del 2023 presso Casa Santa Marta, la residenza del pontefice, anche questo evento corredato di foto a colori.

Si tratta dunque di un libro che intende fissare subito, senza perdere tempo, il flusso di eventi che hanno ruotato e ruotano intorno a questa amicizia, facendola conoscere, raccontandola e caricandola, come è naturale che sia, di significati e prospettive che guardano al futuro.

Lo ribadiamo, una bella operazione “giornalistica”. Insisto sul qualificativo perché sarebbe un errore approcciare il libro da un lato con le lenti amplissime e indefinite dello sguardo ecumenico e, dall’altro lato, sbirciandolo dall’angustissimo e contraddittorio evangelico “buco della serratura”, che in altri tempi ho definito “approccio identitario al cattolicesimo”.

Tra questi estremi c’è infatti il ricco spazio costituito dal materiale proveniente da confronti e rapporti tra cattolici ed evangelici che richiede chiavi di lettura più adeguate e spendibili nell’unica ottica alla quale un evangelico può attenersi per leggere e interpretare i fenomeni della storia e della vita in generale, vale a dire quella del vangelo (faccio tutto per il vangelo … esclamava Paolo, 1 Cor 9). Abbiamo tra le mani dunque un libro relativo al rapporto tra cattolicesimo ed evangelismo – nella versione italiana di un simile rapporto. Questo è un fatto ineludibile che, ancor prima di essere declinato nella prospettiva della documentazione giornalistica, impone una riflessione preliminare.

Di che cosa parliamo quando parliamo di rapporti tra evangelici e cattolici? L’espressione potrebbe essere espressa con altre formule (cattolicesimo/protestantesimo – ma ho i miei dubbi sull’adeguatezza di questa formula per il libro di cui stiamo parlando, nonostante l’autore provi a inserire l’evento-intervista in un panorama più  ampio, vedi pp. 53-55).
Io direi che ci sono almeno tre risposte da dare alla domanda relativa al contenuto di materiale che si occupa del rapporto tra cattolici ed evangelici.

Per prima cosa potremmo avere a che fare con materiale che si occupa del cattolicesimo in sé e per sé, con un approccio tipico di studiosi di storia della chiesa, di storia del dogma, di teologia, etc.. In questo approccio il punto di partenza dello studioso (evangelico o cattolico o secolare) conta un po’ meno. L’idea è che nel descrivere un mondo, e il cattolicesimo è un’intera costellazione di mondi, ci si sforzi di essere il più obiettivi possibili nella sua descrizione. Sarà importante, in questo approccio, tra le tante precauzioni metodologiche, fare attenzione per esempio ai registri comunicativi con i quali il cattolicesimo, i suoi esponenti o sezioni quali Conferenze episcopali, etc. oppure lo stesso pontefice, si esprimono. Un’intervista ha una collocazione che è differente da un documento ufficiale e nello studio bisognerà pensare al modo opportuno di articolare queste due fonti. Il ricorso a spot o a frasi ad effetto per parlare di cattolicesimo non appaiono adeguati in questo primo approccio che, ribadiamolo, ha lo scopo di descrivere il cattolicesimo. La descrizione obiettiva si presta poi a essere usata per diverse finalità. Sicuramente, la testimonianza cristiana al vangelo potrebbe giovarsi di simili descrizioni.

All’estremo opposto dell’approccio focalizzato sul contenuto c’è l’approccio focalizzato sull’interesse di chi parla di cattolicesimo. L’ho definito approccio identitario al cattolicesimo (AIC). In questo caso tutto lo studio del cattolicesimo (ma anche di qualsiasi altro oggetto di studio) ha lo scopo di far emergere gli approcci evangelici al cattolicesimo. Si studia il cattolicesimo, de jure e de facto, per capire che cosa pensano e fanno gli evangelici (di tutto il mondo) nei suoi confronti. L’approccio identitario al cattolicesimo è allora un mascherato studio della condizione dell’evangelismo, volto a suggerire una maggiore circospezione e tutela nei confronti di ipotetici complotti finalizzati a portare gli evangelici sotto la cupola di Roma. Questo approccio, che non si pone lo scopo della testimonianza al vangelo, potrebbe intravedere nel lavoro di Iovino un pericoloso precedente. Unico motivo, più o meno dichiarato, è quello di intruppare gli evangelici in una novella e gigantesca dieta planetaria (dieta era il termine usato nel XVI secolo per i dibattiti, a volte sanguinosi, tra cattolici ed evangelici) con tanti emuli di Lutero e Calvino intenti a segnare i limiti di ciò che non può essere attraversato, nel rapporto con il cattolicesimo.

Ma c’è un terzo modo di intendere e studiare il rapporto tra cattolici ed evangelici. Non centrato sull’oggetto studiato (il cattolicesimo); non sull’interesse di chi studia (approccio identitario) ma semplicemente focalizzato sul rapporto in sé e per sé.

Di cosa stiamo parlando, nel nostro caso? Di un incontro tra un pontefice e un pastore evangelico (PUNTO).

Sicuramente è qualcosa di straordinario e Iovino non lesina espressioni enfatiche per il suo capolavoro giornalistico (un momento di luce purissima, p. 57). Il libro appartiene allora a un materiale, prezioso, che racconta ciò che è accaduto tante altre volte, magari a livelli inferiori, quanto ad autorevolezza dei protagonisti. E non mi riferisco agli incontri ecumenici veri e propri ma a una lunga sequela di eventi, incontri, dibattiti che si organizzano a livello di parrocchie, di sedi arcivescovili, in contesti di celebrazioni storiche, di presentazioni di iniziative sociali e di varia natura, etc.

Questo materiale non deve essere derubricato al livello di indicazione universale, ma neanche nazionale, su quello che è lo stato dei rapporti tra il cattolicesimo e l’evangelismo. È al contrario un materiale prezioso che testimonia di una vera e propria provvidenza divina che ha permesso il superamento dei secoli e dei decenni bui in cui queste comunità di fede si guardavano in cagnesco. Nel libro sono presenti numerosi accenni a questi tempi bui: c’è la testimonianza di Bergoglio (pp. 32); c’è il riferimento alla Circolare Buffarini-Guidi (pp. 52sg.), etc. Per inciso: Iovino non conosce forse pienamente la storia ottocentesca dell’evangelismo italiano e la faticosa conquista, condita di stragi e attentati, della libertà di culto. Il materiale relativo ai rapporti tra cattolici ed evangelici racconta dunque una bella storia di rispetto crescente, stima e apprezzamenti. Grazie a Dio per questo.

Un’altra caratteristica di questo tipo di materiale, a cui appartiene a pieno titolo il nostro volume, è quello rappresentato dal sentimento espresso dai protagonisti di questi eventi; essi tendono a proiettare l’esperienza positiva del singolo evento verso un futuro che potrebbe riservare ulteriori tappe. Nel libro si parla di raggiungere una maggiore unità nella diversità (p. 55). Non ho la sfera di cristallo ma penso di poter dire che questa speranza è molto bella in quanto restituisce l’atmosfera positiva dell’evento che racconta (figuriamoci: l’intervista a un papa da parte di un giornalista evangelico, p. 47); dice naturalmente poco a proposito del futuro. I protagonisti dell’approccio identitario al cattolicesimo potranno stare tranquilli: ci saranno sempre evangelici che passeranno dall’altra parte così come cattolici che faranno il percorso inverso. Le cose non cambieranno di molto. Speriamo, questo sì, che, grazie a iniziative del genere, cresca il rispetto e la stima reciproca e si possa, in nome di un’stanza superiore, quella del vangelo, permettere che le anime conoscano la salvezza in Gesù.

Adesso veniamo al libro, che si presenta diviso in tre parti.
Nella prima c’è la cronaca dell’Intervista vera e propria, con un resoconto dettagliato delle domande e delle risposte dei due protagonisti in un clima, manco a dirlo, di amicizia, cortesia e con accenti di indubbia, trasparente, cristiana e, perché no, evangelica (in senso lato) comunanza.

Nella seconda parte, dal titolo “Ascoltiamoci”, l’autore cerca di fare un bilancio dell’evento­-intervista, ripercorrendo il percorso delle domande e corredandolo di sue personali riflessioni e di citazioni bibliche. Mi pare di capire, o di interpretare, che queste citazioni vogliano creare, in qualche modo, una zona cuscinetto tra due mondi che non sono solo rappresentati plasticamente dai titoli dei personaggi coinvolti, il pastore evangelico e il pontefice, ma che attraversano, lo si percepisce molto bene, l’intimo del giornalista e del credente Alessandro (Non è semplice trovare buoni motivi per sostenere le proprie aperture, non è semplice trovare parole per spiegare il bisogno di smuovere stati di immobilità durati decenni, p. 64). È questa la parte più autoriale, se così possiamo dire, del libro, quella in cui il giornalista si improvvisa teologo.

La terza parte è una raccolta, preziosa, di fonti (discorsi, interviste e testimonianze) che hanno fatto seguito all’evento del 2014 e giungono fino al giorno d’oggi (pp. 105-173).
In questa terza parte sono riportati i discorsi del pontefice e di Traettino in occasione della visita di Francesco a Caserta.

L’intervista si sviluppa seguendo una successione  di domande. Mi pare che non venga spiegata la successione dei temi e delle domande (sono tredici e sono elencati opportunamente nell’indice). I temi che scandiscono le domande erano comunque presenti nei due discorsi del 2014, tenuti a Caserta. Ma a un lettore attento come potrebbe essere il sottoscritto avrebbe fatto piacere una giustificazione della loro articolazione, per esempio quale domanda prima e quale domanda poi. Questa nota sulla successione dei temi ha anche a che fare con un altro fatto, vale a dire che non sempre si coglie una simmetria nelle risposte che forniscono i due protagonisti.

Mi spiego e faccio l’esempio del tema della diversità (pp. 38-44). Non si capisce perché su questo tema Bergoglio parli di migrazioni e dunque di diversità culturali, di globalizzazione e di integrazione mentre il pastore Traettino si sofferma sulla diversità che si registra tra cristiani. Sarebbe stato interessante ascoltare Bergoglio affrontare di petto, e nel contesto dell’intervista, il tema della diversità all’interno del cristianesimo, e dello stesso cattolicesimo, così come ascoltare Traettino parlare di diversità culturale, di immigrazione e così via. Questo non significa che i protagonisti non affrontino i temi relativi alle differenze tra cattolici ed evangelici. Ma non si capisce perché proprio in quel punto le risposte non rispettino una certa simmetria.

Le differenze teologiche vengono trattate con un approccio fenomenologico piuttosto che dottrinario. Il che restituisce delle convergenze suggestive. Penso per esempio al tema della confessione, declinato da Bergoglio in chiave comunitaria, declinazione nei confronti della quale Traettino non può che essere d’accordo. Eppure la confessione è e resta un sacramento. Idem per la questione del vicariato, così come sul ruolo della Madre di Dio.

È probabile che il clima di rispetto e di apprezzamento reciproco, a cui abbiamo alluso, abbiano bisogno di questo ampio spazio fenomenologico in cui i singoli dogmi vengono in qualche modo sfumati per lasciare lo spazio nel dialogo a ciò che di positivo creano. Bello. Ma i dogmi ci sono e questo lo sanno sia Traettino sia Bergoglio. Non dobbiamo suggerirglielo noi.

Ci sono due punti in cui l’autore nelle domande e gli intervistati nelle risposte usano l’espressione “teologia”: teologia dell’essenziale (p. 18) e teologia del poliedro (p. 23). Concentriamoci un attimo su questi due punti perché essi mi sembrano i più qualificanti del volume.

Teologia del poliedro. Bergoglio allude alla figura del poliedro, con buona pace di Iovino che ci confessa non essere bravo in matematica (geometria), quando, nel suo discorso del 2014, parla della diversità tra evangelici e cattolici (cioè proprio l’argomento che manca nella risposta a Iovino). Lì Bergoglio prendendo spunto da un’espressione che, se la memoria non mi inganna, era di Oscar Cullman, vale a dire “diversità riconciliata” e facendo leva sull’azione dello Spirito (con un riferimento abbastanza esplicito a 1 Corinzi 12) afferma che l’unità tra i cristiani assomiglia a un poliedro (anche un prisma?) in cui ogni faccia è beneficiaria dell’unica azione dell’unico Spirito ma si esprime nelle sue proprie peculiarità che siano quelle della chiesa di Roma, delle chiese della Riforma, o del movimento pentecostale: “il poliedro è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità” (p. 106). Bergoglio riteneva che questa figura potesse esprimere un nuovo volto del vecchio progetto ecumenico.

Il vecchio progetto ecumenico, che pure aleggia in alcune risposte e in tutto il volume, prendendo spunto da un altro brano neotestamentario (Giovanni 17 – vi allude Traettino – p. 110) poneva capo a un’altra figura “geometrica”, quella del cerchio (una ruota) in cui i raggi convergono al suo centro dove il centro, fuor di metafora, è Cristo.

Qui abbiamo un ampio campo di confronto tra evangelici e cattolici che si avvantaggia del fatto che non si sviluppa a suon di versetti sparati l’uno contro l’altro o di costruzioni teologiche che si contrappongono. No, ancora una volta, ricorrendo alla mediazione dei fenomeni a cui danno vita le costruzioni teoriche, abbiamo il vantaggio di discutere a partire da costellazioni metaforiche e figurative.

Giusto un piccolo assaggio. La figura dell’ecumenismo storico, il cerchio, se da un lato esprime un grande afflato teleologico (si va tutti verso Cristo) pone il problema di quale sia il punto di partenza. Gesù Cristo non è solo l’omega ma anche l’alfa; non è solo un punto di arrivo ma anche un punto di partenza. Parliamo dello stesso Cristo quando riflettiamo e tiriamo dentro al discorso ecumenico tutta la vicenda della ricerca del Gesù storico nel suo rapporto con il Cristo della fede? O qual è lo status del Risorto in rapporto a due segmenti della storia del cristianesimo, vale a dire la chiesa nella sua condizione istituzionalizzata (successione) oppure la predicazione della Parola che è viva in ragione del Vivente?

La nuova figura per i rapporti ecumenici, quella del poliedro, è debitrice nei confronti di 1 Corinzi 12. Ma non sarebbe questa una sorta di santificazione e cristallizzazione dello status storico raggiunto dalle chiese? E se ogni faccia del poliedro ha la sua ragion d’essere nel carisma ricevuto, non sarebbe questa una gigantesca premessa per un relativismo teologico in cui è bene che ognuno stia al proprio posto, premesso che ci riconosciamo nei carismi ricevuti e che ce li teniamo cari senza metterli in discussione? Qui l’approccio identitario al cattolicesimo, quello in cui si studia il cattolicesimo per dirsi alla fine “dobbiamo essere più protestanti” trova una sua ragion d’essere proprio nel poliedro proposto da Francesco. In questo caso, veramente, si finisce sotto la cupola di Roma (sic). E infine, potrebbero darsi altre, nuove facce del poliedro? Chi le introduce, come verranno accolte, quale autorità potrà alla fine dire: ecco, il poliedro si è arricchito di una nuova faccia?

I due modelli, cerchio e poliedro, si dimostrano deficitari non nei confronti di questa o quella prospettiva confessionale, ma deficitari nei confronti del vangelo. Non hanno forse affermato i due protagonisti, Bergoglio e Traettino, in più punti, che bisogna pensare a un cristianesimo in cammino? Solo il vangelo è ciò che può mettere in cammino donne uomini che rinunciano alle loro identità, siano esse cattolica, protestante o pentecostale!

La teologia dell’essenziale (p. 18). Qui, se capisco bene lo sviluppo dell’ottimo lavoro fatto da Iovino, mi pare di percepire uno slittamento. Quando il pastore Traettino introdusse nel 2014 il tema dell’essenziale, riprendendo una frase di Raniero Cantalamessa (gli evangelici sono cristiani col carisma dell’essenzialità, p. 111), declinò egregiamente quella caratteristica in una una pagina impregnata di cristocentrismo con il chiaro riferimento a 1 Corinzi 3:11: “la conversione a Cristo; la relazione personale con Cristo; l’imitazione di Cristo …” (p. 112).

Quando il tema viene ripreso nell’intervista (pp. 18sg.) l’essenzialità viene declinata in modo diverso: “chiederei a entrambi di raccontarmi l’essenza dell’amore per Dio e dell’amore di Dio, facendo riferimento a quella che potremmo definire teologia dell’essenziale” (Iovino). Le risposte sono abbastanza conseguenti, volgendosi verso quello che appare essere il grande paradigma che il mondo post-cristiano chiede alle chiese cristiane di interpretare. Un paradigma in cui si esprima nell’amore (Vattimo parlava di caritas) il tutto del cristianesimo. Per carità, tutto potrebbe tenersi: il cristocentrismo è un’elaborazione che non esclude il tema dell’amore di Dio per il mondo e del possibile amore del mondo per Dio e degli uomini tra loro (“energia sorgiva per tutte le relazioni”, Traettino, p. 19).

Ma questa è una grande sfida epistemologica: il cristianesimo può essere ridotto a una sua essenza che si limiti a un afflato inclusivo generalizzato senza prevedere l’altro tema della verità e, ahimè, dell’esclusione?

Il libro in questo senso è un esercizio interessante che ci spinge a interrogarci. Hanno risposto Bergoglio e Traettino a questa sfida? Hanno colto le differenze che insistono tra il vangelo e le conseguenze del vangelo. Il pastore Traettino del discorso del 2014 mi piace di più del pastore che nel 2023 risponde alla domanda sull’essenzialità.

Devo concludere questa lunga riflessione. Questo è un libro che dà a pensare, che stimola anche là dove il lettore potrebbe aver desiderato maggiore coerenza. Un libro da non leggere con le lenti semplicisticamente ecumeniche ma neanche da leggere con i paraocchi dell’approccio identitario al cattolicesimo, magari suggerendo che esso potrebbe essere espressione di uno scivolamento che si vorrebbe evitare all’evangelismo italiano e addirittura mondiale.

Un libro, al contrario, da leggere con curiosità, con generosità nei confronti di chi lo ha pensato e assemblato. E se da questa venisse fuori la necessità di tornare a pensare sempre e di nuovo a partire dal vangelo, allora vuol dire che si è trattato di una “buona” lettura.

 

 

 

L’articolo Ci fa evangelici “una solida e serena convinzione” proviene da DiRS GBU.

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Questa mattina si è diffusa piuttosto rapidamente la notizia che è venuto a mancare la notte scorsa il teologo valdese Paolo Ricca, figura di grande spessore culturale, credente profondamente partecipe del messaggio cristiano e tra i maggiori studiosi italiani del pensiero della Riforma. Si tratta di una perdita per il mondo del protestantesimo storico italiano e per tutto il mondo evangelico.

In questo mio ricordo non entrerò sempre nella discussione sul suo pensiero, ma soprattutto sul rapporto che ho avuto con questo studioso e che ho avuto il piacere di incontrare in diverse circostanze ed in diverse epoche della mia vita.

Penso che la prima volta che ho sentito una conferenza di Paolo Ricca fosse quando avevo appena iniziato l’università ad inizi anni 1980 e si stava celebrando il cinquecentenario della nascita di Lutero. Ricca, che era già docente di storia della Chiesa alla Facoltà Teologica Valdese, venne a presentare a Bari un testo di Lutero e, devo ammettere, che la sua chiara presentazione ha sicuramente invogliato me, giovane studente di filosofia appassionato del messaggio evangelico, ad approfondire il pensiero della Riforma e dei principali riformatori. 

Qualche anno dopo mi sono iscritto alla Facoltà Teologica Valdese ed ho studiato e fatto l’esame di storia della Chiesa con lui. Si è trattato di un affascinante colloquio (durato più di due ore) che è stato di grande interesse e di valore. Ricordo ancora le domande (non sempre facili) cui ho dovuto rispondere, ma mi rimane l’idea di un grande insegnante che aveva cura della formazione dei suoi studenti.

Una terza circostanza che ricordo è quella sempre di un incontro barese, in occasione del Cinquecentenario della Riforma, nel 2017. Invitato dal Consiglio Pastorale delle Chiese di Bari, Ricca, nel giro di pochi giorni, nonostante l’età, fece ben quattro discorsi ad un pubblico di tipo diverso. Di questi quello che mi ha impressionato di più è stato il dialogo con i ragazzi del mio liceo. Originariamente non era un evento programmato, ma proprio durante un incontro di aggiornamento con docenti di storia di scuola superiore, venne a lui in mente di voler parlare in una scuola. La sua passione per la Riforma e per il messaggio di ritorno alla Parola di Dio e ad una nuova libertà, appassionò diversi studenti del mio liceo e anche in questo caso devo ammettere l’efficacia del suo messaggio a giovani adolescenti che difficilmente (pur studiosi come possono essere quelli che frequentano un liceo classico) si appassionano a questioni riguardanti il cristianesimo.

Le ultime due volte in cui incontrato Ricca sono piuttosto recenti e hanno a che fare con due avvenimenti di quest’anno. Il primo è quello del Convegno GBU dedicato all’ateismo. In quel caso si decise di intervistare Ricca su una delle sue ultime pubblicazioni, il libro Dio. Apologia, uno dei testi più interessanti pubblicato da un teologo evangelico in Italia e dedicato proprio ad una dettagliata analisi dell’ateismo contemporaneo (soprattutto nella prima parte del testo). Io e Giacomo Carlo di Gaetano pensavamo di poter finire l’intervista in circa 30 minuti: il fiume di parole di Ricca ci ha portato a fare una trasmissione di più di un’ora, dove si può vedere tutta la passione dell’anziano teologo e che ancora oggi può essere rivista da ognuno di noi.

L’ultima volta che ho visto Ricca è stato qualche mese fa, il 25 maggio per l’esattezza, quando, di nuovo a Bari, era venuto per l’inaugurazione della Libreria Bonhoeffer, unica libreria evangelica presente sul territorio dove abito. Anche in questa circostanza la sua conferenza dedicata al teologo tedesco fu di grande spessore.

Una serie di incontri che mi hanno insegnato diverse cose sulla persona, oltre che sul teologo. In primo luogo, la profondità della sua fede. Si poteva non essere d’accordo con lui teologicamente, ma non si poteva non ammettere che fosse un uomo di grande fede che metteva la predicazione e l’annuncio del Vangelo al primo posto.

In secondo luogo, la capacità comunicativa. Ricca (e l’ho vissuto personalmente) era capace un pomeriggio di parlare agli studiosi, la mattina di parlare a degli studenti di Liceo, la sera alla cittadinanza e la domenica predicare al popolo di Dio. Tutto questo riuscendo sempre a trovare il tono e le parole giuste ed a riuscire a trovare un contatto con il pubblico con cui parlava.

In terzo luogo, il pensiero. Ricca nella sua fase pastorale e di insegnamento alla Facoltà, ha voluto essere soprattutto un insegnante, scrivendo realmente poco, ma curando la conoscenza del pensiero riformato in Italia (sua è la cura delle opere scelte di Lutero, che ha permesso a diversi italiani di conoscere meglio il fondatore della Riforma Protestante); una volta “ritiratosi” ha iniziato a scrivere degli argomenti che maggiormente lo appassionavano e, per questo, il lettore italiano può trovare pubblicate, prevalentemente da Claudiana, diversi suoi scritti che vanno da quelli più propriamente storici, a quelli di spessore teologico, a quelli esegetici (il suo ultimo libro pubblicato è dedicato al Vangelo di Marco) alle predicazioni, attività a cui non ha mai rinunciato e che mostra come, ancora oggi, dopo più di cinquecento anni, la predicazione della Parola, rivesta un ruolo fondamentale nel mondo evangelico.

Fondamentalmente barthiano nella sua impostazione teologica, Ricca è stato anche un campione del dialogo all’interno del cristianesimo. Essendo stato osservatore al Concilio Vaticano II, è entrato in un interessante dialogo con il mondo cattolico che lo ha rispettato e lo ha anche ascoltato in molte circostanze. E’ stato anche campione del dialogo con il mondo pentecostale, l’ala evangelica conservatrice più numerosa in Italia, con cui è riuscito a tenere un ottimo rapporto nonostante le divergenze teologiche.

La sua opera andrà valutata col tempo, come alcuni sostengono, ma sicuramente va detto che si tratta di uno dei pochi teologi evangelici italiani che hanno dato un contributo originale al pensiero teologico degli ultimi anni. Le sue opere andranno lette con attenzione e tutti noi nel mondo evangelico siamo a lui debitori di qualcosa e non dobbiamo dimenticare la sua capacità di saper parlare di Dio al nostro secolo, compito non sempre facile per noi e che Ricca ha saputo fare egregiamente.

 

                                                                                                                                                       Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’articolo L’uomo che sapeva parlare di Dio. Ricordo personale di Paolo Ricca. proviene da DiRS GBU.

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