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di Giacomo Carlo Di Gaetano
Questa affermazione potrebbe ben assurgere allo status di quaestio degna delle migliori dispute teologiche medievali. In effetti, da un punto di vista dogmatico, ci sarebbe molto da discutere, incrociando i dati della dottrina della creazione con il corredo di quali fossero le dotazioni della creatura umana a immagine di Dio che poi sono andate perse con la caduta nel peccato, con quelli della dottrina del peccato e dell’antropologia, su quale sia la portata epistemica del peccato. Se cioè in questi sia ricompreso anche il rifiuto di credere nell’esistenza di Dio (incredulità), postura riconducibile a un’interpretazione piana del termine ateismo.
Ma in queste righe non mi interessa tanto la posta in gioco teologica, anche se personalmente, a leggere Romani 1, una certa idea ce l’ho e propende verso il corno della negazione, vale a dire che non sembrerebbe contemplata nella condizione di depravazione totale, nella condizione di caduta nel peccato, la non credenza, la negazione dell’esistenza di Dio.
Ragion per cui si pone il problema della sua origine: da dove viene la negazione professata della non esistenza di Dio?
L’affermazione vuole semplicemente porre il problema in questi termini: l’ateo non inizia la sua riflessione sul mondo a partire dal presupposto che Dio non esiste. Affermazione questa che in qualche modo vuole passare al lato all’esperimento attribuito a Ugo Grozio o più in generale allo scetticismo del Seicento: etsi Deus non daretur.
«Dio non esiste» sarebbe al contrario la conclusione di un percorso di varia natura: logico–argomentativo, esistenziale, fenomenologico, razionalistico, psicologico, sociologico, scientifico, etc. La rilevazione di questo spostamento, dal presupposto alla conclusione, è probabile che non avvenga nell’arco della speculazione o dell’esistenza di un solo individuo, di un solo pensatore – sulla possibilità di commisurare esistenza e speculazione filosofica del singolo, si guardi allo scritto ebraico e biblico di Qoelet.
La rilevazione potrebbe avvenire nel considerare dei fenomeni che vadano oltre le singole biografie, che coinvolgano periodi storici o scansioni temporali e culturali (si pensi agli anni in cui era in voga il nuovo ateismo!).
Questa possibilità, vale a dire che l’affermazione «Dio non esiste» sia una conclusione e una meta del percorso della mente umana piuttosto che un presupposto o un punto di partenza, spiazza totalmente l’impresa apologetica e in particolare l’apologetica evangelica degli ultimi vent’anni. Questa, infatti, è stata incentrata molto sulla mossa di poter dimostrare, magari dialogando, argomentando, dibattendo che no, non bisogna partire dal presupposto che Dio non esiste, ma dal presupposto opposto, Dio esiste, e ci sono molte cose che lo dimostrerebbero. Addirittura, una vera e propria scuola apologetica si è intestata questa strategia, definendosi appunto, presupposizionalismo.
Ebbene, che cosa cambierebbe se, invece di considerare la posizione atea un punto di partenza, la considereremmo al contrario un punto di arrivo, a volte di vero e proprio approdo?
In primo luogo, avremmo un indizio sulla possibilità di costruire una eziologia dell’ateismo; e qui scopriremmo che molto spesso la posizione atea è seconda rispetto alle posizioni teistiche variamente articolate nel corso della millenaria avventura della teologia, ma anche filosofia, cristiana.
Scopriremmo anche che alcune posizioni atee sono, legittimamente, conclusioni raggiunte a partire da costruzioni dogmatiche che tanto dicono di Dio quanto si allontanano dall’esperienza diretta del divino e, in particolare, dall’esperienza del Dio della Bibbia.
In secondo luogo, si aprirebbe la possibilità di ripercorrere, con tanta umiltà da parte dell’apologeta, il percorso che ha condotto alla conclusione ateista. Che cosa voleva dire veramente Nietzsche, quando fa dire a Zaratustra che «Dio è morto»? Con chi ce l’aveva l’altro maestro del sospetto, collega del filosofo del nichilismo, quando affermava che la «religione è l’oppio dei popoli»? Possiamo far nostro l’avvertimento freudiano sulle tante illusioni che albergano il discorso religioso, incluso il gergo della teologia cristiana.
L’ontoteologia tanto aborrita da gran parte della filosofia contemporanea è veramente un frutto indigesto del lavoro della teologia cristiana che ci presenta un Dio davanti al quale non possiamo più rivolgere preghiere e, quindi, meglio da rimuovere come uno dei deliri della mentalità violenta del pensiero occidentale?
Ci vuole un grande bagno di umiltà per ascoltare la conclusione dell’ateo e poi chiedergli, va bene, le tue conclusioni appaiono corrette, ma vogliamo ripercorrere la strada insieme per vedere se il Dio della Bibbia coincida totalmente con il dio dell’ontoteologia? Se c’è ancora una differenza, una pascaliana differenza, tra il dio dei filosofi e il Dio di Abraamo, Isacco e Giacobbe?
Forse un aiuto in un simile rovesciamento di prospettiva può venirci dall’illuminante fatica di Paolo Ricca che nel suo Dio. Apologia (Claudiana 2022) ci fornisce un esempio, soprattutto nella prima parte, Dio nella modernità (pp. 31–151), in cui entra all’interno di molti percorsi ateisti della modernità tracciando bilanci e trovando inaspettate possibilità apologetiche.
Un libro sicuramente non esente da spunti su cui continuare a riflettere, soprattutto per il debito che paga a Karl Barth, pensatore non molto distante da quella corrente del presupposizionalismo a cui si faceva riferimento sopra, ma tuttavia un libro che dovrebbero leggere e meditare tutti coloro che hanno a che fare con gli studenti universitari nella speranza di condividere con loro Gesù da studente a studente.
Se poi non bastasse, allora non possiamo non segnalare che, proprio il tema dell’ateismo e del vivere con e insieme agli atei, è il tema del XVI Convegno di Studi GBU (7–10 dicembre 2023) «Vivere e confrontarsi con l’ateismo».
Raccogliamo la sfida: andiamo in cerca di coloro che, forse, un po’ anche per colpa nostra, pur non essendo nati atei, sono diventati tali!
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