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Andy Bannister

Solo perché un racconto utilizza gli stessi nomi e personaggi di un altro non significa automaticamente che le due storie siano collegate. Anzi, dobbiamo capire se questi elementi sono stati presi in prestito o se sono stati ereditati.

Per comprendere la differenza fra eredità e prestito consideriamo un esempio architettonico. Uno dei miei edifici preferiti è il duomo di York, probabilmente la più bella cattedrale d’Inghilterra. La sua storia è affascinante: la splendida chiesa normanna, poi cattedrale, fu costruita al di sopra di una chiesa sassone più antica; l’edificio medievale cresceva mentre la chiesa più antica fu ampliata e rimodernata. Sotto la chiesa sassone, però, c’è qualche cosa di ancora più antico: le rovine di un presidio militare romano. Se fate il tour della cripta, potete scendere attraverso strati di storia fino alle rovine romane nelle fondamenta.

C’è però una differenza sostanziale fra le rovine romane, sassoni e normanne. Nel suo processo di ampliamento, il duomo di York si è sviluppato organicamente dalle chiese più antiche, parallelamente al loro accrescimento e arricchimento. Che dire, però, delle rovine romane nella cripta? Certo, sono state utilizzate delle pietre romane, in quanto era agevole per le maestranze della chiesa sassone avere tonnellate di pietre squadrate sparse intorno e inutilizzate[1]. I Sassoni, però, usarono il materiale romano solo come mattoni da costruzione, non c’è nessuna continuità fra le rovine romane e la chiesa.

In altre parole, il duomo medievale di York ha preso in eredità dalle chiese normanna e sassone, mentre ha preso in prestito dal presidio romano, modificando la funzione delle pietre e gettandole senza troppe cerimonie nelle fondamenta della nuova costruzione.

Nel suo libro The Qur’an and Its Biblical Reflexes, Mark Durie propone un altro esempio che può aiutarci a comprendere la differenza fra eredità e prestito, stavolta preso dalla linguistica. Quando due lingue derivano da una fonte comune, condividono non soltanto delle parole ma anche delle strutture profondamente correlate. Consideriamo, per esempio, le parole per dire «topo» in inglese, islandese e tedesco[1]. In inglese il singolare è “mouse” e il plurale “mice”; in islandese è mus/mys e in tedesco Maus/Mause. Si noti come le forme singolare e plurale mostrino tutte lo stesso schema: una variazione vocalica interna. Questo tratto strutturale condiviso è indizio della derivazione di queste lingue da una fonte comune; hanno, cioè, una comune eredità.

Il prestito, al contrario, di solito è altamente distruttivo. Si pensi alla parola “juggernaut” [furia devastante, ndt], presa in prestito dalla lingua inglese dal sanscrito tramite l’Hindi. Originariamente era Jagannatha, nome sanscrito di una divinità indù il cui culto prevedeva di schiacciare i fedeli sotto le ruote di enormi carri. Quel contesto si era però totalmente perso quando l’inglese ha distruttivamente preso in prestito il termine.

Il Corano e la Bibbia: prestito o eredità?

Un lettore del Corano che abbia anche dimestichezza con la Bibbia noterà presto i frequenti riferimenti coranici a racconti e personaggi biblici. Fra i personaggi presenti nelle pagine del Corano[1] possiamo trovare Aaronne, Abraamo, Adamo, Davide, Elia, Eliseo, Esdra, Gabriele, Golia, Isacco, Ismaele, Giacobbe, Gesù, Giovanni, Giona, Giuseppe, Lot, Maria, Mosè, Noè, Faraone, Saul, Salomone e Zaccaria.

Oltre ai nomi compaiono anche idee e nozioni bibliche: di tutto, dal monoteismo all’adorazione, dall’idolatria al peccato, dalla legge alla Scrittura. Nulla di sorprendente se qualcuno, osservando questo fenomeno, ha concluso che il Corano deve essere un sequel della Bibbia e l’Islam il terzo atto dell’opera, dopo l’Ebraismo e il Cristianesimo. Queste idee e queste nozioni di provenienza biblica, però, sono per il Corano un’eredità o un prestito? Nella mia tesi, la teologia coranica non scaturisce organicamente dalla Bibbia; anzi, come le fondamenta romane del duomo di York, la parola “juggernaut” o la versione fantascientifica del Macbeth, il Corano ha fatto un ricorso massiccio e distruttivo al prestito, perdendo nel processo il contesto e il senso. Il risultato è una grande confusione, fra l’altro, su Dio, la sua natura e la sua identità. Come possiamo dimostrare la mia tesi secondo cui nel Corano non troviamo un’eredità ma un prestito? L’esempio per eccellenza per provarlo è Gesù.

 

…. Continua la lettura prenotando il libro di Bannister che sarà presentato al 17° Convegno Studi GBU: Cristiani e Musulmani adorano lo stesso Dio?, Edizioni GBU

 

[1] Molti dei quali con nomi arabizzati; per esempio, Aaronne è Harun, Elia è Elias e Giona è Yunus.

[1] Mark Durie, The Qur’an and Its Biblical Reflexes, op. cit., p. XL.

[1] «Guardate che cosa i Romani hanno fatto per noi!»

 

*Immagine di jeswin su Freepik

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Mancano ormai solo 14 giorni dall’inizio del IV incontro mondiale del Movimento di Losanna, fondato con lo scopo di riflettere sulla missione dell’annuncio del Vangelo di Cristo al mondo 50 anni fa, su ispirazione di due dei maggiori esponenti dell’evangelismo mondiale dell’epoca: John Stott e Billy Graham. 

In questi 50 anni il mondo in cui viviamo è profondamente cambiato ed anche la situazione del mondo evangelico. Sebbene, nelle sue varie componenti, il mondo cristiano rimanga la prima religione professata, è anche vero che ci sono delle zone di crisi paradossalmente proprio nel mondo occidentale. Se quando, nel 2010, alcuni di noi parteciparono al terzo incontro che si tenne a Città del Capo, il cristianesimo evangelico occidentale sembrava in crisi in Europa, ma non negli Stati Uniti, oggi anche la più importante nazione evangelica del mondo sta vivendo il suo momento di ripensamenti soprattutto se si guardano ai numeri di coloro che assiduamente frequentano una comunità o si definiscono cristiani. Rispetto a 14 anni fa molti sono anche i cambiamenti sociali: siamo nel mezzo di una rivoluzione digitale che, se era minimamente presente a Città del Capo, diviene di fondamentale importanza per quanto sta accadendo oggi.

Per prepararsi a questo incontro che si terrà nella Corea del Sud a Seul-Incheon, come sempre sarà inteso a riflettere su queste differenti situazioni e a cui parteciperanno circa 5000 delegati in presenza con diverse persone che invece potranno seguire i lavori online (questa già una prima grande differenza), il Movimento ha pubblicato un corposo documento che si intitola State of the Great Commission Report (Rapporto sulla situazione del Grande Mandato). Questo testo serve essenzialmente come lavoro preparatorio, ma anche come base per quello che deve essere fatto. E’ un documento di più di 500 pagine, scritto da molti autori (l’elenco è piuttosto lungo), montato con una grafica accattivante e con diverse info-grafiche in cui si ribadiscono alcune delle emergenze del Grande Mandato di Gesù di fare discepoli. Su questo testo e su alcuni dei suoi aspetti torneremo negli articoli che dedicheremo a questo evento.

L’introduzione analizza, da un punto di vista teologico, il significato della missione cristiana e, come già accaduto nei precedenti congressi, si sottolinea come ormai il cristianesimo sia sempre più globale ed coinvolga, con successo, continenti che sino a qualche decennio erano marginali (Sud America, Africa Subsahariana, una parte del continente asiatico). La proposta globale appare essere quella da una parte di mostrare come la missione sia un qualcosa di complesso che implica diversi aspetti della vita umana oltre quello meramente spirituale, dall’altra quella di cercare una lettura adeguata del mondo contemporaneo che appare sempre più complesso e stratificato, nonostante la globalizzazione che avrebbe dovuto avere come sua conseguenza una maggiore omogeneizzazione. Proprio per questo il documento presenta sia capitoli tematici che cercano di leggere il mondo nella sua complessità, sia capitolo divisi per aree geografiche, dove si individuano i maggiori problemi per la missione in una determinata regione del mondo. Vi è quindi attenzione sia alle tematiche globali che ai problemi che possono essere diversi a seconda del luogo in cui si vive e si agisce per la missione.

Il Congresso durerà un’intera settimana, dal 22 al 28 settembre; come per Città del Capo anche in questo caso, per sottolineare la centralità del testo biblico, ci saranno meditazioni e studi sul libro degli Atti che saranno fatti quotidianamente. L’organizzazione appare complessa ed ognuno dei delegati ha dovuto scegliere degli affinity groups in cui si affronteranno le tematiche ed i problemi che riguardano il mondo contemporaneo e dei gruppi di interesse dove si cerca di affrontare varie tecniche per “modernizzare” il discorso missionario (molto spazio è dato al mondo digitale ed alla cura del creato, due argomenti piuttosto caldi ed in cui il mondo evangelico non ha ancora saputo affrontare in modo adeguato). 

Due nuovi target interessanti sono poi i giovani e gli anziani. Il Movimento si rende conto che, negli ultimi anni, il processo di secolarizzazione ha colpito sempre più le fasce giovanili che soprattutto in Occidente vanno sempre meno in chiesa e si identificano sempre meno con il cristianesimo, coinvolgendo in questo tutte le sue varie componenti (cattolico, anglicano, evangelico, protestante storico). Gli anziani o il diventare tali (cosa che coinvolge in parte ormai anche il sottoscritto) è una nuova chiave della vita in Occidente (ma non solo, si pensi anche ad alcuni paesi dell’Estremo Oriente) e bisogna rapportarsi ad essa proprio se la missione, oltre che fermarsi al mero annuncio del Vangelo deve anche tenere conto dell’ambiente sociale in cui si sviluppa.

Come sempre la Delegazione italiana sarà relativamente piccola, composta, a quanto pare da 27 persone, abbastanza rappresentativa del variegato mondo evangelico, ma mai abbastanza. Sebbene ci siano dei criteri di selezione (40% per cento di donne, 40% di persone non a tempo pieno, una forte presenza di giovani leader sotto i 40 anni) non sempre è chiaro come siamo stati scelti. C’è chi ha fatto domanda autonomamente, chi è stato invitato, chi è stato recuperato all’ultimo momento. Sta di fatto che sarà una delegazione variegata, che non si conosce ancora del tutto tra di sé e che speriamo possa avere un congresso proficuo che possa dare dei frutti in seguito a beneficio di tutto il mondo evangelico italiano. Una novità, rispetto alle altre volte, è che saranno presenti anche dei volontari oltre che dei delegati, che coadiuveranno alla buona riuscita dell’evento.

Il problema della missione e di come si debba portare avanti, di quali siano le sfide del presente e del futuro sono un argomento importante soprattutto in un mondo come quello di oggi che è alle soglie del secondo quarto del XXI secolo che appare travagliato ed in cui il messaggio di “tutto il Vangelo” (per usare un’espressione cara al Movimento di Losanna) dovrebbe portare ristoro non solo agli individui ma all’intera società, cercando di portare un messaggio positivo e propositivo per il vivere bene in questo mondo nella speranza del ritorno di Cristo. Speriamo che Losanna IV, che celebrerà i 50 anni di questo movimento possa mostrare come una realtà variegata e molteplice come l’evangelismo mondiale possa diventare unitario nella testimonianza e nella fedeltà, tenendo conto anche delle diverse prospettive presenti e centrando l’attenzione sul messaggio del Vangelo e del bisogno che c’è per questo periodo. Ritorneremo durante il viaggio e dopo a parlare di questo evento mondiale che ci vede sicuramente protagonisti come credenti, ma anche forse marginali come Nazione, cosa che ci dovrebbe anche far riflettere.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’articolo Aspettando Losanna IV. Alcune riflessioni preliminari prima di partire per la Corea proviene da DiRS GBU.

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di Gerald R. McDermott
(questo articolo è tratto da un libro che Edizioni GBU si apprestano a pubblicare sul tema)

Il nuovo sionismo cristiano ha tre implicazioni per i teologi, quando riflettono sulla giustizia in relazione al conflitto israeliano–palestinese. In primo luogo, rimanda alla necessità, sia per gli Ebrei sia per gli Arabi, di «condividere la responsabilità dell’amarezza»[1]. Lo si può esprimere anche in un altro modo: su entrambi i versanti, serve umiltà. Con ragione gli Ebrei possono dire di avere legittimamente acquistato la terra dagli Arabi a cominciare dal XIX secolo, di avere trasformato enormi, aride distese in suolo produttivo e portato enormi vantaggi materiali alle popolazioni arabe. Dovrebbero però riconoscere che nelle guerre del 1948 e del 1967, una terra precedentemente posseduta e controllata da Arabi è passata in mani ebraiche. Gli Ebrei hanno buone ragioni per pensare che questi trasferimenti siano stati per la maggior parte portati avanti in modo corretto, tramite liberi scambi finanziari o a seguito di guerre iniziate dagli Arabi. Dovrebbero però anche ammettere che gli Arabi hanno perso la dignità e il possesso di molto. Gli Ebrei hanno vinto.

Gli Arabi devono riconoscere che se avevano dei diritti sulla terra prima delle guerre e del terrorismo, questi due tipi di tragedie hanno fatto loro perdere alcuni di questi diritti. Dico “alcuni” di questi diritti perché gli Arabi possiedono e controllano ancora gran parte della terra nell’Israele propriamente detto e l’Autorità palestinese controlla ancora tutta o quasi tutta la Cisgiordania. Hamas, un governo arabo, possiede e controlla tutta Gaza. Il passaggio di terre da una proprietà araba a una ebraica è avvenuto, per lo più, a causa di guerre incominciate e perse dagli Arabi. Altre terre sono state perse dagli Arabi a causa della recinzione (più comunemente nota come «il muro») costruita fra la Cisgiordania e alcune parti d’Israele. È stata costruita per bloccare gli attacchi terroristici provenienti dalla Cisgiordania aventi di mira i civili in Israele ed è in larga misura servita allo scopo.

A volte, quando i cristiani cercano di applicare la loro teologia a questioni legate alla giustizia in questo conflitto, lo fanno con più calore che luce. Ecco alcuni fatti poco noti, da cui però qualsiasi valutazione della disputa non dovrebbe prescindere.

  1. Durante la guerra del 1948, la Giordania invase la parte assegnata agli Arabi e la occupò, definendo quell’area la propria Cisgiordania. Per vent’anni, il mondo arabo non ha riconosciuto uno specifico popolo palestinese. Nel frattempo, la Giordania definì gli abitanti della Cisgiordania, Giordani, mentre la Siria li definì Siriani in quanto per secoli, sotto l’impero ottomano, la Palestina era stata considerata parte della Siria del sud.
  2. Dopo la guerra del 1948 vi fu uno scambio di rifugiati in Medio Oriente. Gli Ebrei persero almeno tante case quante ne persero gli Arabi. Mentre Israele assorbì quasi tutti gli 800.000 rifugiati ebrei fuggiti da territori arabi e musulmani dove avevano vissuto per secoli, se non millenni, le nazioni arabe rifiutarono di dare delle nuove case ai rifugiati arabi in arrivo (725.000) e decisero di tenerli in campi profughi da utilizzare come strumento propagandistico contro Israele.
  3. Nel trattato di pace con l’Egitto del 1978–1979, Israele ha restituito il 90% del territorio occupato, conquistato dopo la guerra dei sei giorni del 1967. Si trovava quasi tutto sul Sinai.
  4. Il “muro” ha reciso degli insediamenti palestinesi, danneggiato gli agricoltori palestinesi separandoli dalle loro piantagioni e dalle loro fattorie e in alcuni casi li ha ridotti in povertà. Lo stato ebraico ha assorbito più territorio. Al tempo stesso, però, il muro ha reciso più di 1.200 acri di territorio intorno a Gerusalemme, acquistato dagli Ebrei prima del 1948[2].
  5. La teologia musulmana contribuisce al conflitto, in quanto il Corano profetizza che gli Ebrei vivranno dispersi, poveri e miseri[3]. La prosperità d’Israele appare perciò ai devoti musulmani una contraddizione sconcertante come minimo, esecrabile nella peggiore delle ipotesi. Al tempo stesso, il Corano attesta che Dio ha dato la terra d’Israele agli Ebrei: «[Faraone] voleva scacciarli [gli Israeliti] dalla terra [d’Egitto], ma Noi [Allah] li facemmo annegare, lui e quelli che erano con lui. Dicemmo poi ai Figli di Israele: «Abitate la terra [la terra d’Israele]!». Quando si compì l’ultima promessa [la fine dei giorni], vi facemmo venire in massa eterogenea» (Corano, sura 17:103–104). Uno sceicco contemporaneo lo prende per quello che è: «Il Corano riconosce nella terra d’Israele l’eredità degli Ebrei e spiega che, prima del giudizio finale, gli Ebrei torneranno ad abitarvi. Questa profezia si è già adempiuta»[4].

Una terza implicazione del nuovo sionismo cristiano per la nostra comprensione di questo conflitto è che c’è una buona ragione per cui questo conflitto riguarda il mondo intero. La Bibbia lascia capire che il destino delle nazioni è legato a quello d’Israele[5].

In Isaia 19:23–25 le nazioni dell’Egitto e dell’Assiria sono benedette a causa d’Israele e Zaccaria 12 profetizza che Dio farà di Gerusalemme una «coppa di stordimento» per le nazioni circostanti. In altre parole, non soltanto Israele è un testimone per le nazioni (Is 43:10); Dio interagisce con le nazioni attraverso Israele. Nel loro relazionarsi con Israele, le nazioni, in qualche modo misterioso, vengono in contatto con il Dio d’Israele. Rispondono a Dio e sono da Dio giudicate in questa segreta relazione. Dobbiamo subito confessare che c’è molto che non sappiamo a questo proposito. Non significa certamente che Israele abbia sempre ragione o non sia mai stato ingiusto nel suo modo di rapportarsi con le altre nazioni. Neppure significa che la teologia cristiana debba sempre prendere le parti d’Israele contro le altre nazioni, specie quando Israele ha chiaramente torto. La Scrittura, però, chiarisce che Dio governa le nazioni; Israele, come popolo e come terra, rientra ancora nella sua provvidenza segreta, non soltanto quando Dio tratta con Ebrei e gentili sul piano individuale ma anche quando giudica le nazioni in quanto tali. Devono fare attenzione a non essere come gli amici di Giobbe, che mossero delle false accuse contro Giobbe e affrontarono l’ira di Dio.

[1] James Parkes, End of an Exile: Israel, the Jews and the Gentile World, a cura di Eugene B. Korn e Roberta Kalechofsky, Micah, Marblehead, Micah, 2004, p. 43.

[2] Israel Today (febbraio 2007), p. 11, citato in David W. Torrance, George Taylor, Israel God’s Servant: God’s Key to the Redemption of the World, Paternoster, Londra, 2007, p. 19.

[3] Per esempio, Corano, sura 2:61 (La giovenca): «E furono colpiti dall’abiezione e dalla miseria e subirono la collera di Allah» (il testo inglese è ripreso dalla versione del Corano conservatrice nota come Sahih International; per il testo italiano cfr. www.ilCorano.net, traduzione a cura di Hamza Roberto Piccardo, ndt).

[4] Sceicco Professor Abdul Hadi Palazzi, “What the Qur’an Really Says”, ristampato da Viewpoint, inverno 1998, www.templemount.org/quranland.html (ultimo accesso dell’autore: 8 luglio 2015; ultimo accesso del traduttore: 12 settembre 2022). Palazzi è il segretario generale dell’Assemblea musulmana italiana nonché califfo per l’Europa dell’ordine Qadiri Sufi [A mio parere gli autori si screditano, citando un personaggio come lui; farei una valutazione prima di mantenere questa citazione nell’edizione italiana. Cfr. https://latanadellupo.forumcommunity.net/?t=50885225].

[5] Torrance e Taylor, Israel God’s Servant, op, cit., pp. 28, 62.

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di Marcello Favareto

La lunga scia di attentati di matrice islamista in Europa nonché l’orrore del 7 Ottobre in Israele e la conseguente distruzione nella striscia di Gaza mantengono alta l’attenzione sulla presenza degli islamici di casa nostra e sul rapporto tra religione islamica e civiltà occidentale, sulla compatibilità degli insegnamenti del Corano con le società laiche occidentali.

Nel tempo, qua e là si sono registrate manifestazioni di musulmani con i cartelli “Not in my name”, forse segni di un ripensamento e per l’affermazione di un islam pacifico con la distinzione dai fondamentalisti violenti, dichiarati “sedicenti islamici” o addirittura “non islamici”.

Ci sono enormi, forse insormontabili difficoltà in questa operazione. Gli studiosi (Colin Chapman, p. 60) distinguono in proposito tra un Islam popolare, un Islam liberale e modernista e un Islam tradizionalista e ortodosso. Tuttavia nel decidere, ammesso che lo si possa fare, quale sia l’Islam con il quale preferiremmo interagire vorrei fare qualche considerazione che riguarda anche il cristianesimo.

 

Guerra santa e/o convivenza pacifica

Il primo punto che dobbiamo dirimere è l’alternativa tra guerra santa e/o convivenza pacifica. È possibile una riforma dell’Islam che vada nella direzione della seconda alternativa? È possibile leggere il Corano in maniera diversa da come è stato interpretato e applicato finora? Come si possono conciliare la jihad con un islam pacifico?

Ho deciso di rendermene conto direttamente e mi sono letto tutto il Corano, con un’attenzione particolare all’atteggiamento che i fedeli devono avere verso gli infedeli.

Ecco alcune Sure che parlano esplicitamente di questo.

 

Guerra santa

Sura II

190-193 “Combattete i vostri nemici nella via di Dio e non uscite mai da essa. Sappiate che Egli non ama chi esce dal Retto Sentiero. Uccideteli ovunque li incontrate e cacciateli via da dove essi hanno cacciato voi: subire passivamente una persecuzione è cosa peggiore dell’incontrare la morte. Ma evitate di ucciderli vicino alla Santa Casa, salvo che non siano essi i primi ad attaccarvi. In questo caso vi è lecito ucciderli e la morte sarà la ricompensa della loro iniquità. Se però i vostri nemici depongono le armi, allora anche voi deponetele e perdonate loro. Dio, infatti, è il Clemente e il Misericordioso! Combattete sino a che i Credenti non saranno più perseguitati e la sola religione sarà quella di Dio. Da quel momento i vostri nemici saranno i miscredenti e gli iniqui.”

Sura III

127-128 “Il vostro Signore vi renderà vittoriosi e ciò per uccidere ed umiliare i miscredenti, i quali saranno così i perdenti in questa e nell’altra vita . Lascia, Mohammad, che Dio accetti il loro pentimento o che li punisca, a Suo piacimento. In verità essi sono degli empi e degli iniqui!”

Sura IV

89 “I miscredenti vorrebbero che foste come loro, ma voi non scegliete fra di essi i vostri amici a meno che non abbiano riconosciuto la loro colpa e fatto ritorno sul Retto Sentiero. Ma se dovessero ritornare nella loro precedente condizione, allora vi è lecito prenderli ed ucciderli, ovunque si trovino.”

 

Ma subito dopo è scritto anche:
90-91 “Tra i miscredenti abbiate ad amici o a protettori solo quelli che appartengono a gente con cui esiste un patto di alleanza …. Se il vostro Signore avesse voluto, essi avrebbero prevalso su di voi, per cui se restano neutrali, non vi combattono o vi offrono la pace, non è lecito che voi li combattiate e, se lo farete, la vostra lotta non sarà sulla Via di Dio. Troverete altra gente che vorrà vivere in pace con voi, ma che coglierà in seguito ogni occasione per nuocervi. Accettate di buon grado la loro pace, ma se accadrà che essi non osservino le promesse e vi attacchino, allora combatteteli ed uccideteli, ovunque li troviate. Dio vi rende lecito un simile comportamento!”
93 “Ma per chi uccide intenzionalmente un Credente la punizione sarà il fuoco dell’Inferno ed in quel luogo troverà la sua eterna dimora.”

 

Sura IX
5 “O voi che credete! Osservate il patto concluso con gli idolatri, ma, allo spirare dei mesi sacri, combatteteli, ovunque li troviate. Non date loro tregua ed uccidete quanti di essi cadranno nelle vostre mani. Ma se quella gente si pentirà, crederà in Dio e nel giorno del Giudizio, osserverà la preghiera e pagherà la Tassa, allora cessate di combatterla. In verità Dio è il Clemente ed il Misericordioso!”

Sura XXXIII
60-62 “Se gli ipocriti, i miscredenti ed i sediziosi di Medina non cesseranno le loro provocazioni, ti sia lecito, Mohammad, muovere contro quella gente ed infliggere ad essi la giusta punizione. Essi sono dei Maledetti da Dio, per cui debbono essere uccisi dai Credenti allo stesso modo che, in passato, fu fatto – per Ordine Suo – nei confronti di altri negatori.”

Sura LIX
2 “E’ Lui che, chiamando alla Guerra Santa i Credenti, ha cacciato dalle loro dimore quanti, tra la Gente del Libro, rifiutarono di credere alle tue parole, Mohammad.”

Sura CX
1-2 “O Inviato! Quando, coll’aiuto di Dio, voi otterrete il desiderato trionfo sugli idolatri, allora tutti entreranno nella nostra religione.”

Mi sembra che i versetti siano, purtroppo, piuttosto espliciti.

 

Convivenza pacifica

Però, per rispetto della verità, dobbiamo anche riconoscere che coloro che difendono l’islam pacifico e rifiutano il terrorismo non raccontano frottole e fanno riferimento ad altri versetti. Tra i più noti possiamo ricordare:

Sura II
62 “In verità, coloro che, Ebrei, Cristiani e Sabei, credono in Dio e nel Giorno del Giudizio e compiono le buone opere, avranno la ricompensa presso il loro Signore. Essi nulla avranno da temere da lui e non vivranno nella tristezza.”

256 “Non vi dà alcuna costrizione nella Fede, poiché il Retto Sentiero si distingue da solo dal Sentiero dell’Errore. …”

Questo versetto viene spesso citato (v. anche ciò che ha scritto il filosofo francese nel testo precedente) ed enfatizzato più di quanto non sembri nel suo contesto.

Sura III
3-4 “Egli ha fatto scendere su di te, Mohammad, il Libro di Verità, a conferma delle precedenti Rivelazioni. Egli è colui che ha fatto scendere la Torah e il Vangelo,  affinché quei Libri fossero guida per i Credenti. …”

20 “… Dì poi alla gente del Libro ed agli idolatri: “Volete voi abbracciare l’Islam?” Se lo faranno, i loro passi percorreranno il Retto Sentiero, ma se rifiuteranno di farlo, tu lasciali al loro destino. Tuo compito è solo quello di mostrare i Segni di Dio a chi è in grado di coglierli. Il tuo Signore osserva ogni azione umana.”

64 “Dì, Mohammad, alla Gente del Libro: “Cerchiamo di trovare una soluzione che ci accomuni. Noi adoriamo un Unico Dio e non abbiamo altro Dio all’infuori di Lui.”

113-115 “Non tutta la Gente del Libro appartiene al numero dei miscredenti. Nel suo seno vi è infatti una comunità di Credenti che prega continuamente il suo Signore, prosternandosi in adorazione nelle ore della notte.  Essi credono in Dio e nel giorno del Giudizio, amano la Verità, rifuggono dall’Errore e compiono le buone opere. Essi sono Virtuosi e Timorati di Dio.  Il vostro Signore li ricompenserà, poiché Egli premia chi fa la Sua Volontà e Gli si mostra ubbidiente.”

 

Sura V

13-14 “In seguito gli Ebrei violarono questo patto e Noi li maledicemmo, indurendo i loro cuori. Fu così che essi falsarono il significato delle parole del loro Libro, giungendo fino a dimenticarne una parte: solo un piccolo numero evitò una simile miscredenza. Sii dunque benevolo, Mohammad, verso questi Credenti, perché Dio ama chi crede in Lui.

Noi stringemmo pure un Patto di Alleanza con i Cristiani, ma anche essi hanno dimenticato una parte del loro libro. Per punirli di ciò Dio ha fatto sorgere tra di essi le divisioni e l’odio perdurerà nel loro seno sino al Giorno del Giudizio.”

Ironia della sorte Maometto non poteva sapere quale drammatica divisione sarebbe emersa pochi anni dopo la sua morte tra i suoi seguaci: ancora oggi Sunniti e Shiiti si odiano profondamente.

32 “Fu a causa di questo delitto [Caino] che Noi dicemmo ai figli di Israele che l’uccisione di un essere umano, salvo il caso di un errore o di una disgrazia, sarebbe stato da noi considerato come un delitto contro l’intera umanità.”

Questo è il versetto che viene spesso citato quando si vuole dimostrare che l’islam è pacifico e che il Corano condanna quindi gli attentati e gli assassinii.

46-48 “Noi mandammo Gesù, Figlio di Maria, a confermare il Libro che già avevamo loro dato. Demmo a lui il Vangelo, in cui vi sono Luce e Guida, affinché i Virtuosi lo seguissero e credessero nelle sue parole.
Giudichino perciò i Cristiani secondo il Vangelo, poiché solo i miscredenti e gli iniqui prescindono dalla Parola di Dio nel dare i loro giudizi.
E su di te, Mohammad, facemmo scendere il Libro di Verità, a conferma delle Rivelazioni da Noi fatte agli Inviati che ti hanno preceduto. Giudica dunque Ebrei e Cristiani alla luce del Libro e le passioni non offuscheranno il tuo giudizio. In verità, Dio ha assegnato ad ognuno una via da seguire, mentre, se avesse voluto, Egli avrebbe fatto degli uomini una sola comunità con una sola Fede. Ma ciò non è , perché Dio vuole mettervi alla prova. Gareggiate dunque nel compiere buone opere, e nel Giorno del Giudizio tutti sarete radunati davanti a Lui. In quel giorno conoscerete da Dio le cose che vi hanno tenuti divisi su questa terra.”

 

65-66 “In verità, quanti tra la Gente del Libro crederanno ed agiranno da Virtuosi, avranno il perdono del loro Signore e saranno da Lui accolti nel Suo Paradiso.
In verità, se essi metteranno in pratica la Torah ed il Vangelo e quanto Dio ha rivelato loro, i Cieli e la Terra saranno benevoli verso di loro. Fra la Gente del Libro vi è chi è Credente, ma la maggior parte non crede e non compie le buone opere!”

E ancora una piccola chicca, sorprendente rispetto all’immagine dell’islam che riceviamo oggi.

82 “Tu troverai negli Ebrei e negli Idolatri i più accaniti nemici dei Credenti, mentre tra i Cristiani troverai i più sicuri amici. Questo avviene in quanto tra i Cristiani vi sono sacerdoti e monaci che servono Dio in umiltà e la superbia non regna tra chi segue Gesù, Figlio di Maria.”

Non pretendo certo di interpretare il Corano e non basta leggerlo una volta per capire l’islam. Maometto ricevette le “rivelazioni” nel corso di tre anni ma non scrisse mai nulla. I suoi seguaci imparavano a memoria i versetti pronunciati da Maometto e li scrivevano poi sui più svariati supporti. Fu Uthman, terzo Califfo, dopo la morte di Maometto, a raccogliere tutti i testi in un corpo unico di cui fece fare 4 copie e fece distruggere tutti i testi parziali precedenti.

Data la struttura della scrittura araba (senza consonanti) esistono ben 14 letture diverse del testo, prodotte dal 650 all’850 d.C. Inoltre il testo non ha una sua organizzazione logica o cronologica: le sure sono disposte per ordine di lunghezza, dalla più lunga alla più breve. Si sa soltanto quali sono state rivelate prima dell’esilio (meccane) e quali dopo (medinesi).

Cosa possiamo concludere? Come si possono conciliare versetti così contrastanti? Da come stanno le cose non sembra che i musulmani ci siano finora riusciti: o si sceglie la pace o si sceglie la guerra.

Ma come è fattibile una cosa di questo genere se il Corano originale è in Paradiso, non si può toccare e la sua interpretazione è stata congelata nel 14° secolo?

 

 Ma anche la Bibbia…

Una obiezione che si sente fare spesso da parte dei musulmani è: ma anche voi, Ebrei e Cristiani, avete nella Bibbia istruzioni a uccidere, a sterminare i nemici ecc.! In parte dobbiamo ammettere che è vero anche se ci sono differenze non trascurabili.

La prima è certamente il fatto che gli Israeliti nella fase della conquista di Canaan combattevano per un territorio: p.es. Deuteronomio 2:31-32 e 34 Mosè racconta come gli fosse stato rifiutato dal re locale il passaggio nel paese degli Amorrei: “E l’Eterno mi disse: Vedi, ho principiato a dare in tuo potere Sihon e il suo paese; comincia la conquista, impadronendoti del suo paese. Allora Sihon uscì contro a noi con tutta la sua gente per darci battaglia a Jahats. … E in quel tempo prendemmo tutte le sue città e votammo allo sterminio ogni città, uomini, donne, bambini; non vi lasciammo anima viva.

Ma, finito quel periodo, gli Ebrei non avevano particolari mire espansionistiche e, soprattutto, non miravano a convertire gli altri popoli al Dio d’Abramo. Le loro battaglie non erano contro gli infedeli in quanto tali. Non erano guerre di religione. E noi possiamo leggere oggi quegli ordini come parte di fatti storici che rientrano nella cultura dell’epoca e siamo ben lontani dal pensare che dovremmo fare così anche noi nel nostro tempo. Nella Bibbia i passaggi violenti sono descrittivi, mentre nel Corano sono prescrittivi.

Però… purtroppo, non è sempre così…
Deut. 13.6-8 “Se il tuo fratello,… o il tuo figliuolo… ti inciterà in segreto, dicendo: andiamo, serviamo ad altri dei … tu non acconsentire, tu non gli dar retta; l’occhio tuo non abbia pietà per lui; non lo risparmiare, non lo ricettare; anzi uccidilo senz’altro; la tua mano sia la prima a levarsi su lui, per metterlo a morte…

E questo ricorda uno dei versetti del Corano che abbiamo visto…

Num 15.30 “Ma la persona che agisce con proposito deliberato, sia nativo del paese o straniero, e oltraggia l’Eterno; quella persona sarà sterminata di fra il suo popolo. Siccome ha sprezzato la parola dell’Eterno e ha violato il suo comandamento, quella persona dovrà essere sterminata; porterà il peso della sua iniquità.

Non ricorda da vicino la legge contro la blasfemia, applicata nei paesi islamici? E non possiamo dimenticare che Gesù fu condannato a morte dal sinedrio, proprio con l’accusa di bestemmia per essersi dichiarato il Cristo, il figliuol di Dio! Oppure possiamo citare un Salmo splendido come il 139 che trova inseriti questi versetti (21,22): “O Eterno, non odio io quelli che t’odiano? E non aborro io quelli che si levano contro di te? Io li odio di un odio perfetto; li tengo per miei nemici.” O, ancora, il Sl 137.8-9 “O figliuola di Babilonia, che devi essere distrutta, beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto! Beato chi piglierà i tuoi piccoli bambini e li sbatterà contro la roccia!

Terribile. Anche se non sono ordini a fare cose del genere, comunque sembra indubbio che esse vengono approvate, e ci lasciano con la pelle d’oca.
Nel leggere questi testi, anche se ci sentiamo un po’ a disagio, dobbiamo anche dire che non ci sentiamo realmente coinvolti da essi.
Perché? Perché non pensiamo che riguardano anche noi, che sono regole che anche noi dobbiamo seguire? Perché non ci toccano?

 

Perché non ci toccano?

Non so come gli ebrei, dalla diaspora in poi, abbiano elaborato questi testi ed abbiano resi innocui o non applicabili gli ordini della Legge che prescrivevano la condanna a morte, o altre punizioni violente.
Ma, per i cristiani, per me come cristiano, trovo una sola spiegazione: perché fra allora e oggi, fra loro e noi, è passato Gesù.
È lui che ha detto più volte: “Voi avete udito che fu detto agli antichi… Ma io vi dico…” E in particolare possiamo ricordare in Mt 5.43 “Voi avete udito che fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figliuoli del Padre vostro che è nei cieli; poiché Egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.”

È lui:

  • che ha lasciato mangiare con le mani non lavate,
  • che ha detto che si può mangiare di tutto,
  • che ha affermato che il Sabato è per l’uomo e non l’uomo per il Sabato,
  • che ha completato e riassunto la legge ed i profeti nei due comandamenti “Ama il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua e con tutta la mente tua” e “Ama il tuo prossimo come te stesso”
  • che ha reso il suo messaggio universale dicendo alla Samaritana “l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità, perché tali sono gli adoratori che il Padre richiede. Iddio è spirito; e quelli che l’adorano bisogna che l’adorino in spirito e verità.”

 

Quindi non sul monte dei Samaritani, non nel tempio di Gerusalemme e nemmeno alla Mecca è necessario adorare il Signore.
Ecco, secondo me, il problema della riforma dell’islam sta proprio qui: avrebbero bisogno di un nuovo profeta, di uno come Gesù che possa correggere e completare il messaggio di Maometto. Ma Maometto è nato 600 anni dopo Gesù e, mentre ha pescato abbondantemente dall’Antico Testamento, non ha preso niente dal Nuovo.

Ora mi sembra difficile che appaia un nuovo profeta… quindi come uomo, cittadino di questo mondo, spero sinceramente, per il bene di tutti, che questa riforma, questa rivoluzione, questa liberazione da una ideologia soffocante e sacralizzata, come la definì il Presidente egiziano al Sisi in una prolusione all’Università Al–Azar a Il Cairo, il 28 dicembre 2014, possa realizzarsi, e presto.

Tutto a posto per noi?
Potremmo chiudere il discorso a questo punto. Tutti contenti perché la risposta ai problemi che abbiamo considerato sta in Cristo, nell’essere suoi seguaci. Ma saremmo dei disonesti se non ci chiedessimo se nel corso di duemila anni i cristiani abbiano dimostrato di essere indenni dal pericolo dell’odio in nome di Dio. E la risposta, purtroppo, sappiamo che è: NO, non ne siamo stati indenni.

Non è il caso di rifare la storia delle persecuzioni esercitate da cristiani nei confronti di altri esseri umani, cristiani o meno che fossero. Sembra banale e ovvio ricordare le stragi dei Catari, dei Dolciniani, piuttosto che degli Ugonotti o dei Valdesi, qui a casa nostra, che hanno riacquistato i diritti civili soltanto con lo Statuto Albertino del 1848. Quando si dice Inquisizione si dice tutto. Gli esempi che ho citato riguardano il mondo cattolico, ma anche i protestanti non si sono fatti mancare questi piaceri. Uno per tutti, possiamo citare il caso Michele Serveto, arrestato a Ginevra e poi condannato al rogo il 27 Ottobre 1553. Sebastien Castellion scrisse all’epoca: “Uccidere un uomo per difendere un’idea significa solo uccidere un uomo”.

Questa è la storia…

Conclusione
Alcuni nuovi atei hanno scritto libri per affermare che sono le religioni, che è l’idea stessa di Dio ad alimentare questo tipo di violenza. Dovrebbero allora dirci da quale Dio sono stati ispirati i lager nazisti, o i gulag sovietici, piuttosto che gli omicidi di Pol-Pot o, più modestamente, gli attentati delle nostrane Brigate Rosse o Nere.

No. Il problema è più profondo e universale, è dentro di noi, dentro ogni uomo. Potete anche chiamarlo peccato e si è manifestato già in Caino.
La tentazione di far valere le proprie idee con la forza è quasi irresistibile per l’uomo. Ed è indescrivibile l’euforia che può provare l’uomo quando è convinto di difendere Dio con le proprie azioni (come se Dio ne avesse bisogno…).

Ed era ovviamente così già ai tempi di Gesù.

In Luca 9:51 leggiamo: “Poi, come si avvicinava il tempo della sua assunzione, Gesù si mise risolutamente in via per andar a Gerusalemme. E mandò davanti a sé dei messi, i quali, partitisi, entrarono in un villaggio dei Samaritani per preparargli alloggio. Ma quelli non lo ricevettero perché era diretto a Gerusalemme. Veduto ciò, i suoi discepoli Giacomo e Giovanni, dissero: Signore, vuoi tu che diciamo che scenda fuoco dal cielo e li consumi? Ma egli, rivoltosi, li sgridò.”

E in Marco 9:40 “Giovanni gli disse: Maestro, noi abbiamo veduto uno che cacciava demoni nel nome tuo, il quale non ci seguita; e glielo abbiamo vietato perché non ci seguitava. Ma Gesù disse: Non glielo vietate, poiché non v’è alcuno che faccia qualche opera potente nel mio nome, e che subito dopo possa dir male di me. Poiché chi non è contro a noi, è per noi.”

E in Matteo 26.50 Gesù è nel Getsemane e sta per essere preso: “Allora accostatisi, gli misero le mani addosso, e lo presero. Ed ecco, uno di coloro che erano con lui, stesa la mano alla spada, la sfoderò; e percosso il servitore del sommo sacerdote, gli spiccò l’orecchio. Allora Gesù gli disse: riponi la spada al suo posto, perché tutti quelli che prendon la spada, periscono per la spada. Credi tu forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in quest’istante più di dodici legioni di angeli?”

Ecco i tre classici casi: distruzione di chi non vuole il nostro Dio, rifiuto di chi non sta col nostro gruppo, uso della forza per difendere Dio, che, invece, non ha proprio bisogno di noi.

Ma la lezione di Gesù è inequivocabile. Quindi?

La nostra responsabilità è tornare sistematicamente a confrontare i nostri atteggiamenti, i nostri comportamenti, i nostri pensieri con l’insegnamento che Gesù ci ha dato. La storia ce lo insegna e ce lo chiede.
E speriamo, preghiamo, che anche i musulmani, che cercano consapevolmente o inconsapevolmente un riformatore, lo possano trovare in Cristo, indagando nel Vangelo di cui Maometto ha pur parlato così bene. Questo potrebbe essere l’atteggiamento da tenere nei loro confronti: invitarli a leggere le parole di Gesù, che Maometto, pur non citandole, non rifiuta.

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Vivere e confrontarsi con l’Islam

Bisogna decidere da dove partire. Il confronto con il “mondo islamico” (già questa sembrerebbe una scelta intepretativa – mondo islamico?) è una sorta di rompicapo.
Prima di tutto la cronaca che ci restituisce indizi molto eloquenti relativi a un conflitto senza quartieri tra il “mondo” cristiano e il “mondo” islamico (anche qui una interpretazione: che cosa significa “mondo” cristiano?).

In tutti i modi, la presenza strisciante del terrorismo, ormai non più declinato secondo le logiche delle organizzazioni globali modello spectre di 007, da Al Qaeda all’Isis, passando per lo stato islamico, ma un terrorismo che segue in maniera quesi ineluttabile i flussi migratori e il succedersi delle generazioni di immigrati che mal si integrano in Occidente (vedi rivolte in Gran Bretagna), ebbene questi indizi quasi ci impongono di partire da questioni di storia e di geo-politica.

Poi c’è l’aura un po’ esotica del tema; ma è prooprio una priorità impegnare la chiesa in interrogativi concernenti una fede che non sempre è a contatto con le chiese, in quanto spesso si rifugia in enclave etniche? Nei suoi confronti basterebbe una buona dose di politica da “riserva indiana” affinché tutti stiano buoni e noi si possa pensare al nostro mandato evangelistico che ha a che fare tradizionalmente con le estremità della terra (come se lì i musulmani non ci fossero) e più recentemente con una riconquista delle terre d’Europa, contro il secolarismo.

L’Islam lasciamolo o ai teorici del pluraismo religioso, predicatori astrusi di un mondo inesistente in cui tutte le strade porterebbero a Dio. Per niente proprio, vi risponderebbe un fedele musulmano e uno “cristiano”. Oppure lasciamolo a quei missionari-predicatori “arrabbiati” che, vedendo quello che gli altri non vedono, gridano al lupo al lupo dove il lupo sarebbe il rischio per tutti noi di diventare muslmani. Un po’ come l’apporccio identitario al cattolicesimo (ARC) per il quale rischiamo di diventare tutti cattolici e seguaci di Bergoglio … per la simpatia che suscita.

E poi c’è sempre la politica. Il tema dell’Islam può essere lasciato alla politica, sia essa di destra (prima gli italiani e attenzione alla sostituzione etnica e amenità del genere) sia essa di sinistra (multicolore è bello, è indice di una superiorità etnica e sociale).

Rinunciare al confronto con l’Islam o paralizzarsi a causa del rompicapo iniziale è un po’ come riscrivere il Grande Mandato di Gesù (Matteo 28) cancellando il passaggio da Samaria: mi sarete testimoni a Gerusalemme e poi alle estremità della terra. Ebrei (ma sfido a pensare alla testmonianza agli Ebrei in termini meno problematici di quella ai musulmani) e secolaristi, cioè quelli che ci assomigliano di meno e sono più distanti da noi quanto a regimi di credenze ben delineati.

Ma il mondo è una vasta distesa di chiaroscuri, di grigi. C’è un mondo che ci assomiglia pur essendo radicalmente diverso da noi. La categoria del “samaritano” nella Bibbia serve proprio a questo, a ricordarci che nella missione incontriamo dei nostri alter ego che ci obbligano a uno sforzo di penetrazione e di comprensione di che cosa crede l’altro (la donna samaritana) e di revisione della nostra identità (la parabola del buon samaritano).

L’Islam come una gigantesca Samaria onnipresente in tutto il mondo.

Colin Chapman studioso anglosassone che ha speso la vita a insegnare materie islamiche tra l’Inghilterra e il Medio Oriente, nel suo famoso libro dedicato al rapporto tra la croce e la mezzaluna (IVP, 2007) suggerisce che il primo passo da fare nel confornto con l’Islam e “avvicnarsi al musulmano, come nostro prossimo”. Prima ancora di capire l’Islam, prima ancora di discutere con i musulmani, di affronatare i temi di fondo o presentare loro il vangelo, è fondamentale:

– incontrarli faccia a faccia
– apprezzare la cultura islamica
– avere consapevolezza dei nostri pregiudizi.

“Ciao come stai”! Questa fu la risposta che il professore di studi islamici diede a uno studente che, durante il corso sull’Islam, gli chiese proprio: come devo approcciarmi a un musulmano? Salutandolo con un caloroso “Ciao come stai?” Fu la risposta del professore! Avviciniamo degli esseri umani prima che dei portatori di credenze. E il cristianesimo è l’unica visione del mondo che chiede ai suoi seguaci di incontrare l’altro sull’unico piano possibile, quello della sua umanità, indipendentemente dalle sue convinzioni. Poi ci sono altre cose e tra di esse mi stupice come Chapman insista sull’assunzione dell’iniziativa, per esempio nell’area dell’ospitalità: invitarsi e andare da loro e molto meglio che invitare loro (sic!).

Un altro step in questo incontro tra esseri umani è naturalmente quello di comprendere dove è l’altro. Sembra che la curiosità, quanto meno come prima mossa, stia in capo ai cristiani. Il cristianesimo una fede curiosa? Si scopre allora che per i musumani la famiglia, l’onore, l’educazione e l’onnipresenza di Dio nella vita siano pilastri di qualsiasi configurazione geo-culturale, dalle Filippine, alla Turchia, dai Paesi del Golfo alle enclave islamiche nel nord Europa.

Infine ci sono i nostri atteggiamenti. Stiamo parlando di un ipotetico primo passo nel “vivere e confrontarsi con l’Islam”, come suggeritoci da Colin Chapman.
Prima però di accennarvi, è bene sottolineare che questa iniziativa (vai a casa loro, chiedigli delle feste del loro calendario, scopri i loro valori) è relativa allo scambio “umano” cioè tra esseri umani che si riconoscono come tali.
Un po’ complicato attuare questa curiosità nei pressi dei tunnel di Gaza, e sotto le attuali macerie della Striscia. Ma sarebbe quasi impossibile anche per un gay dichiarato approcciarsi a un evangelico o cattolico conservatore, per gli stessi rischi che corre.
Quando si discute di queste cose c’è sempre una riserva da avere presente, una riserva che concerne la possibilità o meno di incontrarsi sul piano più propriamente umano. Non è sempre scontato. E sembra di ascoltare quei secolaristi che ci sussurrano: è chiaro, pensateci un po? Che le religioni ci facciamo meno che umani?

In tutti i modi, ecco alcuni dei nostri pregiudizi sull’Islam, secondo Colin Chapman.

I musulmani perseguitano i cristiani!
L’Islam appare come una religione di violenza!
L’Islam vuole dominare il mondo
Se il cristianesimo è vero, all’ora l’Islam è falso
E’ impossibile convertire un musulmano e noi non dovremmo neanche provarci!
I musulmani sono ottusi e arroganti!

Sarà vero? Può darsi di sì; può darsi di no.

Per il momento, anche solo a livello iniziale, hai tanti buoni motivi per partecipare al

XVII Convegno studi GBU: Vivere e confrontarsi con l’Islam!

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di Vinoth Ramachandra

(Tratto dal libro Il riso di Sara, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU)

Fin dai suoi inizi, la chiesa occidentale ha usato il salterio quale proprio innario. Agostino, Lutero e Calvino hanno scritto dettagliati commentari sui Salmi, compresi quelli di lamento. L’opera più lunga di Agostino è il suo Enarrationes in Psalmos, una raccolta di sermoni sui Salmi in cui sollecitava le comunità cristiane a fare proprie le parole di lamento dei salmisti: «Se il Salmo è una preghiera, pregate; se è un lamento, lamentatevi»[1]. I Salmi penitenziali di Lutero (1517) sono stati la sua prima opera originale a essere pubblicata e il primo libro pubblicato nelle colonie americane fu il Bay Psalm Book, nel 1640. Dietrich Bonhoeffer, pastore e martire tedesco, apprezzava i Salmi; per lui erano la principale forma di preghiera, sia individuale sia comunitaria. In una lettera ai genitori dalla cella in cui era prigioniero, scrisse: «Leggo i Salmi ogni giorno, come faccio da anni; li conosco e li amo più di qualsiasi altro libro»[2].

La sostanziale scomparsa del lamento dalle predicazioni, dalle preghiere e dalle liturgie comunitarie nelle chiese asiatiche, in una pedissequa imitazione degli stili d’adorazione delle opulente chiese occidentali, è oggetto di grave preoccupazione, se non altro perché incoraggia la disonestà nelle nostre relazioni con Dio e fra di noi. Dire alle madri che hanno perso i loro figli di non piangere perché «Dio ha il controllo» o che «Dio sta insegnando loro qualche cosa attraverso la sofferenza» non è solo pastoralmente dannoso ma teologicamente inesatto. Non soltanto viviamo in società dilaniate da rivalità etniche e religiose e provate da severi eventi climatici, crescenti disparità economiche e politici corrotti. Molti, nelle nostre comunità, schiacciati da queste realtà sociali non meno che dagli abusi domestici, sono tormentati dai dubbi sull’affidabilità delle promesse di Dio contenute nella Scrittura o sulla rilevanza del vangelo per i contesti culturali da loro abitati e lottano con preghiere inesaudite e con il silenzio di Dio di fronte ai loro traumi più profondi. Costoro non hanno un vocabolario con cui dare voce al loro dolore, perché nelle loro chiese la tradizione biblica del lamento è stata ignorata. Come rilevato dal pastore e teologo di Singapore Gordon Wong, «le nostre chiese enfatizzano la preghiera e la lode a Dio. Quasi sempre, però, pensiamo che le sole preghiere accettabili a Dio siano parole di lode e ringraziamento»[3]. Nulla di strano, allora, se tanti giovani sensibili e riflessivi scelgono di “ritirarsi” dalla chiesa, dove non ci si cura dei loro onesti dubbi e delle loro lotte.

Nancy Lee racconta la storia di un giovane cristiano traumatizzato dalla guerra, esperienza fin troppo comune, ovunque abbiamo la ventura di vivere.

 

«Nel 1996 ho abitato in Croazia; subito dopo la fine delle varie guerre ho percorso gran parte della Bosnia grazie a una borsa di studio Fulbright[4]. La gente lottava con i traumi della devastazione della guerra. Era normale imbattermi in esempi di straordinaria fede e coraggio a fronte di atrocità e orrori inenarrabili. Un giovane impegnato nel ministero musicale in una chiesa protestante, un giorno, mi confidò che al tempo del servizio militare, durante la guerra, aveva prestato servizio nell’esercito in difesa del suo paese. La sua esperienza della violenza era stata devastante e lui era molto angustiato. Quello dei veterani di guerra caduti nell’alcolismo per non essere riusciti a elaborare il trauma e il dolore da loro subiti era comune. In quella cultura tradizionale dell’est Europa, la terapia era vista ancora come una sorta di tabù. Il giovane pensava di poter guardare alla chiesa e al suo pastore come a un luogo in cui, grazie al suo ministero musicale, o almeno grazie al canto, avrebbe potuto trovare un po’ di sollievo per la sua guarigione e anche un modo per aiutare altri. Quando propose al pastore alcuni canti tristi, fu subito liquidato: gli fu detto che la chiesa deve concentrarsi sulla musica positiva e sulla lode di Dio. A questo rimprovero, il cupo scoraggiamento in cui il giovane cadde si sovrappose al suo irrisolto trauma interiore; tristemente, dovette prendere atto della sostanziale inutilità della musica della sua chiesa come aiuto per chi, come lui, fosse psicologicamente ferito»[5].

 

A chi rifiuta di affrontare la sofferenza di coloro fra cui vive o si vergogna delle loro fragilità, le grida di lamento sembrano così poco “spirituali”, imbarazzanti, perfino fastidiose! Quanto poi alla soppressione, da parte di alcune chiese, della tradizione biblica del lamento nella predicazione e nella liturgia, sono chiese per lo più adagiate sullo status quo, che hanno massicciamente investito nella preservazione di relazioni sociali basate sullo sfruttamento e sull’oppressione.

Questo tragico rigetto verso il lamento nella nostra predicazione e adorazione non è solo un problema d’ignoranza; è una mancanza di fede nel Dio della Scrittura. Un bambino sa di essere amato incondizionatamente dai suoi genitori e di godere della libertà di parlare apertamente con loro, di esprimere non meno il suo disagio e la sua rabbia della sua gratitudine e del suo amore. Abbiamo osservato che, nella fede dell’Israele veterotestamentario, il Dio di tutta la creazione aveva istituito un patto con loro, un patto assimilabile a quello di una relazione matrimoniale; fu proprio questa convinzione a consentire ai profeti e agli scrittori d’inni israeliti di inquadrare tutte le loro esperienze di vita individuali e comunitarie, nessuna esclusa, in quella relazione. Se in tempi di sofferenza e tumulti anche noi sappiamo di essere oggetto dell’amore incondizionato di Dio, siamo liberi di fare domande, di sfidare e anche di manifestare la nostra rabbia a Dio. È la sicurezza dell’amore a produrre e incoraggiare il lamento.

Ecco il consiglio del pastore australiano Malcolm Gill ai suoi colleghi pastori.

 

«Far leggere in chiesa un Salmo di lamento, anche senza commentarlo, dà voce a quanti affogano in silenzio sotto il peso del dolore. Recitare collettivamente una preghiera di dolore incoraggia quanti sono abbattuti: non sono i soli a portare il peso del dolore. Per quanto molto raro, anche un lamento musicale tramite un inno tradizionale o un canto contemporaneo può dare voce agli abissi del dolore, quando non si possono trovare le semplici parole»[6].

 

Da ultimo, ai conduttori di chiesa evangelici tentati dal fascino di una cultura dell’intrattenimento o semplicemente timorosi dei rischi dell’esposizione all’intenso dolore del mondo, raccomando il monito di papa Francesco nella sua enciclica Evangelii Gaudium («la gioia del vangelo»):

 

«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze […] Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6:37)»[7].

NOTE

[1] Augustine, Enarrationes in Psalmos 30.2.3, cit. in Rachel Ciano, “Lament Psalms in the Church” in Finding Lost Words: The Church’s Right to Lament, a cura di G. Geoffrey Harper e Kit Barker, Wipf & Stock, Eugene, 2017, p. 11. Fra le possibili ragioni per il venir meno del lamento nell’adorazione della chiesa occidentale a partire dal diciottesimo secolo, Ciano propone il declino della fede nella divina sovranità, le spiegazioni scientifiche della sofferenza e gli stereotipi culturali della «mascolinità» [L’opera citata di R. Ciano non è disponibile in Italiano; è tuttavia disponibile il testo di Agostino: Commento ai Salmi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano. 2001, ndt].

[2] Dietrich Bonhoeffer, Letters and Papers from Prison, SCM, Londra, 1953; tr. it., Resistenza e resa, Queriniana, Brescia, 2002, lettera del 15 maggio 1943, p. 18.

[3] Gordon Wong, God, Why?: Habakkuk’s Struggle with Faith in a World out of Control, Armour, Singapore, 2007, p. 7.

[4] Il programma Fulbright nasce negli Stati Uniti nel 1946 grazie alla legge proposta dal Senatore dell’Arkansas J. William Fulbright. La legge, approvata dal Congresso degli Stati Uniti, si prefigge l’obiettivo di finanziare borse di studio per lo studio, la ricerca e l’insegnamento in modo da favorire il processo di pace attraverso lo scambio d’idee e di cultura fra gli Stati Uniti e le altre nazioni nel mondo; fonte: http://www.fulbright.it/il–programma–fulbright/

[5] Lee, Lyrics of Lament, p. 14.

[6] 30. Malcolm J. Gill, “Praying Lament”, in Harper e Barker, Finding Lost Words, op. cit., pp. 232–233.

[7] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, Catholic Truth Society, Londra, 2013, pp. 29–30; § 49; testo italiano liberamente consultabile on line sul sito http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa–francesco_esortazione–ap_20131124_evangelii–gaudium.html.

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Tre domande a
Emil Shehadeh

Relatore al prossimo
Convegno Studi GBU, 31 ottobre – 3 novembre 2024

 

 

 

 

Per rispondere alle tre domande, dobbiamo definire alcuni termini

Estrema destra: le persone che militano in questa area politica odiano chiunque non sia d’accordo con la loro definizione dell’identità britannica. Tendono a essere puristi, e ricorrono alla violenza per esprimere la loro frustrazione per quello che ritengono essere il modo indifferente, e a loro parere subdolo e ingannevole, con cui i governi che si sono succeduti hanno ignorato la questione dell’immigrazione di persone provenienti da culture che sono totalmente in contrasto con i valori britannici ed europei, per non dire cristiani. Si tratta però di una piccola minoranza che ha un impatto minimo.

Estrema sinistra: le persone che militano in questa area politica sembrano condividere un odio per la maggior parte dei valori tradizionali ebraico–cristiani e ambiscono a un mondo in cui, superficialmente, tutti, incluso le varie opinioni sarebbero benvenuti nel Regno Unito, tranne le opinioni tradizionali di provenienza ebraico–cristiane. Uno dei tratti più evidenti è la critica unilaterale a Israele e di conseguenza agli ebrei, una critica che in molti casi si esprime con un odio cieco. Per questo motivo sono spesso alleati con i musulmani, in particolare con gli musulmani attivisti. La relazione è bilaterale. L’80% dei musulmani vota laburista, un partito politico di sinistra, un partito che dai tempi di Neil Kinnock ha però lottato per controllare l’antisemitismo dei suoi membri più estremi, come Jeremy Corbyn.

 

Le rivolte

Southport ha pianto la perdita di tre giovani ragazze uccise da un uomo i cui genitori erano immigrati dall’Africa. Un soggetto irresponsabile e ignorante ha affermato, sui social media, che l’assassino era musulmano. Questa notizia ha innescato un attacco a una moschea di Southport, da parte di estremisti di destra, alcuni provenienti da fuori Southport. Hanno attaccato la polizia, ferendo alcuni ufficiali, devastando e saccheggiando negozi e imbrattato i muri di slogan. Che cosa possiamo dire da un punto di vista cristiano di questa rivolta.

  1. La violenza è un male, indipendentemente da chi la pratica e dalle sue motivazioni.
  2. Attaccare i musulmani con o senza prove di colpevolezza, serve solo ad aumentare lo spettro dell’islamofobia.
  3. Anche se l’assassino fosse stato un musulmano, non si possono giustificare gli attacchi a una moschea, soprattutto in un contesto cristiano.
  4. La verità è fondamentale. I rivoltosi di Southport sono stati fuorviati da una bugia. Non conosciamo la religione dell’assassino delle ragazze. Anche se la conoscessimo e anche se l’aggressore fosse un musulmano, i cristiani non possono tollerare la violenza. Le autorità devono ai cittadini una maggiore trasparenza, una lezione che avrebbero dovuto apprendere dal disastro natalizio di Colonia (Justin Huggler, ‘Cover-up’ over Cologne sex assaults blamed on migration sensitivitiesPolice and media have been accused of silence on wave of New Year’s Eve assaults by men ‘of north African or Arab appearance’ because of fears of stirring social tensions, The Telegraph, 06 January 2016).
  5. La polizia ha fatto del suo meglio per sedare la rivolta di Southport e nessun cristiano ha tollerato le azioni dei rivoltosi.

 

Ciò nonostante, una delle dichiarazioni più forti è stata fatta da un uomo che ha rischiato la vita per salvare i bambini durante l’attacco di Southport. John Hayes, 63 anni, ha detto:

Non sono particolarmente motivato politicamente, ma mi sento sconcertato quando sento Keir Starmer e Yvette Cooper parlare di come la polizia si scaglierà con tutta la forza della legge, ecc., su queste persone [i rivoltosi]. Di fatto non stanno parlando della causa principale, e devono iniziare a capire che devono ascoltare e affrontare la causa piuttosto che i sintomi. Mettere questi ragazzi in prigione non risolverà i problemi fondamentali” (Matthew Weaver, Man who tackled Southport attacker says he wished he could have been ‘more Bruce Willis’, The Guardian, Wed 7 Aug 2024)

 

Al contrario, l’arcivescovo Welby ha criticato “l’odio e la violenza” che hanno sostenuto le rivolte (Hattie Williams, Christians have no place in far-right groups, Archbishop Welby warns, Church Times, 12 August 2024). Commentando la violenza, ha inoltre aggiunto:

È razzista… Prende di mira le minoranze etniche. È anti–musulmana, contraria ai rifugiati e ai richiedenti asilo. … E per togliere ogni dubbio, bisogna dire che è un’offesa alla nostra fede e a tutto ciò che Gesù è stato ed è l’uso fatto dall’estrema destra dell’iconografia cristiana. Vorrei dire chiaramente ai cristiani che non dovrebbero essere associati a nessun gruppo di estrema destra, perché quei gruppi non sono cristiani. Vorrei anche dire chiaramente alle altre fedi, in particolare ai musulmani, che noi ci dissociamo dalle persone che abusano di tali immagini in quanto sono fondamentalmente anticristiane” (Justin Welby, “After all these days of hate and violence in the UK, we must find a way to live together well,” The Guardian, Sun 11 Aug 2024).

 

Ironicamente, il Church Time ha pubblicato l’opinione di Welby con una foto di una “manifestazione” a Londra Islington con cartelli che recitavano “Schiacciamo il fascismo e il razzismo” e “Benvenuti rifugiati, fermate l’estrema destra”. Questi due slogan sono tipici degli atteggiamenti di sinistra e del governo: in primo luogo, chiunque chieda che nelle politiche sull’immigrazione venga inoculata una dose di razionalità viene etichettato come di estrema destra. In secondo luogo, la sinistra vuole una porta aperta per tutti i rifugiati senza calcolarne i costi. In terzo luogo, la violenza non è un’esclusiva dell’estrema destra, come dimostrano gli slogan e come hanno dimostrato anche le rivolte di Harehills. A Londra, rifugiati e immigrati che si sono ribellati per le strade hanno incendiato furgoni, rotto le vetrine e saccheggiato i negozi, mentre alcuni intonavano Allahu Akbar, sono stati criticati da un politico che poi è stato accusato di islamofobia. Il Muslim Council of Britania ha sostenuto che Allahu Akbar è una semplice preghiera musulmana (Millie Cooke, Outrage as Jenrick says people shouting ‘Allahu Akbar’ on London streets should be arrested immediately, Independent, 9th August 2024.). Non hanno detto che fu usata per la prima volta da Maometto quando decimò un’intera tribù ebraica. Mentre guidava il suo esercito verso il Khaybar ebraico, Maometto affermò “Allahu Akbar. Kharibat Khaybar“, che significa “Allah è grande, Khaybar verrà distrutto“. Il takbir può essere usato come lode, ma spesso è usato per alimentare la violenza musulmana.

Come al solito, l’establishment è così ansioso di proteggere gli immigrati che si concentra sulle reazioni estreme all’immigrazione incontrollata piuttosto che sull’immigrazione non regolamentata, mentre chiude un occhio sulla violenza degli immigrati, in particolare di quelli di religione musulmana.

 

Prima domanda

Qual è la relazione tra i recenti disordini e la fede della gente che proviene da altre tradizioni religiose?

Le rivolte di cui stiamo parlando sono una reazione a una violenza ancora più grande perpetrata contro degli inglesi (tre innocenti bambine) compiuta da immigrati o figli di immigrati. Non è certo una giustificazione, ma una semplice spiegazione.

Gli immigrati possono impiegare diverse generazioni per integrarsi e identificarsi con il loro nuovo paese. Si tratta di un freddo dato della vita, che prescinde dalla geografia. La difficoltà intrinseca all’adattamento a un nuovo paese può causare stress, sentimenti di rifiuto e persino problemi di salute mentale. L’incapacità ad assimilarsi (per lo più a causa del grande abisso culturale tra la vecchia e la nuova cultura) produce rabbia e odio, che a volte si traducono in attacchi criminali contro innocenti.

Appartenere a una fede che considera il cristianesimo una falsa religione e che condanna i suoi seguaci non solo al fuoco dell’inferno, dopo la morte, ma li rende passibili di aggressioni e uccisioni in questa vita, non aiuta il processo di integrazione. Ciò induce i figli degli immigrati verso tre alternative: l’estremismo, con il quale aderiscono alla loro religione in modi più rigorosi dei genitori; il secolarismo, in cui perdono la fede e diventano ostili alla loro precedente religione perché li priva dello stile di vita che l’Occidente offre. In terzo luogo, l’approccio culturale (ad esempio i musulmani culturali) che rendono omaggio sia alla loro nuova cultura sia alla religione dei padri. Sono musulmani nominali che sembrano avere lealtà divise. Citerebbero il Corano selettivamente per convincerti che l’Islam è pacifico e scelgono di ignorare o interpretare in modo diverso i Versetti di Sward del Corano e sostengono di non credere negli Hadith.

Un altro meccanismo di difesa preferito è quello di dare la colpa al colonialismo occidentale e al sionismo per tutti i mali presenti nel mondo musulmano. Non riescono a riconoscere che l’Islam è la potenza colonialista più longeva. Gli arabi della penisola [arabica] hanno conquistato il Medio Oriente, la Spagna, la Turchia, il Nord Africa e il subcontinente asiatico (Pakistan, India, Afghanistan, Iran ecc.) e hanno imposto la loro religione e la loro lingua.

Le rivolte attuali devono tenere conto delle reazioni alle rivolte di destra. Le contro-manifestazioni sono state animate da attivisti musulmani e da sostenitori dell’estrema sinistra che sventolavano la bandiera palestinese e condannavano Israele. La sinistra contiene elementi che sono violenti quanto, se non di più, dell’estrema destra. Un consigliere laburista è stato arrestato per aver dichiarato in un video: “Sono disgustosi fascisti e nazisti e dobbiamo tagliargli la gola e liberarcene tutti” (Aletha Adu, Suspended Labour councillor arrested over video ‘urging people to cut throats, The Guardian, Thu 8 Aug 2024).

L’attuale governo laburista sembra più propenso a esagerare l’impatto dell’estrema destra che ad affrontare la questione dell’immigrazione incontrollata. Si è detto poco sull’assassino delle tre ragazze innocenti. Ora l’attenzione è sulle “rivolte” e la reazione sembra provenire principalmente dall’estrema sinistra, pro-palestinese, che odia Israele.

 

Seconda domanda

In Inghilterra, in considerazione della grande tradizione pluralista e multiculturale della società inglese, anche in ragione del suo passato coloniale, l’Islam e i musulmani rappresentano un caso speciale?

 

Di tutte le minoranze che vivono nel Regno Unito, e con l’eccezione dell’ebraismo, l’Islam è l’unica religione che cerca di fondere religione e razza. Questo è il concetto di al-Ummah. Ma in realtà, mentre la maggior parte degli Ebrei è tale etnicamente e religiosamente, la maggior parte dei musulmani ha origini razziali diverse. L’Islam è una religione, non un’etnia. I musulmani sono individui appartenenti a etnie diverse. Tuttavia, i musulmani, sostenuti dall’ala sinistra, hanno portato avanti una campagna volta al riconoscimento dell’islamofobia come forma di razzismo.

Una delle caratteristiche dell’Islam è il suo senso di supremazia, come espresso in questo versetto:

 

“Voi siete la migliore nazione prodotta [come esempio] per l’umanità. Ordinate ciò che è giusto e proibite ciò che è sbagliato e credete in Allah. Se solo le persone della Scrittura avessero creduto, sarebbe stato meglio per loro. Tra loro ci sono credenti, ma la maggior parte di loro sono corrotti”. (Q 3:110). Fasiqun significa corrotto.

 

Il Corano chiama i non musulmani anche najas, che significa sporchi. In un certo senso questo è simile all’insegnamento chassidico, per cui i gentili sono sporchi e dovrebbero bollire negli escrementi.

L’Islam divide il mondo nella Casa dell’Islam e nella Casa della guerra. Tutti i non musulmani, incluso l’Occidente, appartengono alla Casa della Guerra e poiché sono fasiqun, corrotti, i musulmani hanno il dovere di combatterli

La narrazione musulmana afferma che Maometto e i primi musulmani furono perseguitati. E sebbene l’Islam sia stato all’offensiva per 1400 anni, in qualche modo i musulmani crescono con un senso di vittimismo.

La maggior parte dei musulmani cresce così con un senso di supremazia e di disprezzo per la cultura ebraico–cristiana. Allah aveva infatti dato l’intera terra a Maometto e ai suoi seguaci! Questo dà loro un senso di diritto che spiega il comportamento di alcuni musulmani in Occidente. Tendono a comportarsi come persone privilegiate ma perseguitate, che meritano più diritti e privilegi di chiunque altro.

 

Terza domanda

Esiste una prospettiva cristiana nei confronti degli attuali disordini? Cosa possono fare i cristiani in un contesto in cui lo scontro tra occidentali e musulmani raggiunge una violenza così estrema?

 

La prospettiva cristiana dovrebbe essere quella della saggezza e dell’amore. A volte è meglio tacere. Né Gesù né i suoi discepoli si sono coinvolti nelle proteste contro la crudeltà romana presente in Palestina. Dobbiamo comprendere queste dinamiche e incoraggiare le buone relazioni basate sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Ma dovremmo incoraggiare le nostre autorità a controllare l’immigrazione in modo tale che le persone siano aiutate ad integrarsi. In una delle sue parabole Gesù insegnò l’importanza di calcolare il costo di una casa, prima di intraprendere un progetto di costruzione (Lc 14:28–30) e bisogna esprimere il punto di vista attraverso gli eletti nel parlamento e la stampa libera facendo notare che l’immigrazione non regolamentata è negativa per gli immigrati e la gente del posto.

I cristiani dovrebbero essere un buon esempio di prudenza e di tolleranza. Dovremmo impegnarci nei confronti dei musulmani per mostrare loro una visione del mondo migliore, uno stile di vita migliore, vale a dire Gesù la “via, la verità e la vita”. Le rivolte fomentano solo l’odio e l’odio va contro il cuore di Dio la cui sostanza è amore.

Dobbiamo incoraggiare più cristiani a intraprendere la carriera politica e giornalistica, sapendo che dovranno prepararsi a navigare controcorrente. Sostenere i valori cristiani in un mondo di menzogne, intrighi ed egoismo sarebbe per loro la croce da portare. I ministri cristiani del Vangelo non dovrebbero essere coinvolti nella politica.

Dobbiamo pregare per la saggezza, il coraggio e l’integrità in politica.

L’alleanza innaturale tra grandi aziende e politica ha come risultato che poiché gli immigrati, legali o meno, accetteranno salari bassi, allora i politici tendono a non fare nulla riguardo all’immigrazione; quando i politici vanno in pensione (spesso relativamente giovani) hanno prospettive incredibili nel mondo delle grandi aziende, quali ricompense per i favori fatti alle grandi aziende.

[I riferimenti culturali e politici sono da riferire naturalmente alla società inglese, e sono dell’autore, ndR]

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Il racconto di un'amicizia. Dialogo tra papa Francesco e il pastore Giovanni Traettino - Alessandro Iovino - copertinaNote a margine della lettura del libro di Alessandro Iovino, Il racconto di un amicizia. Dialogo tra papa Francesco e il pastore Traettino, Eternity, Milano, 2024, pp. 182.

 

Iovino ha fatto un capolavoro giornalistico. Non c’è che dire, anche in considerazione della diffusione del libro. Non c’è giorno in cui non si aggiunga un opinionista, un recensore, un’intervista alla lunga sequela di coloro che segnalano la novità rappresentata dal libro.

Dobbiamo allora, in prima istanza, dire qualcosa sul progetto che sta dietro il prodotto editoriale.

Tutto parte dall’amicizia tra l’attuale Pontefice e il pastore Giovanni Traettino, figura di spicco dell’evangelismo pentecostale e carismatico italiano e punto di riferimento della “Chiesa della Riconciliazione”. Questa amicizia raggiunge l’apice nella visita che Francesco fa al pastore, alla sua famiglia e alla chiesa di evangelica di Caserta il 28 luglio 2014. Il libro contiene belle e preziose foto di questo evento, in particolare quelle nella casa del pastore Traettino.

Il lavoro di Iovino comincia all’indomani di questo evento con un percorso di avvicinamento allo stesso pastore, che l’autore rivela di non aver conosciuto in precedenza, e poi di preparazione dell’intervista vera e propria che si è svolta il 7 novembre del 2023 presso Casa Santa Marta, la residenza del pontefice, anche questo evento corredato di foto a colori.

Si tratta dunque di un libro che intende fissare subito, senza perdere tempo, il flusso di eventi che hanno ruotato e ruotano intorno a questa amicizia, facendola conoscere, raccontandola e caricandola, come è naturale che sia, di significati e prospettive che guardano al futuro.

Lo ribadiamo, una bella operazione “giornalistica”. Insisto sul qualificativo perché sarebbe un errore approcciare il libro da un lato con le lenti amplissime e indefinite dello sguardo ecumenico e, dall’altro lato, sbirciandolo dall’angustissimo e contraddittorio evangelico “buco della serratura”, che in altri tempi ho definito “approccio identitario al cattolicesimo”.

Tra questi estremi c’è infatti il ricco spazio costituito dal materiale proveniente da confronti e rapporti tra cattolici ed evangelici che richiede chiavi di lettura più adeguate e spendibili nell’unica ottica alla quale un evangelico può attenersi per leggere e interpretare i fenomeni della storia e della vita in generale, vale a dire quella del vangelo (faccio tutto per il vangelo … esclamava Paolo, 1 Cor 9). Abbiamo tra le mani dunque un libro relativo al rapporto tra cattolicesimo ed evangelismo – nella versione italiana di un simile rapporto. Questo è un fatto ineludibile che, ancor prima di essere declinato nella prospettiva della documentazione giornalistica, impone una riflessione preliminare.

Di che cosa parliamo quando parliamo di rapporti tra evangelici e cattolici? L’espressione potrebbe essere espressa con altre formule (cattolicesimo/protestantesimo – ma ho i miei dubbi sull’adeguatezza di questa formula per il libro di cui stiamo parlando, nonostante l’autore provi a inserire l’evento-intervista in un panorama più  ampio, vedi pp. 53-55).
Io direi che ci sono almeno tre risposte da dare alla domanda relativa al contenuto di materiale che si occupa del rapporto tra cattolici ed evangelici.

Per prima cosa potremmo avere a che fare con materiale che si occupa del cattolicesimo in sé e per sé, con un approccio tipico di studiosi di storia della chiesa, di storia del dogma, di teologia, etc.. In questo approccio il punto di partenza dello studioso (evangelico o cattolico o secolare) conta un po’ meno. L’idea è che nel descrivere un mondo, e il cattolicesimo è un’intera costellazione di mondi, ci si sforzi di essere il più obiettivi possibili nella sua descrizione. Sarà importante, in questo approccio, tra le tante precauzioni metodologiche, fare attenzione per esempio ai registri comunicativi con i quali il cattolicesimo, i suoi esponenti o sezioni quali Conferenze episcopali, etc. oppure lo stesso pontefice, si esprimono. Un’intervista ha una collocazione che è differente da un documento ufficiale e nello studio bisognerà pensare al modo opportuno di articolare queste due fonti. Il ricorso a spot o a frasi ad effetto per parlare di cattolicesimo non appaiono adeguati in questo primo approccio che, ribadiamolo, ha lo scopo di descrivere il cattolicesimo. La descrizione obiettiva si presta poi a essere usata per diverse finalità. Sicuramente, la testimonianza cristiana al vangelo potrebbe giovarsi di simili descrizioni.

All’estremo opposto dell’approccio focalizzato sul contenuto c’è l’approccio focalizzato sull’interesse di chi parla di cattolicesimo. L’ho definito approccio identitario al cattolicesimo (AIC). In questo caso tutto lo studio del cattolicesimo (ma anche di qualsiasi altro oggetto di studio) ha lo scopo di far emergere gli approcci evangelici al cattolicesimo. Si studia il cattolicesimo, de jure e de facto, per capire che cosa pensano e fanno gli evangelici (di tutto il mondo) nei suoi confronti. L’approccio identitario al cattolicesimo è allora un mascherato studio della condizione dell’evangelismo, volto a suggerire una maggiore circospezione e tutela nei confronti di ipotetici complotti finalizzati a portare gli evangelici sotto la cupola di Roma. Questo approccio, che non si pone lo scopo della testimonianza al vangelo, potrebbe intravedere nel lavoro di Iovino un pericoloso precedente. Unico motivo, più o meno dichiarato, è quello di intruppare gli evangelici in una novella e gigantesca dieta planetaria (dieta era il termine usato nel XVI secolo per i dibattiti, a volte sanguinosi, tra cattolici ed evangelici) con tanti emuli di Lutero e Calvino intenti a segnare i limiti di ciò che non può essere attraversato, nel rapporto con il cattolicesimo.

Ma c’è un terzo modo di intendere e studiare il rapporto tra cattolici ed evangelici. Non centrato sull’oggetto studiato (il cattolicesimo); non sull’interesse di chi studia (approccio identitario) ma semplicemente focalizzato sul rapporto in sé e per sé.

Di cosa stiamo parlando, nel nostro caso? Di un incontro tra un pontefice e un pastore evangelico (PUNTO).

Sicuramente è qualcosa di straordinario e Iovino non lesina espressioni enfatiche per il suo capolavoro giornalistico (un momento di luce purissima, p. 57). Il libro appartiene allora a un materiale, prezioso, che racconta ciò che è accaduto tante altre volte, magari a livelli inferiori, quanto ad autorevolezza dei protagonisti. E non mi riferisco agli incontri ecumenici veri e propri ma a una lunga sequela di eventi, incontri, dibattiti che si organizzano a livello di parrocchie, di sedi arcivescovili, in contesti di celebrazioni storiche, di presentazioni di iniziative sociali e di varia natura, etc.

Questo materiale non deve essere derubricato al livello di indicazione universale, ma neanche nazionale, su quello che è lo stato dei rapporti tra il cattolicesimo e l’evangelismo. È al contrario un materiale prezioso che testimonia di una vera e propria provvidenza divina che ha permesso il superamento dei secoli e dei decenni bui in cui queste comunità di fede si guardavano in cagnesco. Nel libro sono presenti numerosi accenni a questi tempi bui: c’è la testimonianza di Bergoglio (pp. 32); c’è il riferimento alla Circolare Buffarini-Guidi (pp. 52sg.), etc. Per inciso: Iovino non conosce forse pienamente la storia ottocentesca dell’evangelismo italiano e la faticosa conquista, condita di stragi e attentati, della libertà di culto. Il materiale relativo ai rapporti tra cattolici ed evangelici racconta dunque una bella storia di rispetto crescente, stima e apprezzamenti. Grazie a Dio per questo.

Un’altra caratteristica di questo tipo di materiale, a cui appartiene a pieno titolo il nostro volume, è quello rappresentato dal sentimento espresso dai protagonisti di questi eventi; essi tendono a proiettare l’esperienza positiva del singolo evento verso un futuro che potrebbe riservare ulteriori tappe. Nel libro si parla di raggiungere una maggiore unità nella diversità (p. 55). Non ho la sfera di cristallo ma penso di poter dire che questa speranza è molto bella in quanto restituisce l’atmosfera positiva dell’evento che racconta (figuriamoci: l’intervista a un papa da parte di un giornalista evangelico, p. 47); dice naturalmente poco a proposito del futuro. I protagonisti dell’approccio identitario al cattolicesimo potranno stare tranquilli: ci saranno sempre evangelici che passeranno dall’altra parte così come cattolici che faranno il percorso inverso. Le cose non cambieranno di molto. Speriamo, questo sì, che, grazie a iniziative del genere, cresca il rispetto e la stima reciproca e si possa, in nome di un’stanza superiore, quella del vangelo, permettere che le anime conoscano la salvezza in Gesù.

Adesso veniamo al libro, che si presenta diviso in tre parti.
Nella prima c’è la cronaca dell’Intervista vera e propria, con un resoconto dettagliato delle domande e delle risposte dei due protagonisti in un clima, manco a dirlo, di amicizia, cortesia e con accenti di indubbia, trasparente, cristiana e, perché no, evangelica (in senso lato) comunanza.

Nella seconda parte, dal titolo “Ascoltiamoci”, l’autore cerca di fare un bilancio dell’evento­-intervista, ripercorrendo il percorso delle domande e corredandolo di sue personali riflessioni e di citazioni bibliche. Mi pare di capire, o di interpretare, che queste citazioni vogliano creare, in qualche modo, una zona cuscinetto tra due mondi che non sono solo rappresentati plasticamente dai titoli dei personaggi coinvolti, il pastore evangelico e il pontefice, ma che attraversano, lo si percepisce molto bene, l’intimo del giornalista e del credente Alessandro (Non è semplice trovare buoni motivi per sostenere le proprie aperture, non è semplice trovare parole per spiegare il bisogno di smuovere stati di immobilità durati decenni, p. 64). È questa la parte più autoriale, se così possiamo dire, del libro, quella in cui il giornalista si improvvisa teologo.

La terza parte è una raccolta, preziosa, di fonti (discorsi, interviste e testimonianze) che hanno fatto seguito all’evento del 2014 e giungono fino al giorno d’oggi (pp. 105-173).
In questa terza parte sono riportati i discorsi del pontefice e di Traettino in occasione della visita di Francesco a Caserta.

L’intervista si sviluppa seguendo una successione  di domande. Mi pare che non venga spiegata la successione dei temi e delle domande (sono tredici e sono elencati opportunamente nell’indice). I temi che scandiscono le domande erano comunque presenti nei due discorsi del 2014, tenuti a Caserta. Ma a un lettore attento come potrebbe essere il sottoscritto avrebbe fatto piacere una giustificazione della loro articolazione, per esempio quale domanda prima e quale domanda poi. Questa nota sulla successione dei temi ha anche a che fare con un altro fatto, vale a dire che non sempre si coglie una simmetria nelle risposte che forniscono i due protagonisti.

Mi spiego e faccio l’esempio del tema della diversità (pp. 38-44). Non si capisce perché su questo tema Bergoglio parli di migrazioni e dunque di diversità culturali, di globalizzazione e di integrazione mentre il pastore Traettino si sofferma sulla diversità che si registra tra cristiani. Sarebbe stato interessante ascoltare Bergoglio affrontare di petto, e nel contesto dell’intervista, il tema della diversità all’interno del cristianesimo, e dello stesso cattolicesimo, così come ascoltare Traettino parlare di diversità culturale, di immigrazione e così via. Questo non significa che i protagonisti non affrontino i temi relativi alle differenze tra cattolici ed evangelici. Ma non si capisce perché proprio in quel punto le risposte non rispettino una certa simmetria.

Le differenze teologiche vengono trattate con un approccio fenomenologico piuttosto che dottrinario. Il che restituisce delle convergenze suggestive. Penso per esempio al tema della confessione, declinato da Bergoglio in chiave comunitaria, declinazione nei confronti della quale Traettino non può che essere d’accordo. Eppure la confessione è e resta un sacramento. Idem per la questione del vicariato, così come sul ruolo della Madre di Dio.

È probabile che il clima di rispetto e di apprezzamento reciproco, a cui abbiamo alluso, abbiano bisogno di questo ampio spazio fenomenologico in cui i singoli dogmi vengono in qualche modo sfumati per lasciare lo spazio nel dialogo a ciò che di positivo creano. Bello. Ma i dogmi ci sono e questo lo sanno sia Traettino sia Bergoglio. Non dobbiamo suggerirglielo noi.

Ci sono due punti in cui l’autore nelle domande e gli intervistati nelle risposte usano l’espressione “teologia”: teologia dell’essenziale (p. 18) e teologia del poliedro (p. 23). Concentriamoci un attimo su questi due punti perché essi mi sembrano i più qualificanti del volume.

Teologia del poliedro. Bergoglio allude alla figura del poliedro, con buona pace di Iovino che ci confessa non essere bravo in matematica (geometria), quando, nel suo discorso del 2014, parla della diversità tra evangelici e cattolici (cioè proprio l’argomento che manca nella risposta a Iovino). Lì Bergoglio prendendo spunto da un’espressione che, se la memoria non mi inganna, era di Oscar Cullman, vale a dire “diversità riconciliata” e facendo leva sull’azione dello Spirito (con un riferimento abbastanza esplicito a 1 Corinzi 12) afferma che l’unità tra i cristiani assomiglia a un poliedro (anche un prisma?) in cui ogni faccia è beneficiaria dell’unica azione dell’unico Spirito ma si esprime nelle sue proprie peculiarità che siano quelle della chiesa di Roma, delle chiese della Riforma, o del movimento pentecostale: “il poliedro è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità” (p. 106). Bergoglio riteneva che questa figura potesse esprimere un nuovo volto del vecchio progetto ecumenico.

Il vecchio progetto ecumenico, che pure aleggia in alcune risposte e in tutto il volume, prendendo spunto da un altro brano neotestamentario (Giovanni 17 – vi allude Traettino – p. 110) poneva capo a un’altra figura “geometrica”, quella del cerchio (una ruota) in cui i raggi convergono al suo centro dove il centro, fuor di metafora, è Cristo.

Qui abbiamo un ampio campo di confronto tra evangelici e cattolici che si avvantaggia del fatto che non si sviluppa a suon di versetti sparati l’uno contro l’altro o di costruzioni teologiche che si contrappongono. No, ancora una volta, ricorrendo alla mediazione dei fenomeni a cui danno vita le costruzioni teoriche, abbiamo il vantaggio di discutere a partire da costellazioni metaforiche e figurative.

Giusto un piccolo assaggio. La figura dell’ecumenismo storico, il cerchio, se da un lato esprime un grande afflato teleologico (si va tutti verso Cristo) pone il problema di quale sia il punto di partenza. Gesù Cristo non è solo l’omega ma anche l’alfa; non è solo un punto di arrivo ma anche un punto di partenza. Parliamo dello stesso Cristo quando riflettiamo e tiriamo dentro al discorso ecumenico tutta la vicenda della ricerca del Gesù storico nel suo rapporto con il Cristo della fede? O qual è lo status del Risorto in rapporto a due segmenti della storia del cristianesimo, vale a dire la chiesa nella sua condizione istituzionalizzata (successione) oppure la predicazione della Parola che è viva in ragione del Vivente?

La nuova figura per i rapporti ecumenici, quella del poliedro, è debitrice nei confronti di 1 Corinzi 12. Ma non sarebbe questa una sorta di santificazione e cristallizzazione dello status storico raggiunto dalle chiese? E se ogni faccia del poliedro ha la sua ragion d’essere nel carisma ricevuto, non sarebbe questa una gigantesca premessa per un relativismo teologico in cui è bene che ognuno stia al proprio posto, premesso che ci riconosciamo nei carismi ricevuti e che ce li teniamo cari senza metterli in discussione? Qui l’approccio identitario al cattolicesimo, quello in cui si studia il cattolicesimo per dirsi alla fine “dobbiamo essere più protestanti” trova una sua ragion d’essere proprio nel poliedro proposto da Francesco. In questo caso, veramente, si finisce sotto la cupola di Roma (sic). E infine, potrebbero darsi altre, nuove facce del poliedro? Chi le introduce, come verranno accolte, quale autorità potrà alla fine dire: ecco, il poliedro si è arricchito di una nuova faccia?

I due modelli, cerchio e poliedro, si dimostrano deficitari non nei confronti di questa o quella prospettiva confessionale, ma deficitari nei confronti del vangelo. Non hanno forse affermato i due protagonisti, Bergoglio e Traettino, in più punti, che bisogna pensare a un cristianesimo in cammino? Solo il vangelo è ciò che può mettere in cammino donne uomini che rinunciano alle loro identità, siano esse cattolica, protestante o pentecostale!

La teologia dell’essenziale (p. 18). Qui, se capisco bene lo sviluppo dell’ottimo lavoro fatto da Iovino, mi pare di percepire uno slittamento. Quando il pastore Traettino introdusse nel 2014 il tema dell’essenziale, riprendendo una frase di Raniero Cantalamessa (gli evangelici sono cristiani col carisma dell’essenzialità, p. 111), declinò egregiamente quella caratteristica in una una pagina impregnata di cristocentrismo con il chiaro riferimento a 1 Corinzi 3:11: “la conversione a Cristo; la relazione personale con Cristo; l’imitazione di Cristo …” (p. 112).

Quando il tema viene ripreso nell’intervista (pp. 18sg.) l’essenzialità viene declinata in modo diverso: “chiederei a entrambi di raccontarmi l’essenza dell’amore per Dio e dell’amore di Dio, facendo riferimento a quella che potremmo definire teologia dell’essenziale” (Iovino). Le risposte sono abbastanza conseguenti, volgendosi verso quello che appare essere il grande paradigma che il mondo post-cristiano chiede alle chiese cristiane di interpretare. Un paradigma in cui si esprima nell’amore (Vattimo parlava di caritas) il tutto del cristianesimo. Per carità, tutto potrebbe tenersi: il cristocentrismo è un’elaborazione che non esclude il tema dell’amore di Dio per il mondo e del possibile amore del mondo per Dio e degli uomini tra loro (“energia sorgiva per tutte le relazioni”, Traettino, p. 19).

Ma questa è una grande sfida epistemologica: il cristianesimo può essere ridotto a una sua essenza che si limiti a un afflato inclusivo generalizzato senza prevedere l’altro tema della verità e, ahimè, dell’esclusione?

Il libro in questo senso è un esercizio interessante che ci spinge a interrogarci. Hanno risposto Bergoglio e Traettino a questa sfida? Hanno colto le differenze che insistono tra il vangelo e le conseguenze del vangelo. Il pastore Traettino del discorso del 2014 mi piace di più del pastore che nel 2023 risponde alla domanda sull’essenzialità.

Devo concludere questa lunga riflessione. Questo è un libro che dà a pensare, che stimola anche là dove il lettore potrebbe aver desiderato maggiore coerenza. Un libro da non leggere con le lenti semplicisticamente ecumeniche ma neanche da leggere con i paraocchi dell’approccio identitario al cattolicesimo, magari suggerendo che esso potrebbe essere espressione di uno scivolamento che si vorrebbe evitare all’evangelismo italiano e addirittura mondiale.

Un libro, al contrario, da leggere con curiosità, con generosità nei confronti di chi lo ha pensato e assemblato. E se da questa venisse fuori la necessità di tornare a pensare sempre e di nuovo a partire dal vangelo, allora vuol dire che si è trattato di una “buona” lettura.

 

 

 

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Questa mattina si è diffusa piuttosto rapidamente la notizia che è venuto a mancare la notte scorsa il teologo valdese Paolo Ricca, figura di grande spessore culturale, credente profondamente partecipe del messaggio cristiano e tra i maggiori studiosi italiani del pensiero della Riforma. Si tratta di una perdita per il mondo del protestantesimo storico italiano e per tutto il mondo evangelico.

In questo mio ricordo non entrerò sempre nella discussione sul suo pensiero, ma soprattutto sul rapporto che ho avuto con questo studioso e che ho avuto il piacere di incontrare in diverse circostanze ed in diverse epoche della mia vita.

Penso che la prima volta che ho sentito una conferenza di Paolo Ricca fosse quando avevo appena iniziato l’università ad inizi anni 1980 e si stava celebrando il cinquecentenario della nascita di Lutero. Ricca, che era già docente di storia della Chiesa alla Facoltà Teologica Valdese, venne a presentare a Bari un testo di Lutero e, devo ammettere, che la sua chiara presentazione ha sicuramente invogliato me, giovane studente di filosofia appassionato del messaggio evangelico, ad approfondire il pensiero della Riforma e dei principali riformatori. 

Qualche anno dopo mi sono iscritto alla Facoltà Teologica Valdese ed ho studiato e fatto l’esame di storia della Chiesa con lui. Si è trattato di un affascinante colloquio (durato più di due ore) che è stato di grande interesse e di valore. Ricordo ancora le domande (non sempre facili) cui ho dovuto rispondere, ma mi rimane l’idea di un grande insegnante che aveva cura della formazione dei suoi studenti.

Una terza circostanza che ricordo è quella sempre di un incontro barese, in occasione del Cinquecentenario della Riforma, nel 2017. Invitato dal Consiglio Pastorale delle Chiese di Bari, Ricca, nel giro di pochi giorni, nonostante l’età, fece ben quattro discorsi ad un pubblico di tipo diverso. Di questi quello che mi ha impressionato di più è stato il dialogo con i ragazzi del mio liceo. Originariamente non era un evento programmato, ma proprio durante un incontro di aggiornamento con docenti di storia di scuola superiore, venne a lui in mente di voler parlare in una scuola. La sua passione per la Riforma e per il messaggio di ritorno alla Parola di Dio e ad una nuova libertà, appassionò diversi studenti del mio liceo e anche in questo caso devo ammettere l’efficacia del suo messaggio a giovani adolescenti che difficilmente (pur studiosi come possono essere quelli che frequentano un liceo classico) si appassionano a questioni riguardanti il cristianesimo.

Le ultime due volte in cui incontrato Ricca sono piuttosto recenti e hanno a che fare con due avvenimenti di quest’anno. Il primo è quello del Convegno GBU dedicato all’ateismo. In quel caso si decise di intervistare Ricca su una delle sue ultime pubblicazioni, il libro Dio. Apologia, uno dei testi più interessanti pubblicato da un teologo evangelico in Italia e dedicato proprio ad una dettagliata analisi dell’ateismo contemporaneo (soprattutto nella prima parte del testo). Io e Giacomo Carlo di Gaetano pensavamo di poter finire l’intervista in circa 30 minuti: il fiume di parole di Ricca ci ha portato a fare una trasmissione di più di un’ora, dove si può vedere tutta la passione dell’anziano teologo e che ancora oggi può essere rivista da ognuno di noi.

L’ultima volta che ho visto Ricca è stato qualche mese fa, il 25 maggio per l’esattezza, quando, di nuovo a Bari, era venuto per l’inaugurazione della Libreria Bonhoeffer, unica libreria evangelica presente sul territorio dove abito. Anche in questa circostanza la sua conferenza dedicata al teologo tedesco fu di grande spessore.

Una serie di incontri che mi hanno insegnato diverse cose sulla persona, oltre che sul teologo. In primo luogo, la profondità della sua fede. Si poteva non essere d’accordo con lui teologicamente, ma non si poteva non ammettere che fosse un uomo di grande fede che metteva la predicazione e l’annuncio del Vangelo al primo posto.

In secondo luogo, la capacità comunicativa. Ricca (e l’ho vissuto personalmente) era capace un pomeriggio di parlare agli studiosi, la mattina di parlare a degli studenti di Liceo, la sera alla cittadinanza e la domenica predicare al popolo di Dio. Tutto questo riuscendo sempre a trovare il tono e le parole giuste ed a riuscire a trovare un contatto con il pubblico con cui parlava.

In terzo luogo, il pensiero. Ricca nella sua fase pastorale e di insegnamento alla Facoltà, ha voluto essere soprattutto un insegnante, scrivendo realmente poco, ma curando la conoscenza del pensiero riformato in Italia (sua è la cura delle opere scelte di Lutero, che ha permesso a diversi italiani di conoscere meglio il fondatore della Riforma Protestante); una volta “ritiratosi” ha iniziato a scrivere degli argomenti che maggiormente lo appassionavano e, per questo, il lettore italiano può trovare pubblicate, prevalentemente da Claudiana, diversi suoi scritti che vanno da quelli più propriamente storici, a quelli di spessore teologico, a quelli esegetici (il suo ultimo libro pubblicato è dedicato al Vangelo di Marco) alle predicazioni, attività a cui non ha mai rinunciato e che mostra come, ancora oggi, dopo più di cinquecento anni, la predicazione della Parola, rivesta un ruolo fondamentale nel mondo evangelico.

Fondamentalmente barthiano nella sua impostazione teologica, Ricca è stato anche un campione del dialogo all’interno del cristianesimo. Essendo stato osservatore al Concilio Vaticano II, è entrato in un interessante dialogo con il mondo cattolico che lo ha rispettato e lo ha anche ascoltato in molte circostanze. E’ stato anche campione del dialogo con il mondo pentecostale, l’ala evangelica conservatrice più numerosa in Italia, con cui è riuscito a tenere un ottimo rapporto nonostante le divergenze teologiche.

La sua opera andrà valutata col tempo, come alcuni sostengono, ma sicuramente va detto che si tratta di uno dei pochi teologi evangelici italiani che hanno dato un contributo originale al pensiero teologico degli ultimi anni. Le sue opere andranno lette con attenzione e tutti noi nel mondo evangelico siamo a lui debitori di qualcosa e non dobbiamo dimenticare la sua capacità di saper parlare di Dio al nostro secolo, compito non sempre facile per noi e che Ricca ha saputo fare egregiamente.

 

                                                                                                                                                       Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’articolo L’uomo che sapeva parlare di Dio. Ricordo personale di Paolo Ricca. proviene da DiRS GBU.

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di Simon Cowell, Staff GBU Puglia

Uno dei miei passi biblici preferiti è Filippesi 1. La lettera ai filippesi è giustamente conosciuta come “la lettera della gioia”, per il grande feeling che c’è fra l’apostolo Paolo e questa piccola chiesa situata nell’antica città romana di Filippi. Appena fatti i saluti iniziali, Paolo scrive così:

 
Io ringrazio il mio Dio di tutto il ricordo che ho di voi; e sempre, in ogni mia preghiera per tutti voi, prego con gioia a motivo della vostra partecipazione al vangelo, dal primo giorno fino ad ora. E ho questa fiducia: che colui che ha cominciato in voi un’opera buona la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.

Filippesi 1:3-6

Avete notato il motivo primario per questo profondo ringraziamento da parte dell’apostolo?  È la loro partecipazione al vangelo – questa buona opera cominciata in loro da Dio, per rendere i filippesi non solo ricevitori del vangelo, ma partecipanti attivi in esso. A volte consideriamo poco quanto meravigliosa sia questa frase. Paolo, un gigante della chiesa primitiva, il primo grande missionario della storia, uomo scelto da Dio per portare il vangelo ai gentili – lui considerava la collaborazione di questa chiesa, piccola ed insignificante, come una cosa preziosissima, motivo di vera gioia. Come mai?

La collaborazione nel vangelo

Paolo sapeva che l’opera del vangelo è troppo ampia, troppo vasta e troppo importante da essere lasciata solo ai “professionisti”, o agli “esperti” (anche a quelli capaci e bravi come gli apostoli!) Proclamare Gesù e la vita eterna in Lui è la missione primaria della chiesa, di tutta la chiesa, inclusa questa piccola comunità a Filippi. È questo un principio biblico fondamentale: ogni ministero cristiano è una collaborazione. Nel caso di Paolo e i filippesi, era Paolo ad attraversare il mediterraneo (più di una volta!) predicando Cristo e fondando chiese, ed erano i filippesi a contribuire in due modi importantissimi: il sostegno in preghiera, e il sostegno finanziario.

L’importanza della preghiera

Parlando del suo imprigionamento e dei suoi “rivali” nel vangelo, Paolo scrive ai filippesi: “so infatti che ciò tornerà a mia salvezza, mediante le vostre suppliche e l’assistenza dello Spirito di Gesù Cristo”. Anche se non erano presenti con lui fisicamente, nelle sue difficoltà esprimeva Paolo l’importanza delle loro preghiere – l’unica cosa menzionata oltre l’aiuto dello Spirito Santo!

Collaborare nel vangelo vuol dire pregare – intercedere con il Signore degli Eserciti, affinché faccia ciò che può fare solo Lui: trasformare i cuori e le menti per accettare Cristo Gesù e la vita eterna in lui solo.

L’importanza del donare

Sempre ai filippesi, Paolo parla più di una volta delle gioia che lui ha nella loro collaborazione finanziaria nel vangelo:

ho avuto una grande gioia nel Signore, perché finalmente avete rinnovato le vostre cure per me… nessuna chiesa mi fece parte di nulla per quanto concerne il dare e l’avere, se non voi soli

(4:10, 15)

Paolo ribadisce anche che questa collaborazione finanziaria non è una questione relativa al suo bisogno, e certamente non alla sua avarizia. Sottolinea invece i benefici per i filippesi, a motivo della loro generosità:


Non lo dico perché io ricerchi i doni; ricerco piuttosto il frutto che abbondi a vostro conto… Il mio Dio provvederà a ogni vostro bisogno, secondo la sua gloriosa ricchezza, in Cristo Gesù

(4:17, 19)

Tutto ciò per dire che donare a quelli che proclamano il vangelo non è né un sacrificio, né un investimento, ma un mezzo con cui Dio può benedirci. Nel donare cresciamo nei frutti spirituali; nel donare riceviamo dalla ricchezza divina. Non c’è da meravigliarsi che l’apostolo fosse pieno di gioia vedendo questi suoi cari fratelli mostrare pienamente l’opera dello Spirito Santo in loro!

Il GBU, il vangelo e te

La collaborazione nel vangelo, dunque, è uno dei motivi principali per il ringraziamento e per la gioia dell’apostolo Paolo. La missione del GBU è che la proclamazione del vangelo di Gesù Cristo continui anche oggi in ogni ateneo italiano – che possiamo in qualsiasi modo condividere Gesù da studente a studente. Ma come Paolo non poteva e non voleva svolgere questo progetto da solo, così è per noi del GBU.

Cerchiamo collaboratori! Cerchiamo persone che siano disposte a lottare in preghiera insieme a noi, che siano desiderosi anche loro di vedere Gesù proclamato e glorificato nelle facoltà italiane, e che vogliano sostenere questa opera con i loro beni materiali. Se tu non sei già un nostro collaboratore, o un nostro socio, o un nostro sostenitore, oggi è il giorno di entrare in questa bellissima collaborazione – per la salvezza delle anime individuali, per la crescita della chiesa italiana (e non solo!), e per la nostra edificazione reciproca. Per saperne di più, clicca il link sotto!

https://gbu.it/investi/come-donare/