Come canne al vento

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di Valerio Bernardi

Ho considerato queste masse di  deportati:
sono stato uno di loro: ho ascoltato le loro conversazioni,
i loro desideri, i sogni per l’avvenire…
Trascinati gli avvenimenti li subivano.

Girardet, Come canne al vento

 

 

Speranza e angoscia. I diari di un deportato

Quando si ricorda la Resistenza, come in questi giorni, la tendenza dei nostri storici (ma anche dei nostri giornali e mass media) è quella di vedere in essa un passato glorioso, un momento di rifondazione del nostro Stato, una speranza, che, probabilmente proprio in questi nostri giorni difficili, ci dovrebbe far pensare a quel che si può fare in tempi di difficoltà.

Una delle domande che ci dobbiamo porre è: che ruolo hanno avuto gli evangelici in Italia sulla nascita della Repubblica e la “defascistizzazione” del Paese? Molto è stato pubblicato e molto è stato detto a tal proposito e non voglio ritornare su questi aspetti. Questa volta vorrei soffermarmi su una pubblicazione dello scorso anno che ha dato una nuova luce su uno dei personaggi più importanti della Chiesa Valdese italiana del Secondo dopoguerra: Giorgio Girardet.

Molti di noi hanno conosciuto Girardet e ne hanno apprezzato sicuramente la fede, le sue “aperture” verso tutto il mondo cristiano, ed i suoi tentativi (anche nel mondo del protestantesimo storico post anni 1960) di annunciare la Parola al mondo. Pochi di noi conoscevano le sue vicende durante il periodo bellico. Girardet, come molti studenti universitari dell’epoca, si era arruolato ed aveva frequentato il corso ufficiali, diventando sottotenente ed essendo inviato nella fase finale della guerra nelle isole dell’Egeo.

Quando l’Italia firmò l’armistizio l’esercito italiano (di fatto abbandonato a sé stesso) si divise in almeno due o tre tronconi: uno di questi era quello di coloro che decisero di non combattere affianco della Repubblica Sociale Italiana e dei Nazisti e che, pertanto, o opposero resistenza (come la guarnigione di Cefalonia o sull’isola di Kos) e furono trucidati oppure si arresero e furono internati dai tedeschi nei campi di prigionia sino alla fine del conflitto. Questa ultima e sostanziosa parte di esercito (stiamo parlando di più di 600.000 uomini) viene denominata dagli storici IMI (Internati Militari Italiani).

Girardet fu uno di questi militari internati e per cui non si applicarono le leggi della Convenzione di Ginevra da parte dei tedeschi, ritenendoli, nella gerarchia di prigionieri di guerra, al gradino più basso (prima venivano gli anglo-americani, poi i francesi, poi italiani e russi). Durante questo periodo egli tenne dei diari che la figlia Hilda Girardet ha ritrovato tra le sue carte e che lo scorso anno ha deciso di pubblicare per non dimenticare la memoria di quello che è successo per i tipi della Claudiana con il titolo Come canne al vento. Diari della speranza di un pastore evangelico nei lager.

La figlia afferma che la lettura di questi diari, insieme al racconto che il padre redasse e che dà il titolo al testo, fa emergere una figura del tutto diversa dal pastore valdese ironico e amante della vita e dimostra come la prigionia in un campo possa cambiare le persone.

Cosa emerge da questo diario? Diversi sono gli aspetti che vanno sottolineati.

In primo luogo, la comunanza con gli altri prigionieri. Girardet mostra tutte le sue frustrazioni, la sua limitatezza come essere umano, il suo cercare di sopravvivere in una fase difficile. La carenza di cibo, l’impossibilità di concentrarsi, la speranza che può diventare disperazioni, il sentirsi relegati e il non poter scambiare parole se non con gli italiani, il non sapere il destino dei propri amici (molte sono le righe dedicate a Franco Bosio, altro giovane ufficiale protestante, trucidato nell’eccidio di Kos)  la mancanza di comunicazione con i familiari, il non aver del tutto chiaro cosa sta succedendo nel resto del mondo, il sapere che, come dice il racconto, si è come “canne al vento”, che subiscono le variazioni degli accadimenti, emerge dalle pagine del diario per lo più composto nel campo di prigionia di Sandbostel dove rimase buona parte della sua prigionia, prima di essere trasferito nelle ultime settimane a Bergen.

In secondo luogo, a differenza che in altri diari, emerge la figura pastorale. L’A. ha sin da subito la preoccupazione di organizzare una comunità evangelica italiana nel campo. Girardet aveva una limitata esperienza pastorale all’epoca (venticinquenne era stato soprattutto studente di Lettere alla Sapienza di Roma), ma ritiene che sia importante mantenere salda la fede in un periodo di crisi. Il diario è pieno dei suoi sforzi per avere un locale autonomo per la piccola comunità che riesce a riunire (una ventina di persone) tramite il suo girovagare per le baracche e di trovare materiale per la liturgia (gli inni e i versetti verranno ricopiati su carta quando possibile) e per le sue predicazioni (su cui spesso si interroga). L’impresa, pur tra mille difficoltà riesce e, seppur a singhiozzo e con ritardi, la comunità viene organizzata. Il messaggio di speranza, però, non deve essere limitato solo ai credenti ma anche a coloro che sono definiti nel diario “Gentili”. Pertanto accanto al culto, gli studi, Girardet organizza anche una catechesi per coloro che non credono ma che possono essere avvicinati alla fede. La parola che spesso ricorre nelle pagine del diario è kerygma, l’annuncio che viene vista come una delle attività essenziali.

In una situazione di difficoltà, quindi, quello che conta è l’annuncio e la diffusione della Parola. Non mancano le difficoltà: il confronto con i Cattolici, anche se aperto, è sempre serrato e dipende anche da una cattiva conoscenza del mondo protestante. Traspare una figura di credente tenace pur in periodo di difficoltà che si occupa soprattutto di mettere Cristo al centro dei suoi discorsi, delle sue comunicazioni, del suo dialogo. Non mancano le righe che sono dedicate al futuro dell’Italia, a che ruolo i protestanti possano giocare nella formazione della nuova nazione che emergerà, di come il protestantesimo possa divenire veicolo di rinnovamento morale. Le linee teologiche e anche socio-politiche che emergono sono coerenti con la figura che poi molti di noi hanno conosciuto in seguito e mostrano chiaramente come questo periodo difficile ed angoscioso (l’angoscia è sempre emergente nelle pagine del diario) sia stato un vero periodo di formazione.

Ricordare Girardet in questo periodo con la lettura del suo diario, significa tornare a riflettere sulla nostra identità, sul nostro essere cristiani nel nostro paese e fa emergere come la speranza non debba morire anche in momenti di grande difficoltà. Il diario di Girardet è quello di un evangelico autentico che conosce i limiti dell’essere umano ma, grazie al dono della grazia, riesce a resistere nelle difficoltà ed a dare coraggio ai suoi fratelli, annunciando il Vangelo come possibilità. Nell’anniversario del 25 aprile sono cose che non vanno dimenticate nel nostro Paese e che questa lettura fa sicuramente riemergere.
(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

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