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di Giacomo Carlo Di Gaetano

 

Si stima che in questo anno giubilare la città di Roma sarà raggiunta e visitata da più di 30 milioni di visitatori: pellegrini, turisti, avventori, etc. Uno dei momenti più caldi sarà (è stato) sicuramente quello del Giubileo della Gioventù (28 luglio – 4 agosto).

Non è una novità, questo è il destino di Roma.

Il Giubileo ha sempre aggiunto a questo itinerario un alone sacrale, associando in tal modo Roma ai grandi santuari e luoghi di pellegrinaggi disseminati in tutto il mondo.

La presenza di questi luoghi (il lettore della Bibbia ricorderà la perplessità di una donna samaritana su due di essi, relegati nella provincia di Palestina – Gerusalemme e/o Samaria, Gv 4) sono una rappresentazione plastica di quell’anelito all’incontro con il divino che ha sempre animato gli esseri umani.

Per i cristiani che si sono fatti condizionare dalle parole di Gesù in Giovanni 4 sull’avvento di un’ora in cui l’incontro con Dio poteva fare a meno della geografia (bisogna adorarlo in spirito e verità!) è iniziato un lungo tormento interiore e una lunga riflessione “iconoclasta”. Nessuno nella storia ha mai fatto a meno di qualche luogo che sebbene spoglio di qualsiasi aura sacrale, ha però assunto un rilievo simbolico in grado di condizionare sempre e nuovamente la spiritualità. Si pensi a Ginevra nell’universo calvinista.

Anche il monaco agostiniano Lutero andò a Roma (nell’inverno del 1510–1511)! In un documentato viaggio di tipo amministrativo il padre della Riforma accompagnato da un suo confratello fece questo viaggio e soggiornò nella capitale per alcuni mesi. Tutte le biografie di Lutero ne parlano. Quelle da me consultate, dalle classiche di Bainton e Miegge (in italiano) a quelle più recenti di Adriano Prosperi e Silvana Nitti dedicano un certo numero di pagine a questo evento che ha suscitato la mia curiosità fin dall’inizio di questo anno santo e fin dalla registrazione delle iniziative messe in campo dagli evangelici per intercettare e in qualche modo condizionare questo gigantesco fenomeno del viaggio a Roma.

Le biografie sono concordi nel rilevare il silenzio o quanto meno la sottigliezza delle fonti relative a questo viaggio. Ci sono i ricordi dello stesso Lutero affidati ai suoi Discorsi a tavola (Tischreden) e qualche riferimento in altri scritti molto lontani nel tempo; e qualche legenda fiorita all’indomani della morte di Lutero.

La più famosa è quella che vuole Lutero che riceve l’illuminazione sulla giustificazione per fede in cima alla scala santa da lui risalita in ginocchio e secondo le modalità della spiritualità medievale.

Forse il suo commento più spendibile da un punto di vista dei significati posteriori è questo: «Anch’io, come uno stupido, portai cipolle a Roma e ne portai indietro aglio». La Nitti suggerisce che lo scambio, grazie alle sue lontane origini contadine, era considerato estremamente svantaggioso (Nitti, p. 60). Lo svantaggio stava naturalmente non solo nel fallimento del compito amministrativo per il qual era stato inviato ma anche per alcune delusioni avute nel suo soggiorno nella capitale religiosa, soprattutto relativamente al modo di celebrare la messa e la scarsa considerazione che il sacramento aveva nella bolgia romana. Proprio la Nitti segnala che, al di là della pervadente corruzione ecclesiale, di cui Roma era un concentrato, ciò che rimase impresso nel monaco tedesco fu la disponibilità e la facilità del perdono, da ricercare, procurarsi, ottenere con i più svariati e creativi modi, dal giro delle sette chiese, alla visita a una reliquia, etc.

«Ero un così pazzo santo (so ein toller Heilig) che correvo per tutte le chiese e le cripte, e credevo tutte le bugie e le invenzioni che raccontavano. Io pure ho detto una messa, o anche dieci, a Roma, e quasi mi dispiaceva che mio padre e mia madre fossero ancora in vita, perché li avrei volentieri liberati dal purgatorio con le mie messe e con altre più eccellenti opere e preghiere» (Miegge p. 75).

 

Questo perdonificio «fece dubitare anche lui». La principale conseguenza della visita a Roma non fu dunque la critica alla corruzione quanto l’acuirsi di domande interiori che esplosero da lì a qualche tempo con il suo studio sulla Lettera ai Romani e la scoperta della “giustificazione”.

«I suoi dubbi, a Roma come prima a Erfurt e dopo a Wittenberg, non erano l’inizio di una battaglia contro la gerarchia e il papa; erano il suo modo di vivere la fede …» (Nitti, p. 63).

Sta tutto qui in questa tensione tra il sacro e l’interiore, tra l’esposizione ai simboli e allo spettacolo della spiritualità istituzionale e la ricerca di Dio nella Bibbia e, da buon agostiniano, nell’interiore, che si gioca il significato di questa piccola parentesi romana nel contesto più ampio della stagione della Riforma. E sta anche qui la possibilità di riprendere questo episodio per avere ulteriori chiavi di lettura per la contemporaneità.

Questo è anche il dibattito che anima i biografi (relativamente come sostiene Prosperi, p. 52) e ben riassunto dalla rilevazione di Bainton: «quel che egli vide e quel che non si curò di vedere ne illumina la personalità» (p. 22, corsivo aggiunto)

Per Miegge (pp. 76–77):

 

«le quattro settimane passate a Roma ebbero per il giovane monaco, ardente e ingenuo, l’effetto di una sconsacrazione». E il silenzio viene così interpretato: «Furono forse soltanto fugaci impressioni di malessere dovute all’oscurarsi di un ideale forse eccessivo, che dovevano precisarsi in seguito, liberando il Riformatore dallo scrupolo di far torto, con la sua azione rivoluzionaria, alla città santa della sua giovinezza» (p. 77)

 

Adriano Prosperi dal canto suo (p. 63) precisa che Lutero non era un moralista; pensava sd altro: si chiedeva se la Scala Santa fosse davvero quella su cui Gesù aveva posato i pieri. La Scrittura era la sua enciclopedia, il suo mappamondo. (p. 63)

 

Ma che ne è della contemporaneità?
Questo episodio sicuramente non detta un paradigma di interazione tra evangelici e cattolici (in questo campo se ne è sempre alla ricerca di uno) ma sicuramente segnala una precauzione e un interrogativo al quale facciamo bene a non rispondere, aspettando … come fa un lettore di una biografia di Lutero: aspettando il capitolo successivo (i più eloquenti sono quelli di Prosperi e di Miegge: – [Prosperi, Il dottor Lutero e il problema della coscienza, pp. 65–82]; [Miegge, La crisi, pp. 79–101]).
Perché un cattolico, convinto o meno che sia, da Occidente o da Oriente (grazie alla macchina organizzativa delle diocesi) non dovrebbe recarsi a Roma e attraversare la Porta Santa? Magari è fortunato e si ritrova a Roma proprio mentre, morto il Papa, c’è il Conclave che ne sta eleggendo un altro (un intervistato durante il Conclave che ha eletto Leone XIV: siamo a Roma per il weekend, speriamo di vedere la fumata bianca prima di ripartire …).

Viene riproposto davanti a noi, in maniera abbastanza provvidenziale, il dilemma del giovane Lutero, vale a dire la ricerca di un qualcosa che si ritiene possa essere accordato da uno spettacolo imponente di un’istituzione che si ammanta di sacralità (sfumando tutte le naturali e ataviche problematiche, incluso gli scandali, che tutte le istituzioni umane si portano con sé, da che mondo è mondo, a Roma come a Canterbury o Westminster). Bainton lo dice chiaramente: finché il giovane Lutero credeva che “la chiesa avesse efficaci mezzi di grazia”.
Sta tutta qui la possibilità del vangelo (non degli evangelici): far esplodere la tensione tra coscienza è istituzione, tra libertà e formalismo, riuscire a canalizzare quella spinta a guardarsi dentro che pure un agostiniano come l’attuale Papa dovrebbe conoscere bene, al punto tale che la cita in un passaggio della sua omelia a Tor Vergata (il 3 agosto). Che cosa si porteranno dietro il milione di giovani convenuti a Roma. Ci auguriamo per loro tanta forza e tante cose positive come auspicano tutti gli osservatori, anche ecclesiastici, che hanno goduto dei numeri della partecipazione (un po’ come gli organizzatori di una protesta sindacale o di una kermesse politica).

Hanno incontrato veramente il Cristo risorto come lasciava intendere l’incipit dell’omelia papale che è partita dall’episodio dei due discepoli sulla via di Emmaus per poi perdersi nei meandri della caducità umana (i fili d’erba) segnata dal consumismo e da altri mali del secolo?

Non ritroviamo in quella omelia, e lo diciamo sommessamente, l’afflato espositivo che anima un lettore e un espositore dei vangeli (quell’afflato che condizionerà il Lutero tornato dall’Italia). Ma è proprio questo che ci lascia sperare: l’ossimoro grammaticale tra un’istituzione che si concepisce prosecuzione dell’incarnazione e che relega Gesù Cristo ai riti penitenziali e sacramentali e una coscienza che cerca la “parola di Dio” unico luogo in cui Cristo continua a vivere e permanere (1 Pietro) e unica grazia che può penetrare nelle crisi che incontreranno il milione di giovani, così come le incontrano tutti gli esseri umani.

Dunque?
Lasciamo che Lutero vada a Roma, che cerchi la pace interiore, che cerchi Cristo. Prima o poi tornerà a Wittenberg e lì ci sarà qualcun altro ad attenderlo: il vangelo di Gesù Cristo. Facciamoci trovare lì come testimoni del vangelo … e non come discepoli di Lutero (sic!).

 

Letture
Roland H. Bainton, Lutero, ed. RCS, Corriere della Sera, 2006;
G. Miegge, Lutero. L’uomo e il pensiero fino alla Dieta di Worms (1483–1521), Claudiana, Torino, 4 ed., 2003;
A. Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Mondadori, Milano, 2017;
S. Nitti, Lutero, Salerno Editrice, Roma, 2017.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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di Chris Burnett
(Los Angeles, California)

Il 14 luglio 2025, il pastore John MacArthur è stato chiamato in gloria all’età di 86 anni, dopo due anni segnati da complicazioni cardiache e polmonari. Per 56 anni ha guidato fedelmente la Grace Community Church a Los Angeles, in California, plasmando il panorama evangelico conservatore moderno attraverso la sua predicazione e leadership. La sua scomparsa segna la fine di un’epoca che ha profondamente influenzato l’esposizione biblica e l’evangelicalismo conservatore negli Stati Uniti e nel mondo. Il pastore John ha lasciato la moglie Patricia, sposata nel 1963, quattro figli, quindici nipoti e nove pronipoti.

La storia della mia famiglia con il pastore John copre cinque decenni e tre generazioni, segnata da tappe fondamentali. Mio padre si convertì da adolescente nella chiesa del padre di John, quando John era ancora semplicemente conosciuto come “Johnny.” Fu lui a battezzare mia madre quando, a diciotto anni, lasciò il cattolicesimo romano per seguire Cristo. Quando ero neonato, prese tra le braccia me e mia sorella gemella per dedicarci al Signore. Anni dopo, tornato da sette anni di missione in Italia, divenni studente nel suo seminario, The Master’s Seminary. In quegli anni, John prese in braccio mio figlio più piccolo per pregare con lui prima di un intervento al cuore e consolò personalmente mia moglie Erma quando suo fratello morì di cancro. In mezzo secolo alla Grace Community Church, la nostra famiglia ha condiviso numerosi momenti speciali con il pastore John, che ci hanno sempre ricordato che, pur essendo uno dei più noti insegnanti della Bibbia in America, desiderava essere conosciuto soprattutto come un amico.

È un tempo di dolore per la nostra famiglia e per tutta la Grace Church, ma anche un’opportunità per riflettere su ciò che John MacArthur ha rappresentato per noi e per il mondo. Il seguente riassunto della sua vita, del suo ministero, delle sue convinzioni e del suo carattere vuole mostrare come la sua influenza continuerà a risuonare nell’eternità.

Vita e Ministero

John Fullerton MacArthur Jr. nacque il 19 giugno 1939, quinta generazione di una straordinaria linea di predicatori che risale al Canada e alla Scozia. Suo padre fu pastore battista ed evangelista itinerante, noto per il suo ministero tra le celebrità di Hollywood e per il programma radiofonico di grande impatto Voice of Calvary.

Nel febbraio 1969, a 29 anni, John fu chiamato a servire nella Grace Community Church di Sun Valley, California. La sua prima predicazione domenicale fu tratta da Matteo 7:21: “Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli; ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.” Con questo messaggio inaugurale, John mise subito in discussione la genuinità della fede professata e stabilì il tono di tutto il suo ministero: una predicazione esaustiva, versetto per versetto, fondata su circa 30 ore settimanali di studio accurato della Scrittura.

L’ampia richiesta delle sue predicazioni portò alla nascita del ministero radiofonico Grace to You, con il motto: “La verità di Dio, un versetto alla volta.” Alla fine della sua opera, la biblioteca gratuita su gty.org contava oltre 3.300 sermoni, che coprono ogni versetto del Nuovo Testamento e buona parte dell’Antico. Per grazia di Dio, il sito ha recentemente superato i 225 milioni di download gratuiti.

Il pastore John è stato giustamente riconosciuto come uno dei più influenti predicatori esegetici della sua generazione. La sua predicazione era segnata da autorità biblica, chiarezza del testo, comunicazione coinvolgente e amore per Gesù Cristo. Ma la vera forza non stava soltanto nei metodi interpretativi che applicava, bensì nell’evidente realtà che Dio gli aveva donato un carisma unico per insegnare la Parola. Quel dono, ricevuto dal Signore, aveva lo scopo di farci “crescere nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo” (2 Pietro 3:18).

L’eredità lasciata da MacArthur sul piano editoriale e formativo è immensa. Ha scritto quasi 400 libri e guide di studio, tradotti in più di venti lingue. Tra i più noti, la Bibbia di studio MacArthur, con 20.000 note specifiche per versetto e oltre due milioni di copie vendute, e la collana di commentari sul Nuovo Testamento in 34 volumi—ora affiancata da una serie in sviluppo sull’Antico Testamento, per continuare a formare pastori in tutto il mondo.

Nel 1985 fu nominato presidente del The Master’s College (oggi The Master’s University), e l’anno seguente fondò The Master’s Seminary, servendo come presidente e poi come cancelliere per oltre 35 anni. Attraverso queste istituzioni e The Master’s Academy International (TMAI), più di 10.000 uomini sono stati formati al ministero pastorale in 41 nazioni. Ho il privilegio di servire con entrambe e di vedere una nuova generazione di fedeli insegnanti della Bibbia crescere ed essere inviati per adempiere la Grande Commissione (Matteo 28:18–20).

La visione di John per un ministero fedele continua ancora oggi attraverso la Shepherds’ Conference, ospitata ogni anno presso la Grace Community Church e il Master’s Seminary. All’ultima edizione, oltre 5.000 pastori e leader provenienti da tutti i 50 stati americani e da 70 nazioni si sono riuniti, desiderosi di essere nutriti dalla Parola di Dio per poter nutrire a loro volta il gregge nei propri contesti.

Convinzioni e Controversie

L’intero ministero di MacArthur si fondava su una convinzione incrollabile: la Scrittura è pienamente sufficiente per ogni verità spirituale, capace di offrirci “tutto ciò che riguarda la vita e la pietà” (2 Pietro 1:3). Difese con chiarezza il metodo storico-grammaticale, affermando che la Bibbia deve essere interpretata in modo semplice, letterale e conforme all’intento originale dell’autore.

Da questa base scaturirono molte delle sue posizioni più distintive. MacArthur sostenne la creazione letterale in sei giorni, rifiutò le teorie evoluzionistiche e mise in guardia contro l’influenza della psicologia secolare nella consulenza pastorale, sottolineando i pericoli di affidarsi a modelli umani che possono distorcere la verità rivelata. Rigettò anche la visione della Teologia dell’Alleanza secondo cui la chiesa avrebbe sostituito Israele, affermando invece che le promesse dell’Antico Testamento rivolte a Israele si realizzeranno letteralmente nel futuro.

Nel 1988 pubblicò Il Vangelo secondo Gesù (Edizione Coram Deo), un’opera che suscitò un ampio dibattito nel mondo evangelico. In essa sosteneva che la vera fede comporta sottomissione a Cristo come Signore, e non solo come Salvatore. Alcuni critici lo accusarono di confondere fede e opere, mentre teologi come J. I. Packer lo sostennero, riconoscendo in quelle parole la continuità con la dottrina storica della Riforma.

MacArthur espresse anche una forte opposizione al movimento carismatico, che considerava una deviazione dal cristianesimo biblico. Da cessazionista convinto, sostenne nei suoi libri I carismatici (1992, Ed. Centro Biblico) e Strange Fire (2013) che i doni dello Spirito manifestati nell’epoca del Nuovo Testamento fossero cessati con la fine dell’era apostolica, e riteneva molte delle manifestazioni contemporanee un travisamento dell’opera dello Spirito Santo.

Durante la pandemia di COVID-19, guidò con fermezza la Grace Community Church nella riapertura, nonostante le restrizioni imposte dalle autorità. Affermava con decisione che la chiesa locale è essenziale per la vita cristiana. La battaglia legale che ne seguì si concluse con una vittoria significativa a favore della libertà religiosa, raccontata nel documentario The Essential Church, che ripercorre la sua leadership coraggiosa in un tempo di forte pressione pubblica.

L’Eredità di un Pastore Fedele

Chi ha conosciuto personalmente MacArthur ha spesso notato quanto il suo carattere mite contrastasse con la forza con cui predicava dal pulpito. Nella vita di tutti i giorni, molti di noi lo ricordano come un uomo gentile, sempre rispettoso, e profondamente dipendente da Cristo. Il suo cuore pastorale si rendeva visibile in tanti piccoli gesti: visite inaspettate in ospedale, colloqui personali, e atti di generosità sincera. Il suo impegno era instancabile — 30 ore settimanali di studio, predicazioni multiple ogni domenica, insegnamento durante la settimana alla chiesa, all’università e al seminario, oltre a numerosi interventi mediatici e conferenze — molti dei quali continuano a circolare ancora oggi online.

Tra tutte le sue influenze, credo che la più duratura sia questa convinzione profonda che ci ha trasmesso: che la Scrittura è lo strumento scelto dallo Spirito Santo per attirare le anime a Cristo e trasformarle secondo la Sua immagine.

Sono grato che l’influenza di MacArthur sia arrivata anche in Italia, dove il suo impegno per la predicazione versetto per versetto ha messo radici grazie a numerose traduzioni fedeli e iniziative pastorali.

Ciò che è cominciato con un uomo determinato a “liberare la verità di Dio, un versetto alla volta,” è diventato un movimento globale. Il messaggero è tornato a casa, ma la Parola che ha proclamato continua la sua corsa — attraverso la voce di espositori fedeli, fino al giorno in cui ogni popolo, lingua e nazione si prostrerà davanti al trono per adorare l’Agnello

Chris Burnett insegna presso The Master’s Seminary e serve in ambito accademico con The Master’s Academy International, che forma pastori in 85 paesi attraverso 20 scuole.
Vive a Los Angeles con sua moglie Erma e i loro tre figli.

 

Foto di copertina: David Torres

 

 

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di Miroslav Volf

articolo tradotto e pubblicato con il permesso di Christianity Today

Molto tempo prima di noi, l’umanista Giovanni Pico della Mirandola è stato il primo sostenitore del transumanesimo. Nella sua Orazione sulla dignità dell’uomo del 1486, egli fa pronunciare al Creatore le seguenti parole ad Adamo, il primo essere umano:

Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che preferirai. Potrai degenerare nei esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini.

Pico della Mirandola è il santo non ufficiale dei transumanisti perché spingeva la plasticità umana oltre il limite. Credeva che le forme superiori degli esseri umani fossero, in realtà, più che umane, pensava che fossero divine.

Nel XXI secolo, il filosofo Nick Bostrom definisce un postumano come un essere per il quale almeno una capacità centrale generale, come la durata della salute, la cognizione o le emozioni, “supera di gran lunga il massimo raggiungibile da qualsiasi essere umano attuale senza ricorrere a nuovi mezzi tecnologici”.

L’azienda di neurotecnologie Neuralink ha sperimentato interfacce cervello-computer per persone paralizzate, per aiutarle a comunicare e a controllare dispositivi a distanza. Neil Harbisson, nato daltonico, nel 2004 ha ricevuto un impianto sul cranio sotto forma di antenna che gli permette di “vedere” i colori come vibrazioni audio. Un regista di nome Rob Spence ha sostituito il suo occhio destro con una videocamera wireless e si definisce un “eyeborg”. L’amministratore delegato della biotecnologia Elizabeth Parrish si è sottoposta a una terapia genica sperimentale nel 2015 e ha dichiarato di aver rallentato il processo di invecchiamento con successo .

Altri potenziali sviluppi sono puramente estetici. “Se poteste rimodellare il vostro piede e trasformarlo in un tacco a zeppa, lo fareste?”, si chiede un articolo a proposito delle modifiche del corpo nel mondo della moda. “O che ne direste di un capo d’abbigliamento che consiste in morbide corna turchesi su entrambe le spalle?”.

Basta leggere il grande filosofo pessimista  Schopenhauer che disse che “la vita oscilla come un pendolo avanti e indietro tra il dolore e la noia”, per essere tentati di unirsi al progetto transumanista. Ma se l’obiettivo di trascendere l’umanità sia degno di essere perseguito dipende dal fatto che crediamo che l’essere semplicemente umani sia qualcosa che deve essere superato.

Io, per esempio, credo che così come c’è bellezza e bontà nell’essere un’aquila o un delfino, c’è bellezza e bontà nell’essere umano e basta. L’articolo centrale della fede cristiana, dopo tutto, è che il Verbo divino si è fatto carne umana. Dimorando tra di noi, il Verbo ha santificato l’umanità nella sua finitudine e fragilità. Allo stesso tempo, non sono esclusi i miglioramenti,e mi riferisco allo sviluppo e all’uso di strumenti, anche integrati nel nostro corpo.

Qualche anno fa, ho tenuto un corso all’Università di Yale su fede e globalizzazione con il primo ministro britannico Tony Blair e un collega laico. A un certo punto della lezione, il mio collega ha preso in mano una pillola e l’ha mostrata agli studenti. Quando le persone religiose sono malate, ha detto, pregano, credendo che Dio farà un miracolo. Ma le persone laiche si affidano alle meraviglie della medicina moderna, come questa minuscola pillola che cura quasi istantaneamente la pressione alta. Ha concluso che la medicina moderna, ovviamente, funziona meglio di Dio.

Quando ha finito, mi sono rivolto a lui e gli ho detto: “Io e te siamo d’accordo su una cosa importante: entrambi neghiamo lo stesso Dio!”. Mi guardò perplesso.

“Il dio che lei nega è incompatibile con l’inventiva e il lavoro umano, con tutti i processi del mondo”, dissi. “Anch’io nego quel Dio. Al contrario, il Dio in cui credo rende possibile l’intera realtà del mondo in tutta la sua dinamica complessità, compresi l’inventiva e il lavoro umani”.

Le prime pagine della Bibbia raccontano di Dio che lavora con queste realtà mondane. Nel Giardino dell’Eden, Dio non fece cadere il cibo dal cielo nella bocca di Adamo ed Eva e, facendo pressione sulle loro mascelle, li costrinse a masticare. Al contrario, essi lavoravano per il cibo, coltivando e custodendo il giardino; e nel loro lavoro e sotto il loro lavoro, anche Dio era all’opera.

Quando si tratta dei dilemmi etici che incontriamo quando parliamo di transumanesimo, dovremmo esercitare notevole cautela. Tuttavia, è un errore pensare che l’opera divina e l’opera umana, compresi i progressi tecnologici, si escludano a vicenda.

Gli uomini sono arrivati a credere in Dio quando non avevano alcuna conoscenza scientifica sulla struttura di base della realtà, quando il miglior antisettico era la lavanda e quando il mezzo di trasporto dominante erano i loro piedi nudi e callosi.

Sebbene la nostra comprensione del mondo e, quindi, della relazione di Dio con il mondo, sia cambiata, noi uomini moderni possiamo ancora credere in quello stesso Dio ora che stiamo esplorando le proprietà astrofisiche e quantistiche dei buchi neri, modificando il genoma per prevenire le malattie e migliorare le capacità umane, e viaggiando in auto senza conducente, e possiamo credere senza abbandonare la ragione.

Più potere abbiamo, più è importante scegliere con saggezza la direzione di base della nostra vita. Più strumenti intelligenti e potenti creiamo, più dobbiamo essere chiari sugli scopi umani che questi strumenti serviranno. E l’unico modo per discernere quali scopi siano degni della nostra umanità è sapere di cosa dobbiamo fidarci e cosa dobbiamo amare sopra ogni cosa e di che tipo di esseri umani speriamo di essere.

Essere umani, creati nell’imago Dei, significa vivere una visione della vita buona. Questa visione traccia un ritratto del tipo di uomo che dovremmo essere e fornisce i criteri di orientamento per ciò che dovremmo desiderare e per come dovremmo vivere. Tutti noi viviamo in base a una visione di questo tipo, sia che la abbracciamo consapevolmente sia che rimanga incoerente e nascosta alla nostra vista, intessuta nel tessuto delle nostre credenze e pratiche.

Poiché le visioni della vita buona hanno per definizione un carattere normativo, la scienza non può formularle. La conoscenza di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che probabilmente sarà, per quanto precisa e dettagliata, non può mai prescrivere ciò che dovrebbe essere.

Immaginiamo di aver deciso di rinunciare alla privacy e di permettere la raccolta di tutti i dati disponibili su di noi: tutte le nostre conversazioni e la nostra corrispondenza, la nostra salute, le nostre abitudini e i nostri acquisti. Un algoritmo altamente intelligente potrebbe elaborare un resoconto eccezionalmente accurato del nostro comportamento e quindi sarebbe probabilmente in grado di prevedere cosa faremmo in molte situazioni. Potrebbe dirci cosa desideriamo e cosa troviamo desiderabile, persino cosa crediamo di chi dovremmo essere e cosa dovremmo fare. Potrebbe persino arrivare a conoscerci meglio di noi stessi, uno scenario con cui Yuval Noah Harari conclude il suo libro Homo Deus: breve storia del futuro.

Ma l’unica cosa che un algoritmo così intelligente non sarebbe in grado di dirci è chi dovremmo essere, cosa dovremmo fare e verso cosa dovremmo tendere, chi oggi dovremmo essere e cosa dovremmo desiderare. La scienza e i progressi tecnologici non possono darci una visione della vita vera e buona. La ragione non può portare alla luce ciò che dovrebbe essere più importante per noi, non può rispondere alla domanda su come noi, come individui e come comunità umana, dovremmo vivere. Per questo, noi credenti ci rivolgiamo a Gesù Cristo.

L’articolo LA QUESTIONE TRANSUMANISTA. Il nostro essere semplicemente umani è un qualcosa che deve essere superato? proviene da DiRS GBU.

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L’evoluzione biologica alla base della morale:

Telmo Pievani divulgatore di scienza e di speranza (laica)

di Gianluca Nuti

 

Raccontare la vita

Fin dai suoi albori con Charles Darwin, la teoria dell’evoluzione per selezione naturale ha assunto i toni di una narrazione: il racconto della storia della vita sulla terra. Come ci spiega Telmo Pievani nell’agile libretto La teoria dell’evoluzione. Attualità di una rivoluzione scientifica (Mulino, 2006), l’explanandum della teoria, allora come oggi, era la “discendenza con modificazioni”; l’explanans era la teorizzazione di variazione, ereditarietà e speciazione, i tre “motori” tradizionali dell’evoluzione. Tuttavia, la forma in cui la biologia distribuisce e ordina questi tre nodi esplicativi, allora come oggi, è la forma narrativa: la storia di come le forme di vita più adatte di altre alla sopravvivenza in una data nicchia ecologica (variazione) hanno trasmesso questo vantaggio alla prole (ereditarietà), diventando così, generazione dopo generazione, sempre più specializzate (selezione o speciazione).

Non è certo se la forma narrativa dell’evoluzionismo sia necessaria o accidentale, ovvero se sia una caratteristica intrinseca all’oggetto della spiegazione (la diversità degli organismi viventi), o se si tratti di una veste assunta per scopi divulgativi. Ciò che è certo è che, grazie alla sua forma di racconto, la teoria dell’evoluzione si presta non solo a influenzare moltissime altre discipline con il concetto di sviluppo evolutivo e adattativo (la linguistica, la pedagogia, la stessa informatica), ma anche a una facile divulgazione fra il grande pubblico. Proprio a questa divulgazione il già citato biologo e filosofo della scienza Pievani si è consacrato ormai da diversi anni, con diversi titoli e iniziative anche artistiche o teatrali che gli hanno valso vari premi (La vita inaspettata, Imperfezione, e Serendipità fra tutti), e una recentissima apparizione anche fra gli autori delle tracce proposte in prima prova alla maturità.

 

Un’etica a partire dalla natura?

La più alta divulgazione scientifica, tuttavia, spesso non si limita a raccontare e spiegare i fatti della scienza, ma si impegna anche per connotare esteticamente ed eticamente il proprio resoconto. Fin da Lucrezio, passando da Spinoza e arrivando ai giorni nostri al Nuovo Ateismo, la costruzione di visioni del mondo liberatorie e solidamente razionali a partire dal dato scientifico è stata intrapresa con una certa regolarità. La teoria dell’evoluzione non è da meno: la divulgazione di David Sloan Wilson o Stephen Jay Gould (oltreoceano) e di Pievani (in terra nostrana) non è divulgazione solo di fatti biologici, genetici ed ecologici dell’evoluzione, ma di una vera e propria “buona notizia”[1] che da questi emerge chiaramente.

Si tratta di un passaggio tutt’altro che scontato e tutto invece da problematizzare. Perché una storia afinalistica di contingenze e ramificazioni, da cui emerge in modo improbabile l’uomo auto-cosciente, dovrebbe produrre in noi senso di solidarietà con gli altri viventi, senso di responsabilità verso l’ambiente e senso di dignità in quanto esseri coscienti? Il dato biologico può legittimamente essere letto (e raccontato) in questo modo, ma non solo in questo; potrebbe, ad esempio, gettarci nella disperazione del nichilismo. Perché la “imperfezione generativa”[2] del metodo scientifico dovrebbe rappresentare un fatto consolante? Lo è forse nell’ordo cognoscendi; ma se guardiamo alle cose secondo l’ordine in cui esse sono, e non secondo l’ordine in cui le conosciamo, potrebbe essere davvero poco consolante la notizia che la nostra conoscenza è intrinsecamente e irrimediabilmente fallace. Insomma, cercare o desumere un orientamento morale a partire dal dato scientifico rimane sempre un’operazione piuttosto rischiosa.

 

Una notizia “passabile” e una buona notizia

«Dio fece gli animali selvatici della terra secondo le loro specie, il bestiame secondo le sue specie e tutti i rettili della terra secondo le loro specie. Dio vide che questo era buono» (Genesi 1:25).

Il grande Libro della natura offre pagine meravigliose, visioni mozzafiato, esperienze profondamente emozionanti. I meccanismi imperfetti e ingegnosi di adattamento e la straordinaria ricchezza di specializzazioni che questi hanno generato sono più che affascinanti: producono stupore e riverenza. Il desiderio di trovare in tutto questo ispirazione per condurre una vita degna dell’humanitas che ci contraddistingue è condivisibile, e anzi condiviso dagli autori ispirati di Genesi 1 e del Salmo 19. Tuttavia, un annuncio di dignità e libertà radicato solo nel Libro della creazione non potrà salire più in alto della sua stessa sorgente: sarà un semi-vangelo, una notizia “passabile”. È solo quando riconduciamo tutto questo all’ingegno e alla potenza dell’Altissimo, quando lasciamo che sia lui a stabilire che tutto questo è “buono”, quando la storia che raccontiamo proviene dal Libro della Scrittura, che la notizia che divulgheremo sarà davvero buona.

Ogni cosa, anche le discipline scientifiche, ha la propria origine in Genesi 1, e la biologia (anche evoluzionistica) non fa eccezione. La buona notizia che annunciamo è che chiunque accetta di scoprirsi creato e redento da Dio troverà in lui la vera vita (non solo biologica).

 

 

[1] https://www.micromega.net/giornata-mondiale-dell-ambiente-intervista-a-telmo-pievani

[2] https://www.raiplay.it/video/2019/05/Quante-storie-3fef7049-1060-45f0-aada-0b7c6b87e0c4.html

L’articolo L’evoluzione biologica alla base della morale: Telmo Pievani divulgatore di scienza e di speranza (laica) proviene da DiRS GBU.

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In questi giorni (a partire dal 20 maggio) si celebrano i 1700 dal Concilio di Nicea del 325. Abbiamo pensato di porre tre domande sull’argomento al prof. Giancarlo Rinaldi, uno dei massimi esperti di storia del cristianesimo antico nel mondo evangelico ed autore di diversi testi che sono stati pubblicati dalle edizioni GBU. Tra le tante pubblicazioni per l’occasione ricordiamo Cristianesimi nell’antichità, dove si parla anche di questo argomento.

Che importanza ha avuto per il cristianesimo questo Concilio?
L’importanza o, meglio, un aspetto della sua importanza si può evincere già dall’aggettivo ‘ecumenico’ che caratterizza l’evento. Il senso della parola ora è ben diverso da quello che si percepiva allora, agli inizi del secolo quarto. Per noi oggi ‘ecumenico’ è ciò che riguarda, in modo generico, il dialogo tra le confessioni religiose, specialmente quelle di matrice cristiana, finalizzato a una migliore comprensione reciproca o anche a realizzare esperienze liturgiche in comune. Allora, all’epoca del concilio, ecumenico era epiteto che si attagliava all’imperatore romano: non si trattava di un semplice governatore provinciale o di un modesto re, ma del sovrano di quella che si riteneva fosse l’ecumene intera, cioè tutta la terra. Certo, anche i re di Persia ventavano la stessa prerogativa ma i testi che riguardano l’evento che celebriamo sono occidentali, cioè di quell’impero romano che proprio con Costantino si avviava ad essere ‘bizantino’. Il concilio fu ecumenico proprio perché fu Costantino imperatore a convocarlo e non, come era avvenuto precedentemente con i sinodi da vescovi sia pur competenti di vaste aree geografiche. Non voglio entrare nel gran problema relativo alla sincerità della ‘conversione’ di Costantino: quale storico potrebbe sindacare nei meandri dell’anima umana e, per giunta, dopo tanti e tanti secoli? Sta comunque di fatto che Costantino era allora, e sempre rimase, pontifex maximus, cioè capo di tutte le associazioni religiose dell’Impero romano; in tale veste egli aveva a cuore la pace religiosa ed era una realtà di fatto che dopo le due disposizioni imperiali che concedevano legittimazione al culto cristiano (311 Galerio; 313 Costantino e Licinio) nelle chiese non si contarono più i dissidi e le controversie. Spesso i temi teologici facevano da maschera per rivalità personali o regionali. Il nostro concilio fu convocato e celebrato nel 325 per dirimere la controversia sorta a sèguito della predicazione di Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto che riduceva la consistenza divina della persona di Gesù fino a farne, secondo alcuni suoi seguaci, una semplice creatura sia pur la prima e la più alta. Ario fu condannato a Nicea, ma già nei suoi ultimi anni Costantino, che morì nel 337, si pentì delle deliberazioni di quell’assise e avviò una politica di riavvicinamento con Ario. L’uno e l’altro morirono grosso modo nello stesso torno di tempo, ma l’arianesimo salì al trono con il figlio di Costantino che si chiamava Costanzo II. Toccò poi a un altro concilio ecumenico, quello di Costantinopoli del 381, ritornare sul tema e ribadire la dottrina trinitaria.

Gli evangelici di solito mettono in secondo piano la storia del cristianesimo antico? Perché anche per noi invece è importante un evento come questo?
Dobbiamo distinguere tra gli evangelici italiani e tutti gli altri. In Inghilterra, ad esempio, la chiesa anglicana e metodista hanno studiato a fondo la ‘patristica’ e non si contano i contributi a stampa, sovente pregevolissimi, che costoro hanno prodotto. Lo stesso può dirsi anche dei luterani in Germania. In Italia le cose stanno diversamente e i motivi sono diversi. All’epoca della grande evangelizzazione post unitaria un profluvio di sacerdoti cattolici convertiti alla fede evangelica utilizzò le competenze acquisite negli anni di studio in seminario per dimostrare che non soltanto la Bibbia condannava quel sistema teologico e organizzativo dal quale erano fuggiti: la chiesa di Roma. I loro libri sono ora una rarità editoriale ma chi ha la fortuna di possederli e poterli leggere apprezza una erudizione non comune specialmente nel campo della storia dell’esegesi biblica. Passata questa stagione ‘eroica’ la Chiesa Valdese, che aveva una struttura e un organo formativo più rilevante, perse il suo interesse per la patristica o, per meglio dire, se ne avvalsa sobriamente e quanto bastava prevalentemente per finalità apologetiche. La grande stagione della prevalenza (altri direbbero ‘egemonia’) della teologia barthiana nella Facoltà Valdese o nei pulpiti diede il colpo di grazia all’attenzione sugli studi di patristica e, pertanto, di storia della chiesa antica nella sia pur cospicua e ammirevole attività dei valdesi, e ciò a livello formativo come divulgativo, editoriale come multimediale. L’esempio più eloquente, a mio avviso, di questa perdita d’interesse e dei limiti di un ‘monopolio’ di un indirizzo teologico su tutto il resto è costituito dalla vicenda di Fausto Salvoni, un dottissimo sacerdote cattolico che negli anni del dopoguerra pagò un durissimo prezzo di emarginazione per la sua conversione all’evangelo e il suo allontanamento da quella chiesa di Roma nella quale aveva esercitato un cospicuo magistero. Salvoni avrebbe potuto egregiamente arricchire il panorama degli studi evangelici in Italia con la sua competenza e grande capacità di divulgazione a più livelli, ma così non avvenne e, con la Facoltà di via Cossa, anche l’intero evangelismo italiano perse una risorsa: Salvoni lavorò in modo piuttosto isolato a Milano grazie al sostegno di una Chiesa di Cristo del Texas. Peccato!

Il Credo Niceno è definito talvolta come una grande operazione di mediazione culturale? Vogliamo soffermarci su questo aspetto?
Certamente la definizione è esatta. Il pensiero religioso all’epoca non era distinto da quello politico e, anche, filosofico. Era ancora di là da venire la ‘laicizzazione’ che avrebbe separato la sfera della religione da quella della politica e, ancora, la riflessione della fede e sulla fede dalla ratio del cogitare filosofico. La dottrina di Gesù e su Gesù aveva esordito sulle colline della Galilea in un ambiente profondamente giudaico. Ma già la sua prima registrazione scritta, intendo tutti i ventisette libri del Nuovo Testamento, attesta una sua ‘traduzione’ nella lingua greca. E lingua significa anche universo di pensiero. Il grande storico luterano Adolf von Harnack parlava di ellenizzazione del cristianesimo ravvisando in questo fenomeno quasi un’alterazione del genuino e originale messaggio gesuano. Mi permetto di dissentire dalla severità di questo giudizio: la traduzione di qualsiasi messaggio è azione indispensabile in qualsiasi esperienza di comunicazione. Ogni missionario che non riduca il suo ruolo a quello di un colonizzatore sa bene di cosa parlo. Con l’ascesa della cristianità avviata dalla svolta costantiniana si rese irrinunciabile un lavoro di accomodamento del messaggio di Gesù nelle categorie linguistiche e culturali della cultura allora prevalente: la filosofia greca. Questo fu il lavoro degli apologeti del secolo secondo e, successivamente, dei teologi del quarto; l’impresa s’accrebbe e si approfondì durante quest’ultimo secolo che, ricordiamolo, vide nel 380 quell’editto di Tessalonica che imponeva la fede cristiana (così come professata dai vescovi di Roma e di Alessandria) quale religione dell’Impero. Vinta la battaglia politica, bisognava vincere quella culturale. E la teologia sempre più imparò ad avvalersi del lessico filosofico greco: persona, sostanza, ipostasi, trinità e così via furono concetti che attestano questo gigantesco sforzo di mediazione culturale. La chiesa imparò a parlare con la lingua dei filosofi. Che pensare di oggi, quando questa lingua ai nostri giovani suona obsoleta e incomprensibile? Sarebbe necessaria un’altra impresa di mediazione culturale per salvare l’essenza del cristianesimo (e qui ricorro ancora a un’espressione cara ad Harnack) con vesti linguistiche e concettuali più chiare, aggiornate e adeguate. Ce la faremo? La domanda si traduce immediatamente in un oggetto di preghiera, in considerazione della difficoltà del compito.

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di Francesco Raspanti

(Bologna, Dottore di Ricerca in Storia Medievale)

 

Nel suo discorso di insediamento il nuovo pontefice, Leone XIV, ha affermato “Sono un figlio di Sant’Agostino, agostiniano, che ha detto con voi sono cristiano e per voi vescovo”, per poi concludere con una supplica alla Madonna di Pompei e un’ave Maria.

Questi i fatti, in questa breve paginetta vorrei attirare l’attenzione del lettore, sicuramente pensieroso e per certi aspetti anche speranzoso su il testo citato da Leone XIV di Agostino. Si tratta del Sermone 340, di cui riporto, in traduzione il passo citato, ma con il contesto:

 

«Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell’incarico ricevuto, questo della grazia; quello è occasione di pericolo, questo di salvezza. Infine, quasi trovandoci in alto mare, siamo sballottati dalla tempesta di quell’attività: ma ricordandoci che siamo stati redenti dal sangue di lui, con la serenità di questo pensiero, entriamo nel porto della sicurezza; e, nella grazia che ci è comune, troviamo riposo dall’affaticarci in questo personale ufficio. Pertanto, se mi compiaccio di essere stato riscattato con voi più del fatto di essere a voi preposto, allora, secondo il comando del Signore, sarò più efficacemente vostro servo, per non essere ingrato quanto al prezzo per cui ho meritato di essere servo con voi».

Senza voler troppo gravare si vuole solamente sottolineare come Agostino parli in modo chiaro ed inequivocabile della grazia e di come il suo discorso, tenuto nell’occasione dell’anniversario della sua elezione a vescovo di Ippona oltre 1600 anni fa, non menzioni in alcun modo il culto mariano, ma si ponga come un insegnamento ancora valido per noi oggi.

A fronte di questo breve testo si permetta all’autore di queste due righe che sono più che un pensiero la semplice narrazione e contestualizzazione di fatti. Agostino e la sua opera non sono e non devono essere percepite come esclusivo patrimonio della chiesa cattolica, ma come un lascito che un cristiano di sedici secoli fa ha donato a noi tutti credenti. Non si pensi che le sue parole, anche se citate in un solo breve passo, siano di esclusivo utilizzo per gli agostiniani. Il vescovo di Ippona è prima di tutto un cristiano, a cui preme “La grazia che ci è comune” perché tutti noi siamo stati “redenti dal sangue di Lui”.

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di Franco Iacomini

 

Articolo tradotto e pubblicato con il permesso di Christianity Today

Il teologo peruviano non aveva paura di discutere con i marxisti o di sfidare la Chiesa.

 

Samuel Escobar, pastore e teologo peruviano la cui passione per la giustizia sociale e l’evangelizzazione ha dato vita a un nuovo campo della missiologia, è morto il 29 aprile a Valencia, in Spagna. Aveva 90 anni.

Nel 1970, Escobar e i suoi colleghi teologi latinoamericani René Padilla, Orlando Costas e Pedro Arana coniarono il termine misión integral per indicare una visione teologica che vedeva l’evangelizzazione e la giustizia sociale come componenti inseparabili della vita cristiana. Essi consideravano questo principio come un modo per applicare la fede evangelica alle ingiustizie che erano davanti ai loro occhi, evidenziando che la cura dei poveri era al centro del messaggio di Gesù.

Al Congresso inaugurale di Losanna del 1974, Escobar ha tenuto un discorso plenario a più di 2.000 leader cristiani provenienti da 150 Paesi, sostenendo che la Chiesa ha la responsabilità di affrontare la povertà e le privazioni che colpiscono i suoi membri più vulnerabili. 

“La via di Cristo è quella del servizio”, ha detto in un discorso che ha citato Matteo 20:27 (“Chi vuole essere il primo deve essere il vostro schiavo”) e Giovanni 20:21 (“Come il Padre ha mandato me, io mando voi”).

Escobar è nato ad Arequipa, una città del Perù meridionale, nel 1934. I suoi genitori divennero protestanti poco prima della sua nascita, nonostante il Paese fosse quasi interamente cattolico. Il padre di Escobar era un ufficiale di polizia e quando lui e la moglie si separarono, il figlio andò a vivere con lei. Escobar ha frequentato una scuola elementare gestita da missionari e in seguito è stato uno dei due soli protestanti tra i 500 studenti della sua scuola superiore pubblica di Arequipa. 

Giovane che “divorava libri e scriveva poesie”, Escobar entrò nella scuola di arti e letteratura dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos di Lima nel 1951. Nello stesso anno, un missionario dei Sothern Baptist, M. David Oates, battezzò Escobar presso la Iglesia Bautista Ebenezer de Miraflores a Lima. In seguito, dal 1979 al 1984, Escobar ha servito come pastore della chiesa. Nel 1958 sposò Lily Artola, che aveva conosciuto in chiesa. 

Dopo essersi laureato in pedagogia nel 1957, Escobar iniziò a lavorare come segretario itinerante per l’America Latina presso l’International Fellowship of Evangelical Students (IFES). Nell’ambito di questo lavoro, Escobar coinvolse i giovani che erano stati fortemente influenzati dall’ideologia di sinistra, che si era diffusa in America Latina a partire dalla Rivoluzione russa del 1917 e aveva acquisito nuova forza dopo la Rivoluzione cubana del 1959. 

“Il marxismo era un’ideologia potente nei campus e l’estrema povertà, le dittature militari e l’oppressione dei poveri rendevano il suo messaggio rilevante”, ha scritto

Escobar ha visitato spesso le università latinoamericane, tenendo conferenze sull’evangelizzazione e le missioni dando ampio spazio al dibattito. 

“I marxisti venivano non solo per confutarmi, ma anche per sfruttare l’occasione per proclamare il loro messaggio”, ha raccontato. “Gli studenti evangelici erano sorpresi che fosse possibile discutere con i marxisti e presentare il Vangelo come una valida alternativa”. 

Nel 1967, Escobar pubblicò Diálogo Entre Cristo y Marx (Dialogo tra Cristo e Marx), una raccolta di saggi che derivavano da queste conferenze. In occasione di una campagna evangelistica svoltasi nello stesso anno, gli organizzatori dell’evento distribuirono 10.000 copie ai partecipanti.

Nonostante la fame di dialogo, “nell’atmosfera evangelica in cui sono cresciuto in Perù negli anni 1950, un segno distintivo di un evangelico in buona fede era che non credeva o praticava il dialogo”, scriveva Escobar. 

Ciononostante, Escobar “studiò duramente e si preparò per parlare con gli studenti marxisti in un modo che avesse senso per loro, con una preoccupazione che era sia sociale che evangelistica”, ha detto il teologo brasiliano Valdir Steuernagel, che incontrò Escobar mentre era studente in Argentina nel 1972.

“Impegnarsi in un dialogo con gli altri sul percorso che li ha portati a Cristo può essere un primo passo prezioso per capire come possiamo essere d’aiuto – e non d’intralcio – nel cammino di molti altri a cui Cristo vuole arrivare”, ha scritto Escobar nel suo libro Evangelizar Hoy (Evangelizzare oggi). 

Mentre Escobar parlava e dialogava con gli studenti, il suo Paese era nel bel mezzo di un cambiamento significativo. Il Perù stava attraversando un periodo di disordini politici, con due colpi di Stato nel 1962 e nel 1968. 

Il Paese era anche al centro di una significativa migrazione interna. Nel 1950, il 59% di tutti i peruviani viveva sulle montagne delle Ande (oggi la stessa quantità di popolazione vive sulla costa), su terreni in gran parte di proprietà di un piccolo numero di élite. Stanchi della povertà e dell’oppressione, molti contadini cominciarono a trasferirsi nelle città costiere, dove soffrivano nelle baraccopoli, subendo lo sfruttamento a cui avevano cercato di sfuggire. 

Escobar e i suoi colleghi latinoamericani – Padilla, Costas e Arana – hanno sviluppato la misión integral, il loro modo di contestualizzare la fede evangelica di fronte alle ingiustizie che vedevano. (I quattro uomini hanno anche fondato la Fraternidad Teológica Latinoamericana, un’organizzazione che continua a promuovere la teologia latinoamericana contestualizzata). Le nuove convinzioni si rifacevano anche alla teologia della liberazione, che il sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez aveva sviluppato come risposta cattolica alle sofferenze che aveva osservato. 

Nei loro discorsi a Losanna 1974, Padilla ed Escobar hanno presentato alla Chiesa globale la loro convinzione che evangelizzazione e azione sociale dovessero andare di pari passo. In risposta, molti leader di orientamento evangelico conservatore etichettarono la missione integrale come marxista o di sinistra. Harold Lindsell, uno dei fondatori del Fuller Theological Seminary, scrisse per Christianity Today che “Escobar sembrava dire che il socialismo è preferibile al capitalismo e che molti latinoamericani sposano il marxismo per la sua enfasi sulla giustizia”. 

Escobar non ha mai abbracciato il marxismo. Ma la sua decisione di insegnare ai suoi studenti cristiani come combattere le idee marxiste con la Bibbia e la teologia ha dato fastidio anche i suoi colleghi dell’IFES, che non capivano perché fosse aperto al dialogo con questi gruppi. 

Escobar si rese anche conto che la sua passione per le discussioni politiche non aveva successo con tutti e che l’ondata di marxismo tra gli studenti non sarebbe durata per sempre. Durante una conferenza in Messico nel 1973, Escobar ascoltò uno studente che diceva che la sua generazione aveva rifiutato di cambiare il mondo attraverso le formule marxiste e si stava invece rivolgendo agli allucinogeni. “Che cosa ha da dire Cristo su questo?”, chiese. Stupito, Escobar condivise la promessa di Gesù di una vita abbondante e gli spiegò la futilità dell’esperienza religiosa senza la fede in Cristo.

Escobar rimase in sintonia con il suo contesto locale, indipendentemente dalla sua posizione geografica. Si trasferì, in tarda età, in Spagna. Dopo aver osservato il declino della Chiesa cattolica e l’ascesa del postmodernismo, ha approvato quando un predicatore locale ha pubblicato un’edizione illustrata del Libro dell’Ecclesiaste come strumento evangelistico.

“Un cambiamento di metodologia non sarà sufficiente. È necessario un cambiamento di spirito che consiste nel recuperare le priorità della persona stessa di Gesù”, ha scritto nel 1999 in Tiempo de Misión: América Latina y la Misión Cristiana Hoy (Tempo di missione: l’America Latina e la missione cristiana oggi). I titoli di alcune sue opere comunicano la sua convinzione della costante necessità di un cambiamento, come il libro del 1995 Evangelizar Hoy (Evangelizzare oggi), l’articolo del 1982 “Qué Significa Ser Evangélico Hoy” (Cosa significa essere evangelici oggi) o quello del 2016 “Campi di missione in movimento“.

“Nel XX secolo la parola missionario in Perù era riservata ai cristiani britannici o americani dai capelli biondi e dagli occhi azzurri che avevano attraversato il mare per portare il Vangelo nella misteriosa terra degli Inca”, ha scritto nel 2003 in A Time for Mission: The Challenge for Global Christianity. “Oggi c’è un numero crescente di meticci peruviani latinoamericani dagli occhi scuri, dalla pelle scura e di razza mista – inviati come missionari nei vasti altopiani e nelle giungle del Perù, così come in Europa, Africa e Asia”.

Escobar era sempre alla ricerca di “risposte alle realtà politiche, economiche e sociali del suo contesto”, ha detto Ruth Padilla DeBorst, teologa e figlia del caro amico di Escobar, René Padilla. 

Tuttavia, le idee di Escobar sulla misión integral continuano a plasmare l’attuale lavoro del Movimento di Losanna e a suscitare discussioni. 

“Ha dimostrato che la nostra fede non è una fede che si estranea, che si nasconde, che si rifiuta di parlare”, ha detto Steuernagel. “Al contrario, ha sfruttato ogni opportunità per condividere la sua testimonianza. E lo ha fatto con grazia e fermezza, cosa così importante in questi tempi polarizzati e arrabbiati”.

Escobar è stato presidente onorario dell’IFES e presidente dell’American Society of Missiology e ha vissuto in Perù, Argentina, Brasile, Canada, Stati Uniti e Spagna. In Canada è stato direttore generale dell’InterVarsity Christian Fellowship per quel Paese. Negli Stati Uniti ha insegnato al Calvin College dal 1983 al 1985 e all’Eastern Baptist Theological Seminary di Filadelfia come successore del suo vecchio amico Costas dal 1985 al 2005.

Nel 2001, la sezione missioni delle Chiese battiste americane USA chiese a Escobar di aiutare la denominazione locale in Spagna a sviluppare il suo programma di formazione teologica. Nei quattro anni successivi, Escobar si è diviso tra il Seminario Orientale e Valencia, dove viveva sua figlia, anch’essa di nome Lily. 

Nel 2004 a Lily, sua moglie, è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer ed Escobar e sua figlia si sono presi cura di lei fino alla sua morte, avvenuta nel 2015. A Escobar sopravvivono la figlia Lily, il figlio Alejandro e tre nipoti. 

La Primera Iglesia Evangélica Bautista de Valencia, dove Escobar frequentava il culto, ha ospitato il suo servizio funebre venerdì 2 maggio.

L’articolo E’ morto Samuel Escobar, che vedeva l’evangelismo e l’azione sociale come inseparabili proviene da DiRS GBU.

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Nei social, nei blog, su riviste prestigiose, in tutti i media di una parte considerevole del pianeta è balzata la notizia della morte di Papa Francesco, avvenuta anche dopo una crisi di salute che lo aveva fiaccato nel fisico, ma sicuramente non nella mente.

Cosa può dire un evangelico a proposito? Può tentare di tracciare un bilancio, senza farsi prendere da falsi trionfalismi o da facili critiche ad un pontificato che ha delineato la vita della Chiesa cattolica per poco più di un decennio.

Per iniziare bisogna partire dall’inizio: Francesco era un vescovo argentino, dell’ordine della Compagnia di Gesù che ha cercato di stupire sin dalla scelta del suo nome e sicuramente è riuscito in questo. Essere argentino (il primo pontefice che veniva effettivamente dal Sud del mondo) significava tante cose: in primo luogo era parte di una Chiesa che era stata emergente ma, allo stesso tempo, per quanto concerne il Sud America sempre più in concorrenza con un evangelismo sempre più in espansione. La sua appartenenza nazionale gli aveva permesso di comprendere (molto più di altri pontefici) i problemi di ingiustizia, povertà e conflitti (sociali e politici) presenti nel mondo, soprattutto quello dell’emisfero Sud del pianeta che abitiamo. Lo stesso Bergoglio era figlio di migranti e non poteva assolutamente vedere che con grande disapprovazione tutte le politiche sovraniste che i moderni stati occidentali stavano applicando, marginalizzando sempre più coloro che avevano bisogno di aiuto rifugio. 

Un’altra caratteristica era la profonda conoscenza del mondo evangelico. Proprio per questo, poco tempo dopo il suo insediamento, è stato il primo pontefice a fare visita ad una chiesa evangelica pentecostale a Caserta, guidata dal pastore Giovanni Traettino che tanto scalpore fece nel 2014 e che era frutto di un’amicizia personale ben raccontata recentemente nel libro intervista di Alessandro Iovino. 

Francesco visiterà anche la Chiesa Valdese a Torino ma solo in un secondo momento e sarà in Svezia nel 2016 per la celebrazione del Cinquecentenario della Riforma. Bene fanno, quindi, coloro che ricordano che, nei rapporti ecumenici, Francesco è stato sostanzialmente più vicino alla Chiese Occidentali (quelle protestanti o evangeliche) piuttosto che a quelle ortodosse (cui si avvicinerà solo 2018 a Bari nella speranza anche di una risoluzione pacifica di conflitti soprattutto nel Medio Oriente) e che i suoi rapporti ecumenici sono stati più fatti di gesti simbolici (visite nelle Chiese sorelle) che di avvicinamenti dottrinali. Il suo aver vissuto per buona parte della sua vita lontano dalla Curia lo ha portato sicuramente a gesti importanti che andranno ricordati e valutati nella storia.

Dobbiamo poi ricordare che Francesco è stato il primo Papa proveniente dalla Compagnia di Gesù. Forse bisogna rammentare chi siano i Gesuiti: una Compagnia che, fondata da Ignazio di Loyola e da Francesco Saverio, serviva per far ritornare nella Chiesa gli eretici, per perfezionare l’istruzione dei chierici e dei laici e per evangelizzare i popoli lontani. Per fare questo la Compagnia di Gesù ha, nel corso dei secoli, usato una struttura teologica potente (ripresa dalla teologia medievale cattolica), ha incrementato la devozione popolare ed ha usato un linguaggio di “apertura” ma anche ambiguo e non sempre chiaro ed ha evangelizzato i popoli con tecniche originali e qualche volta di successo che prevedevano l’incontro inclusivo con le culture differenti sin dall’inizio del proprio agire nel mondo (i viaggi di in Cina di Matteo Ricci e le missione nel Guaranì sono esempi storici di tutto questo e lo è anche il fallimento della missione giapponese). 

Tutto questo ha portato Francesco a continuare la sua missione, anche ricordando con attenzione quanto concepito dalla Compagnia di Gesù: guardare con attenzione al mondo contemporaneo, “aprirsi” ad esso, senza però assolutamente abbandonare l’essenza della dottrina cattolica e rimanendo fortemente attaccato ad alcuni aspetti tradizionali (la forte devozione mariana o del Sacro Cuore di Gesù fanno parte del recupero della tradizione che è sempre stata cara ai Gesuiti). Tutto questo ha portato Francesco a fare affermazioni talvolta contraddittorie, ma che, se qualche volta hanno potuto creare confusione, servivano come tecnica di avvicinamento a parte dei credenti (e non) che vedevano nella Chiesa un ostacolo ad alcune delle loro richieste. 

Queste sono state le basi del suo Pontificato. Un Pontefice autorevole, in un tempo di crisi (anche della Chiesa Cattolica) che ha cercato di guidare la Chiesa da Papa. Francesco ha scritto poche encicliche (solo quattro) che non hanno apportato sostanziali cambiamenti dell’impalcatura dottrinale della Chiesa, anche se si sono interrogate ed hanno delineato un chiaro profilo del Pontefice, aperto verso l’altro, ma, allo stesso tempo custode geloso di alcune idee secolari della Chiesa. Basta esaminare l’ultima enciclica, la Dixit Nos, pubblicata nell’Ottobre 2024 per comprendere appieno il senso del Pontificato di Francesco. Ci si interroga sull’importanza del cuore e dei sentimenti nella vita comune e, allo stesso, si richiama attenzione alla venerazione delle immagini del cuore di Gesù che dovrebbe indirizzare l’umanità verso il meglio. Appare chiaro questo doppio richiamo ad un rinnovamento degli animi nel mondo contemporaneo, sulla base di una delle solide dottrine portate avanti dalla Compagnia di Gesù (la venerazione del Suo Cuore che lascia perplessi alcuni protestanti). 

Allo stesso tempo il defunto Papa ha scritto più Motu Proprio di qualsiasi altro Pontefice in questo secolo. Questi scritti mostrano quindi una guida sicura ed assoluta della Chiesa, perché si tratta di iniziative che non prevedono la collegialità, sebbene Francesco spesso la richiamasse.

Il Pontefice era ben conscio di condurre e gestire una Chiesa universale e per questo ha sempre respinto qualsiasi tentativo di cristianesimo di tipo nazionalista e si è sempre prodigato a favore della pace, anche nella difficile situazione in cui ci troviamo oggi, con diversi conflitti aperti. Se le parole sull’Ucraina e su Gaza sono quelle che i media ricordano sempre con maggiore attenzione (e che non sempre hanno fatto vedere un Pontefice lucido nel gioco della geopolitica, ma pur sempre attaccato al valore fondamentale della pace per tutti i popoli), non va dimenticato che Francesco aveva ben presente anche gli altri conflitti che non sempre vengono ricordati dai nostri media. L’universalismo della Chiesa, ben rappresentata da un pontefice colto, ma proveniente veramente dal popolo, che aveva una chiara idea di come il messaggio di Cristo dovesse essere universale e non collegato ad alcuna fazione, era ben manifestato nel compito del Pontefice che è rimasto un fedele figlio della propria Chiesa, sia per l’alto concetto che aveva del suo compito di Vicario di Cristo, sia perché ha cercato di arginare le forze meno positive anche con un certa forza (si vedano i suoi provvedimenti restrittivi nella reintroduzione del Latino negli uffici sacri).

Come ogni Pontefice (più di Benedetto XVI, con la stessa forza, ma in maniera diametralmente opposta rispetto Giovanni Paolo II) e come ogni persona di spessore dell’universo cattolico, i gesti molto spesso hanno contato più delle parole e questo probabilmente è un qualcosa che per un evangelico (così collegato al ministero della Parola) rimane sempre difficile da comprendere e probabilmente ha portato anche a grandi equivoci da parte di noi evangelici. 

A conclusione di questo testo ci sentiamo di dire che il Pontificato di Francesco è stato assolutamente significativo con moltissimi gesti distensivi e di apertura, ma che, allo stesso tempo, ha ribadito la struttura gerarchica e forte dell’universo cattolico, con uno sguardo sincero verso i “deboli” del mondo e verso i problemi attuali che affrontiamo. Guardare a questo decennio come periodo su cui cui riflettere con attenzione al Cattolicesimo per coglierne gli aspetti di apertura e di comunanza di intenti continuando a ribadire le differenze dei due universi (quello evangelico e quello cattolico) è quello che a nostro parere rimane e che deve condurre la valutazione di quello che è stato un importante Pontefice, assolutamente sincero nella sua fede e ben conscio di quello che era.

 

                                                                                                                                                  Valerio Bernardi – DIRS GBU

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Sudditi di Dio in un regno diverso: si può?

di Gianluca Nuti

Insegnante, ex GBU Bologna e prossimo relatore per la Festa GBU 2025

 

Che senso ha vivere per un regno ormai caduto?

Cosa penseremmo vedendo i nostri vicini ottemperare alle leggi e al diritto romano? O se i nostri figli, o i nostri genitori iniziassero a seguire gli usi e i costumi, persino la lingua, dei Longobardi? Tutto questo non solo per scopi ricreativi o di rievocazione storica, ma come vero e proprio modo di vivere, che raggiunge in modo capillare ogni aspetto della quotidianità e della visione del mondo.

Il nostro sguardo stralunato e anche divertito non è diverso da quello con cui i Babilonesi guardavano i loro vicini di casa Giudei al tempo dell’esilio (dal 605 a.C. in poi). Il trono di Davide era vuoto, il tempio o quel che rimaneva era abbandonato, la legge e la moneta di Israele erano ridotte a mere curiosità storiche, aneddoti pittoreschi tratti da una civiltà ormai decaduta; eppure, questi Giudei ancora si ostinano ad adottare la condotta morale e il sistema di credenze della loro religione. Ma che senso ha vivere per un regno ormai caduto?

 

Il vecchio e il nuovo regno

Il libro di Daniele si apre proprio così, la realtà storica dell’esilio affermata con un tono spaventosamente freddo e distaccato (1:1-2) e le sue declinazioni socio-culturali visibili nella vita, fra gli altri, di Daniele e i suoi tre amici (1:3-7). La lingua e la cultura caldea vengono imposti a forza sui giovani nobili Giudei, il loro nome cambiato a sottintendere una nuova identità, un nuovo senso di appartenenza. Il re Nabucodonosor sa come fare sentire i deportati a casa, come fare dimenticare loro Gerusalemme e il Dio di Israele, perché possano più presto possibile legarsi in lealtà e dipendenza a un nuovo regime.

Dopotutto, il vecchio regime, il vecchio regno, ormai non c’è più. Il Dio di Israele, che aveva così risolutamente e ingenuamente vincolato il proprio onore al mantenimento delle promesse territoriali ed economiche al proprio vassallo Israele, quel Dio è ora stato sconfitto sul suo stesso terreno: il tempio e la terra promessa hanno smesso funzionalmente di esistere, “regno di Giuda” o “popolo di Israele” non sono più termini di senso compiuto. E questo valeva anche nella direzione opposta. Ormai i Giudei non avevano più nulla che li distinguesse esteriormente dai pagani, niente che li “santificasse” in modo visibile: come potevano ancora pensare che il loro Dio tre volte santo li volesse ancora degnare di uno sguardo?

 

Il regno invisibile

Tutto questo non è troppo lontano dalla nostra esperienza di cristiani. La tensione fra i modi di vivere accettabili nella nostra cultura e il modo di vivere a cui ci chiama la Scrittura, la ricerca di equilibrio tra l’impegno civico e il rifiuto del compromesso, la più o meno ostentata convinzione del regno umano e “visibile” di essere l’opzione migliore disponibile, o perlomeno di essere un’opzione migliore del regno “invisibile” di Dio, fanno tutte parte della nostra vita su questa terra, in questa cultura, in questo tempo. Il nostro Re è morto su una croce, dopotutto. La morale cristiana (non le sue distorsioni né i suoi scimmiottamenti, a destra e a sinistra) scandalizza e divide. La Bibbia serve soprattutto a vendere qualche copia in più di libri controversi o faziosi.

Ecco perché ci serve leggere e rileggere il libro di Daniele: perché Dio regna ancora, anche se invisibile al momento, e vivere per il suo regno ha ancora senso. Non solo: Dio ci aiuta a vivere per il suo regno, e proprio il suo soccorso dimostra che il suo regno non è caduto. Lo impararono ben presto Daniele e i suoi amici (1:19-20), lo impariamo anche noi quando scegliamo coraggiosamente, pur mantenendo la nostra identità esteriore di cittadini del mondo, di vivere da sudditi di Dio. Rifiutarci di associare il nostro partito al nostro credo, mostrare un rigore accademico o professionale sopra la media, scegliere di amare i nostri nemici e perdonare chiunque, per qualunque peccato, tutte le volte che sarà necessario: non è questo forse vivere da sudditi visibili del regno invisibile?

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Nel bel mezzo della guerra, la fede di Saleem Shalash e Boutros Youssef li ha portati a fornire aiuto ai loro vicini.

Shalash, pastore arabo israeliano della Home of Jesus the King Church di Nazareth, aiuta a distribuire pacchi di vestiti e cibo a più di 150 famiglie musulmane, ebree e cristiane della zona, sfollate a causa degli attacchi missilistici di Hezbollah nel nord o che hanno perso il reddito a causa delle guerre su più fronti.

Nel frattempo, Youssef coordina gli aiuti per due chiese a Gaza e per più di 500 famiglie in Cisgiordania. (Christianity Today ha acconsentito a non usare il suo vero nome e a non condividere la sua esatta ubicazione a causa dell’acuirsi delle tensioni nella regione).

“Io do speranza alle persone che il nostro Dio non è un Dio di guerra, ma un Dio di speranza che vuole aiutare tutti”, ha detto Youssef. “Dio ama tanto gli ebrei quanto i palestinesi”.

Tuttavia, i due leader differiscono nelle loro convinzioni sulla causa del conflitto israelo-palestinese e nelle loro reazioni alla proposta a sorpresa del presidente americano Donald Trump di trasferire i 2 milioni di abitanti di Gaza nei Paesi arabi vicini e di trasformare il territorio nella “Riviera del Medio Oriente”.

Dopo che Shalash ha sentito Trump fare la sua proposta durante il viaggio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Washington all’inizio di questo mese, ha messo in questione il rifiuto immediato dei paesi arabi del piano: “Se stai con i palestinesi, perché non li accetti?” Crede che i palestinesi lasceranno Gaza volontariamente a causa dell’immensa distruzione, delle fondamenta instabili dovute ai centinaia di chilometri di tunnel costruiti da Hamas e di decenni di difficoltà.

“Quanto tempo le persone possono sopportare [questo ciclo di] distruzione e costruzione, e distruzione e costruzione?” si è chiesto Shalash. 

Di contro, Youssef dubita che gli abitanti di Gaza lascerebbero di loro spontanea volontà. Ha detto che l’idea di Trump non tiene conto del profondo legame dei palestinesi con il territorio. Molti hanno coltivato la terra per anni e hanno alle spalle generazioni di storia a Gaza.

Anche se i tentativi di Israele di estirpare Hamas attraverso ripetuti attacchi missilistici hanno distrutto circa il 60% delle infrastrutture di Gaza e ucciso più di 46.000 persone nel territorio palestinese, secondo il Ministero della Salute di Gaza gestito da Hamas, molti degli sfollati sono tornati a casa dopo il cessate il fuoco.  

“L’espressione in italiano? Sul nostro cadavere,” ha detto Youssef.

I leader palestinesi e arabi, compresi gli alleati statunitensi, hanno respinto il piano di Trump. L’emigrazione palestinese ha portato decenni di instabilità negli stati arabi vicini, mentre i gruppi terroristici palestinesi hanno continuato le loro campagne violente contro Israele, a volte rivoltandosi contro i loro governi ospitanti. A parte la Giordania, le nazioni arabe hanno negato ai palestinesi pieni diritti di cittadinanza.

In un’intervista radiofonica, il Segretario di Stato Marco Rubio ha sfidato i paesi arabi insoddisfatti della proposta a presentare un “piano migliore”, sottolineando che dovrebbe affrontare il monopolio di Hamas sul potere a Gaza. Rappresentanti di Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Qatar si sono riuniti in Arabia Saudita per discutere su come aiutare a finanziare e supervisionare la ricostruzione di Gaza.

All’inizio di questa settimana, Netanyahu ha ribadito la sua approvazione del piano in un incontro con Rubio. Il ministro della difesa israeliano ha annunciato lunedì la creazione di una nuova agenzia governativa progettata per supervisionare l’evacuazione “volontaria”. Le opinioni divergenti di Shalash e Youssef sul piano di Trump sottolineano i complessi disaccordi che dividono i cristiani arabi nella regione. Crescendo in una comunità cattolica a Nazareth, Shalash odiava Israele. Le scuole, la comunità e i media gli insegnarono ad odiare i suoi vicini ebrei. “Mi è stato insegnato che l’Antico Testamento è un libro di spazzatura,” ha detto Shalash. “Non ci appartiene; appartiene agli infedeli ebrei che hanno crocifisso il mio Salvatore. E io ero pieno di molto odio.” 

Eppure, nel 1994, Dio ha cambiato il suo cuore. Un amico cristiano che aveva condiviso il Vangelo con lui morì in un tragico incidente, e iniziò a porsi domande sulla morte. Iniziò anche a leggere la Bibbia per la prima volta e incontrò il messaggio di speranza del Vangelo.

Crede che la causa principale della guerra sia il rifiuto dei gruppi terroristici palestinesi di abbracciare la pace. Afferma inoltre che la fonte della sofferenza palestinese è Hamas, che ha usato i palestinesi come scudi umani e ha speso centinaia di milioni di dollari costruendo tunnel e conducendo guerre invece di provvedere al suo popolo.

“Dobbiamo capire che abbiamo due tipi di ostaggi a Gaza: il popolo ebraico… e gli stessi palestinesi”, ha detto Shalash.

Allo stesso tempo, Youssef ritiene che Israele sia responsabile della crisi umanitaria di Gaza. Israele controlla i cieli, l’acqua e i territori. “Anche in Cisgiordania, il [presidente dell’Autorità Palestinese] Mahmoud Abbas non può andarsene a meno che non ottenga il permesso”, ha fatto notare.

In Cisgiordania, i tragitti che prima richiedevano un’ora ora durano quattro, poiché gli automobilisti devono affrontare quasi 800 blocchi stradali e posti di blocco, un inconveniente che Israele afferma essere necessario a causa delle crescenti minacce alla sicurezza. Youssef è cauto su dove guida in Cisgiordania a causa dell’aumento della violenza dei coloni contro i palestinesi dopo gli attacchi del 7 ottobre.

Il rifiuto di Israele di concedere lo status di stato alla Palestina è una parte importante dei 77 anni di conflitto nella regione, ha detto. Crede che la pace sia possibile se un forte leader palestinese subentrerà e creerà una forza di sicurezza centralizzata per contrastare la presa di potere di Hamas.

I diversi punti di vista hanno anche una componente teologica: alcuni evangelici guardano alle promesse di Dio nell’Antico Testamento come prova del diritto biblico di Israele alla terra che include la Cisgiordania e Gaza. Youssef crede che quelle promesse fossero condizionate e già adempiute.

“Sono preoccupato per le anime delle persone, non per la terra”, ha detto. “Dio si prenderà cura della terra.” Chiede agli evangelici americani di non dimenticare i palestinesi e di pregare per le anime del popolo ebraico. “Se non accettano Cristo, a cosa serve la terra, anche se la prendono dal fiume al mare?”

Shalash, d’altra parte, crede che l’Antico Testamento di Dio con Israele sia ancora valido oggi. “Non sto dicendo che Israele sia perfetto. Ci sono molte cose da sistemare”, ha detto Shalash. “Ma se Dio ha ancora un piano per la sua nazione, Israele, chi sono io per oppormi al suo piano?”

Nel frattempo, Youssef e Shalash continuano le loro missioni, cercando di soddisfare i bisogni fisici e spirituali delle loro comunità durante un periodo di sofferenza. Nonostante le loro divergenze politiche, sono d’accordo sulla missione della chiesa. “Gesù è venuto per uno scopo: salvare i perduti”, ha detto Youssef.

Shalash ha riconosciuto le sfide del ministero cristiano in Israele. Alcuni ebrei ortodossi si sentono minacciati dal messaggio del Vangelo e alcuni arabi lo considerano un traditore per le sue opinioni politiche. Ma coloro che visitano il centro di assistenza della chiesa gli dicono che l’atmosfera è rinfrescante.

“Stiamo compiendo il piano di Dio”, ha detto Shalash, “amando il popolo palestinese, amando il popolo israeliano, unendoli e comprendendo che possiamo vivere insieme in pace”.

Jill Nelson

Tradotto con il permesso di Christianity Today

L’articolo Due Leader arabo-cristiani hanno opinioni differenti sul piano di Trump per Gaza. Tuttavia la loro missione rimane la stessa, portare speranza in un tempo di guerra. proviene da DiRS GBU.

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