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a cura di Rebecca Ciociola e Giacomo Carlo Di Gaetano

L’espressione “vaso debole” si trova nella 1 Pietro (3:7), all’interno di uno dei tanti codici famigliari contenuti nel Nuovo Testamento. L’espressione dà il titolo alla risposta che quattro donne, tutte impegnate in un ministero cristiano o in una professione socialmente rilevante per il tema trattato, hanno fornito a tre domande che abbiamo rivolto loro come redazione del DiRS–GBU.

Federica Albano, si occupa per lavoro e per passione di educazione e temi sociali. Ha operato per diversi anni in un centro antiviolenza. Vive in Lombardia ed è membro di una chiesa evangelica di Milano.

Katia Lavermicocca, Psicologa psicoterapeuta, docente d’area psicologica e consulente per enti che hanno come destinatari minori e famiglie, è membro della chiesa di Cristo di Bari.

Rossana Zanetti Sciuto, Diaconessa della comunità della Chiesa Apostolica di Piacenza, laureata in Teologia, indirizzo Pastorale della famiglia. Impegnata nella Formazione Ministeriale della Chiesa Apostolica dove insegna Questione Femminile nella Chiesa nel corso dei secoli.

Anna Moretti, impegnata da anni in un ministero di formazione e consulenza per donne, membro dell’Assemblea dei Fratelli di Novoli a Firenze.

 

 

1) Nel 2024 il Viminale ha registrato più di 90 casi di femminicidio. 4 omicidi su 5 avvengono nell’ambito familiare ristretto o allargato. Cosa ti fanno pensare/quale realtà descrivono questi dati?

Federica:

Anche se sono passati tanti anni ed il tema è stato molto discusso, di fatto il problema non è regredito. Il dato mostra che la strada da fare è ancora lunga sia per lo Stato e la sua legislazione sia per i cittadini / e le cittadine, per il sentire comune e l’idea che si ha della violenza, rivittimazzando le vittime (p. es.: in fondo se l’è anche un po’ cercata).

Katia:

Il femminicidio rappresenta il gesto estremo di una violenza che ha alle spalle una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza nei confronti delle donne. Il dato registrato quindi mette in evidenza il punto di non ritorno di una complessità sociale, relazionale, etica che coinvolge le coppie e le famiglie in questi anni.

La famiglia è il luogo presente in maniera continuativa nella vita di molti uomini e donne. Luogo inteso come spazio psicologico in cui costruire la propria identità ed appartenenza. Laboratorio di esperienze vissute prima nella dimensione di figlio e successivamente nella dimensione di adulto, compagno o genitore. L’ambiente domestico o di relazione esclusiva di coppia può quindi diventare motore creativo in cui si impara il dialogo, l’ascolto, la gestione delle emozioni, delle proprie frustrazioni o per motivazione diverse, luogo di solitudine in connotazione negativa, quindi di difficoltà nell’andare verso l’altro.

Le forme che può prendere questa difficoltà in età adulta possono essere diverse; la violenza verso la propria compagna è una di queste. Lenore Walker (1979) descrive le tre fasi del ciclo della violenza. La prima fase è quella in cui si accende la tensione tra i partner e l’uomo violento manifesta un crescente nervosismo, un atteggiamento perennemente irritato, opaco e ambiguo che confonde la donna. Il distacco del partner è avvertito dalla donna come un potenziale segno di abbandono che la spinge ad evitare di contestare il proprio compagno od opporsi, assecondando ogni sua mossa ed ogni suo volere.
La seconda fase vede agire il maltrattamento sia fisicamente che verbalmente.
La terza fase, infine, è caratterizzata in genere da una finta riappacificazione. L’uomo violento si riavvicina alla donna giurando pentimento e pronunciando scuse e parole d’amore a profusione, venendo prontamente perdonato e riaccolto. Nei primi episodi di violenza, la fase della falsa riappacificazione dura generalmente più a lungo; al contrario, all’aumentare degli episodi violenti, la durata della riappacificazione si riduce. Questa fase costituisce una sorta di rinforzo positivo per la donna, che con l’alternarsi di ogni fase diventa sempre più dipendente da questo meccanismo e sempre più bisognosa di questo legame, seppur malato, mentre l’uomo violento acquista sempre più potere all’interno della relazione di coppia

Rossana:

Dal 1° gennaio al 17 novembre 2024, in Italia, sono stati commessi 98 femminicidi di cui 84 avvenuti in ambito familiare/affettivo; 54 di queste donne sono state uccise dal partner o ex partner (Fonte governativa). Questi dati sono allarmanti e sono il campanello d’allarme di un problema ancora più grande che è di difficile risoluzione. Sono il sintomo di una società malata, una società che ha perso la sua identità, una società fluida, dove i valori primari sono stati smarriti. Una società che non è in grado di offrire una parità ed un’uguaglianza di genere e che non riesce a garantire al cento per cento protezione ad una fascia più sensibile dei suoi componenti, una società che ha difficoltà a relazionarsi con i propri simili. In questa società la famiglia, che è il nucleo primario di una società civile, ha perso quel valore e quel ruolo fondamentale che aveva in passato.

Oggi, le famiglie sono deboli, non sono all’altezza del compito al quale sono chiamate. La società odierna impone ritmi e ruoli totalmente alterati e questo, secondo me, è il fattore scatenante di tanta violenza. Le donne hanno conquistato, a fatica, il diritto ad avere voce in capitolo e, contrariamente a 60/70 anni fa, quando i ruoli in casa erano ben definiti, oggi si ritrovano a dover spesso ricoprire anche il ruolo che dovrebbe essere dell’uomo. A causa dei ritmi serrati a cui si è spesso sottoposti la comunicazione è venuta meno, le relazioni si sono incrinate e spesso, diventano malate. La competizione fra i sessi è stata portata a limiti estremi e l’uomo non si riconosce più negli stereotipi che vengono proposti.

Ecco che scatta allora in lui il desiderio di reprimere la libertà delle donne, della propria donna che una volta era remissiva, forse anche troppo, e subiva in silenzio, e che oggi invece si ribella a condizioni di vita deprivanti.

La donna ha più consapevolezza dei suoi diritti ed è in grado di gestirsi da sola in ogni situazione. È indipendente sia socialmente che economicamente e questo, in una società che è ancora dichiaratamente patriarcale, è un elemento dirompente. Questo continuo confronto fra uomo e donna è il fattore scatenante di tanta violenza. L’uomo non riesce ad accettare che la propria donna sia in grado di prendere le decisioni da sola, che può scegliere di uscire con le amiche, che sia, in alcuni casi, economicamente più forte del proprio partner, che non abbia bisogno di un mentore che la guidi e la consigli in ogni cosa e che le gestisca la vita impartendo ordini. Tutto questo viene visto come una minaccia all’amor proprio, scatena un senso di impotenza e di inferiorità che va a minare tutte le sicurezze dell’uomo. Ecco che allora si scatena la voglia di riaffermare quella superiorità atavica che vede l’uomo maschio come essere dominante, come essere superiore dalla quale la donna deve dipendere in tutto e per tutto; scatta allora il possesso, la voglia di reprime ogni libertà faticosamente conquistata e, nel momento in cui l’uomo realizza che la donna non è disposta ad essere più succube di certe situazioni, dirompe la violenza, quella violenza cieca desidera annientare ed assoggettare a sé l’altro.

Anna:

Se hai mai fatto una lunga passeggiata in montagna, sai bene che cosa susciti vedere un rifugio: troverò cibo, una bevanda calda, avrò la possibilità di riposarmi, farò due chiacchiere per raccontare il mio pezzo di strada fino a lì.
Nel progetto di Dio, la casa, come quel rifugio, doveva essere il luogo privilegiato in cui ogni membro della famiglia trovasse nutrimento, protezione   e relazioni profonde e stabili. In quella casa doveva circolare l’amore.
Questo era il progetto, questa la destinazione d’uso.

Ma proprio perché la famiglia è un’idea di Dio, viene attaccata fin dalle sue fondamenta: il progetto viene riscritto e rimaneggiato, se ne propone un altro dove sono al centro io, dove comando io, dove ricevo dei servizi io, dove ti schiavizzo e se prendi il mio posto ti urlo dietro, ti strattono, ti picchio e se mi va e mi fa sentire meglio, ti tolgo di mezzo così quel posto a capotavola non lo prenderai mai più!
La famiglia: nel luogo per eccellenza in cui doveva circolare l’amore, non c’è più ossigeno, circola solo la paura, è lì che affermo il mio potere battendo il pugno, urlando parole cattive e offensive, facendo cose cattive e offensive.
Ti userò, non ti servirò, mi compiacerai in tutto, non ti ascolterò, ti sottometterò con violenze psicologiche dicendoti che tu non vali nulla, sei solo un’incapace.
Uomini che pensano di avere fra le mani oggetti e non persone, per cui come si butta via un piatto di carta usato, si butta via una donna, dopo averla usata.
Quante volte mogli e compagne amate “appassionatamente” sono finite a pezzi in sacchi della spazzatura? Quante volte sono state sfregiate perché non si riconoscessero più guardandosi allo specchio? Quante volte la violenza verbale le ha annichilite fino a ridurle allo stremo?

Il luogo dell’amore, la casa, trasformato nel luogo dell’orrore.

Il progetto di Dio cestinato. Quattro omicidi su cinque avvengono in famiglia, proprio perché nel progetto di Dio quello doveva essere il luogo più sicuro.
L’uomo riformula il progetto, si mette al posto di Dio, con conseguenze visibili sotto gli occhi di tutti: scarpe e panchine rosse di sangue.

 

2) L’ONU (Statistical framework for measuring the gender-related killing of women and girls, 2022) definisce i femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Le tipologie sono diverse: si va dall’omicidio ( e dalle violenze) compiute e perpetrate dal partner, ai casi in cui anche a opera di uno sconosciuto, violenze e omicidi sono legati alle differenze e alle motivazioni di genere.

A tuo giudizio quali potrebbero essere le cause principali per l’incremento di questo fenomeno?

Federica:

Le cause sono da ricercare nella radicalizzazione della cultura patriarcale intesa come totale supremazia dell’uomo sulla donna, la considerazione della donna quale oggetto da mostrare / usare (p. es. la pornografia, la pubblicità, etc.), il poco ascolto dedicato alle testimonianze delle donne vittime di violenza, la difficoltà ad immedesimarsi nel loro vissuto, la scarsa presa di responsabilità e di distanza degli uomini, tutti gli uomini, rispetto alla violenza quando si manifesta.

Katia:

Il fenomeno della violenza di genere copre un panorama più ampio, in cui i termini differenza, disparità, disuguaglianza giocano un peso importante. Dal punto di vista psicologico, le differenze individuali che sono state oggetto di studio dei maestri della psicologia come Eysenck, per la definizione delle diverse personalità, possono essere viste come una risorsa o come un pericolo. Il diverso da me, chi non corrisponde ai miei schemi, può essere percepito come stimolante o come minaccioso. Utilizzando schemi personali troppo rigidi non possiamo conoscere la persona come veramente è, creando una barriera che ci difende e ci protegge. Le distanze generano pregiudizi, cioè un giudizio anticipato che non riflette il reale. Le distanze generano anche stereotipi, cioè opinioni precostituite. Il senso di pericolo percepito o di rifiuto del diverso può portare a violenze.

Fenomeno in incremento per una complessità di ragioni di matrice diversa, ma metterei l’attenzione sul paradosso creato dal conoscere il mondo attraverso i social media. Un canale di “esperienza” del mondo e delle persone in cui si è o attori o spettatori, e che quindi non permette il reale scambio tra persone in-situazione, cioè nella contingenza dello scambio vissuto reciprocamente, che è alla base dell’educazione alle differenze.

Rossana:

La prima cosa che mi sento di rispondere è la paura. Paura del confronto, paura di non essere più all’altezza del proprio ruolo e del proprio compito, paura di non essere più l’essere umano dominante, paura di relazionarsi con un essere pari a sé. Mentre le donne hanno acquisito consapevolezza di sé, hanno lottato per ottenere uguali diritti, anche se la strada per la vera uguaglianza è ancora lunga e difficile da raggiungere, sotto il profilo economico soprattutto, l’uomo vede in tutto questo una minaccia alla propria persona. Ancora oggi si fa fatica ad accettare il diritto della donna a non essere considerata oggetto e quindi, proprietà di qualcuno. La donna sceglie di gestire la propria vita come meglio crede, sceglie il proprio partner, sono finiti, almeno sulla carta, i tempi in cui i matrimoni venivano imposti. La donna occidentale ha facoltà di scegliere di studiare, farsi una carriera, lavorare fuori casa, di migliorare le proprie condizioni di vita. C’è altro oltre il marito/compagno ed i figli.

Alcuni uomini, quelli deboli, hanno difficoltà ad accettare tutto questo. Non riescono a sopportare che una donna, in quanto donna, abbia dei diritti, abbia facoltà di scelta, abbia facoltà di dare una direzione diversa alla propria vita. Non è ammissibile per loro. Il confronto li destabilizza e li spaventa, non riescono proprio ad accettare che un essere umano con caratteristiche fisiche diverse dalle loro sia in grado di autogestirsi. Gli uomini deboli si sentono minacciati da tanta sicurezza, non tollerano che una donna, in quanto donna, possa essere superiore rispetto a loro. Questo fa scattare il desidero di eliminare il soggetto per dimostrare la forza bruta, per dimostrare la loro superiorità fisica. Qualcosa che mette paura deve essere annientato, eliminato altrimenti finisce per eliminare te e questo, l’uomo debole non lo può accettare. Ecco che si sviluppa allora il pensiero criminale: ti uccido perché rappresenti una minaccia per la mia persona. Ti anniento per non essere sopraffatto. Ti elimino per affermare la mia virilità e la mia superiorità. In una società che si preoccupa di difendere i diritti di tutti, questo non è accettabile. Bisogna educare all’affettività fin da piccoli ed al rispetto dell’altro per evitare di diventare degli adulti che non sanno amare.

Anna:

La sensazione che provo nel rispondere a questa domanda è di smarrimento, sconfitta e ineluttabilità. Anche oggi, nella mia città, più di una donna proprio vicino a me, sarà picchiata, insultata, umiliata, controllata e questo, per il semplice motivo che è una femmina. Lei scambierà il controllo per amore, la gelosia morbosa per cura, le parole offensive per espressione di vera mascolinità.
Non so se la violenza nei confronti delle donne sia effettivamente aumentata, ritengo che in tempi non remoti sia stata normalmente accettata e quindi non denunciata. Guardare un film come C’è ancora domani di Paola Cortellesi, apre uno squarcio su una realtà che è delle nostre nonne e bisnonne. Una realtà fatta di silenzi assordanti, di soprusi quotidiani, di lotta per la sopravvivenza e di anelito costante alla libertà personale.
Se è aumentata la violenza nei confronti delle donne, così come si evince dai dati raccolti su più fronti, penso che ciò sia legato al fatto che è aumentata la violenza in generale. La cassa di risonanza dei social non discrimina fatti eticamente corretti da scorretti, quello che conta veramente sono i like, per cui si possono tranquillamente postare immagini, parole, idee che hanno la violenza e il sopruso al centro. Vedere determinate immagini o ascoltare determinate parole, soprattutto quando si è molto giovani, forma le coscienze.
È triste, ma una delle conseguenze del peccato di Adamo ed Eva che si ripercuote nelle nostre vite ancora oggi, nella giornata in cui si lotta per l’eliminazione della violenza sulle donne, è quanto Dio disse ad Eva. Forse si ricorda più facilmente il concetto legato al dolore del parto e si dimentica la realtà dei desideri di lei che si sarebbero rivolti verso di lui.
Le donne accettano un ultimo appuntamento, cercano un ultimo chiarimento, e ritengono lo schiaffo di oggi l’ultimo e invece vengono uccise domani. Le donne continuano ad essere relazionali e a cercare con lo sguardo l’amore vero nell’uomo che hanno accanto.
Non essere indifferenti ai segnali, aiutare chi ci chiede aiuto, non minimizzare, educare la nuova generazione al rispetto della femminilità, tutto questo può sviluppare la crescita di una sensibilità che porti a riconoscere le micro–violenze prima che si trasformino in macro.
Allora ci sarà… ancora domani!

 

3) Ragioniamo a partire dalla fede cristiana: questa è la nostra prospettiva. Quali risposte offre il vangelo a questa piaga terribile della nostra società?

Federica:

Dio condanna la violenza in ogni sua forma.
La Bibbia prevede ruoli definiti nella coppia ma richiama a modalità di rispetto reciproco nel rapporto uomo-donna. Il nostro obiettivo è tendere al modello divino che non è mai stato violento nei confronti del femminile.

Katia:

Può essere utile prendere spunto proprio dall’esperienza che Gesù ha con le donne del suo tempo, e dal modello di matrimonio successivamente proposto come mutuo servizio in cui sia l’uomo sia la donna sono fatti a immagine di Dio. Gesù è in relazione alla Samaritana e a Maria Maddalena non avendo timore della diversità e del giudizio che c’era su queste donne; il suo atteggiamento di apertura, disponibilità al “diverso da me” è anche in altre occasioni la chiave di svolta degli eventi e la rivoluzione del suo messaggio.

E nel matrimonio il mutuo servizio è poi la disponibilità ad accogliere ciò che l’altro è per me e cosa io posso essere per l’altro, presupposto che permette di ridimensionare aspetti di insicurezza, giudizio, violenza subita che possono “sciogliersi” nella relazione di supporto della coppia adulta

Rossana:

Come abbiamo visto, i femminicidi e tutti gli atti di prevaricazione perpetrati ai danni delle donne sono una terribile piaga sociale che sembra inarrestabile.
Alla luce del vangelo, possiamo provare a trovare una soluzione per cercare di arginarla? La mia risposta è: “Si!”
Sono perfettamente consapevole che molti, nella società odierna non conoscono il vangelo, il fattore religioso forse è uno degli elementi della società che è stato messo in standby perché, per essere politicamente corretti e non offendere il prossimo, non possiamo urtare la sensibilità altrui con la manifestazione della fede e della pratica religiosa ma dobbiamo sentirci chiamati in causa in quanto dobbiamo avere cura del nostro prossimo e dobbiamo presentare un’alternativa a questo scempio senza fine.

Dio è il donatore di vita, è per la vita e promuove la vita. Nella sua Parola ci dà una speranza, ci insegna che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi. Il problema è proprio questo, non ci amiamo abbastanza, non sappiamo chi siamo veramente, di conseguenza, non sappiamo più relazionarci fra noi simili. Dio, attraverso le meravigliose pagine del vangelo ci insegna l’amore, ci insegna quale sono i nostri ruoli. Davanti a Lui siamo uguali, non c’è distinzione fra uomo e donna, non c’è prevaricazione, non c’è possesso da parte dell’uomo nei confronti della donna ma c’è reciprocità, c’è complementarità, c’è collaborazione, c’è rispetto e ci deve essere amore. L’uomo è chiamato a prendersi cura della donna, deve vegliare su di lei amandola come Cristo ama la sua Chiesa, deve avere riguardo ad essa come se avesse a che fare con un vaso delicato, la deve onorare perché anche la donna è erede della promessa e della grazia, deve amarla come la propria persona, deve studiarsi di farla stare bene perché da questo ne riceverà grazia. Dio ha dato pari dignità all’uomo e alla donna e questa dignità non può e non deve essere calpestata per nessun motivo.

Ovviamente ci sono dei suggerimenti anche per le donne nei confronti dei propri mariti che devono essere messi in pratica ma credo che il compito maggiore sia proprio degli uomini che sono chiamati a proteggere la donna in quanto rappresenta, nel caso della propria moglie, la propria stessa carne. Non si può amare sé stessi e odiare chi ti sta accanto. Non è questo che ci insegna il Vangelo. Dobbiamo riscoprire la bellezza di vivere la nostra fede e non aver paura di testimoniare e mostrare al mondo che c’è un’alternativa a questa società che ci vorrebbe tutti uguali, automi che non hanno più sentimenti e che non sanno più provare emozioni.

Anna:

Il Vangelo è la buona notizia! La migliore buona notizia che sia mai stata raccontata in questo mondo violento.
Il Vangelo è la buona notizia di un cambiamento personale, di una trasformazione continua e radicale, profonda e strutturale. Il Vangelo è la buona notizia per cui non esiste l’ineluttabilità di “tale padre tale figlio”, il Vangelo è la buona notizia per un uomo violento che ha visto e sentito violenze fin da piccolo, ma che può, volontariamente, abbandonare parole e atti offensivi accettando Cristo nella propria vita.
Il Vangelo non è una favola rassicurante che finisce bene, il Vangelo è una storia vera che cambia le vite e che quindi cambia la società! Qualsiasi cultura, in qualsiasi parte del mondo, anche in Afghanistan dove è prassi uccidere le ragazze che non vogliono sposare il marito scelto dai parenti o in India dove le spose sono bambine ignare di tutto, o in Italia dove le donne rischiano ad uscire quando è buio e ancor più quando tornano a casa, anche qui l’Evangelo può cambiare radicalmente tutto.
I primi a dover sentire l’urgenza di raccontare questa buona notizia sono proprio i cristiani che credono fermamente nella potenza rinnovatrice di questo Vangelo.
Il sangue versato da Cristo, la violenza inaudita di cui è stato oggetto il suo corpo, le torture da lui subite, ci raccontano la storia di un Amore infinito e immisurabile fatto di parole e atti conseguenti, capace ancora oggi di trasformare il cuore dell’uomo più violento in qualunque parte del mondo lui si trovi a vivere. L’amore, dice la Bibbia, non fa mai male al prossimo!
Se la donna vicino a te percepisce un senso di dolore o paura quando le parli o quando ti avvicini a lei, quello non è certamente amore!

L’articolo Il vaso debole … da non frantumare proviene da DiRS GBU.

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Lo storico del Cristianesimo Giancarlo Rinaldi introduce così il breve lasso di tempo in cui, nel quarto secolo, giunse a imperare sull’Impero romano un singolare imperatore di nome Giuliano (Flavio Claudio Giuliano), che passò alla storia con l’epiteto di Giuliano l’apostata.

 

[Giancarlo Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità, Edizioni GBU, 2008, pp. 706–714].

«Il ruolo della Chiesa cristiana durante il secolo quarto subisce, nel­l’àmbito dell’impero romano, una trasformazione radicale. Essa, infatti, pas­sa dalla iniziale persecuzione promossa dai tetrarchi (Diocleziano, Galerio, Massimino Daia) alla tolleranza sancita da Galerio, nel 311, e da Costanti­no, nel 313. Da questa tolleranza, inoltre, essa passa rapidamente alla premi­nenza e poi all’acquisizione dello status di religione di Stato unica e ufficiale, in virtù dell’Editto di Tessalonica promulgato dall’imperatore Teodosio I nel febbraio del 380. Prendendo in considerazione più da vicino gli eventi con­nessi a questa parabola possiamo senz’altro rilevare che la Chiesa da realtà perseguitata agli inizi del secolo si presentò alla fine dello stesso quale fautri­ce di persecuzioni a danno di giudei, di pagani e, più ancòra, di cristiani non appartenenti a quella che possiamo definire la “Chiesa imperiale ortodossa”».

La ‘reazione’ di Giuliano imperatore
In questo clima di montante intolleranza antipagana ebbe a trascorrere i suoi anni giovanili Flavio Claudio Giuliano (331–363). Il regno di Giuliano fu di breve durata (361-363) ma di grande significato nell’àmbito della storia religiosa.Si è parlato a tal proposito di un tentativo di ‘laicizzazione’ del­lo Stato. Giuliano, sia per storia personale (all’età di sei anni scampò, in­sieme al fratello Gallo a una strage, il cui mandante fu ritenuto l’imperatore Costantino, che distrusse la sua famiglia) sia per formazione (dal neoplatonismo alla teurgia ai misteri elusini, passando per i culti di Mitra e Cibele) si dedicò non a una persecuzione, nei confronti dei cristiani quanto a un “conflitto culturale”. La politica giulianea, infatti, fu appassionatamente intesa a revocare le situazioni di privilegio a favore dei cristiani che si erano determinate da Co­stantino al 361.

Giulano definiva i cristiani ‘Galilei’ in ragione del fatto che li riteneva responsabili della trasposizione della divinità ebraica a livello di un principio divino universale. La sua principale opera, di cui possediamo frammenti, portava infatti il titolo di Adversus Ga­lilaeos, (tr. it. di E. Masaracchia, Giuliano Imperatore, Contra Galilaeos, Roma 1990). Giuliano fu celebrato da due grandi scrittori pagani di Antiochia: Liba­nio e Ammiano Marcellino. Ma fu avversato, soprattutto in risposta alla sua opera principale, da numerosi autori. Tra le confutazioni sopravvive frammentaria­mente quella di Teodoro di Mopsuestia e quella di Cirillo d’Alessandria, che è la più im­portante.
I cristiani elevarono grida di gioia alla notizia della morte di Giuliano. La celebra­rono come una punizione di Dio.

Fin qui Rinaldi.

La singolarità di questa vicenda, da cui il titolo dell’articolo, sta nel fatto che questo personaggio fu ripreso dagli evangelici dell’800, nel clima infuocato del Risorgimento, e indicato come un campione di un governo che abolisse la Religione di stato (identificata chiaramente con il Cattolicesimo con le implicazioni relative al ruolo del Papa nelle vicende dell’Unità d’Italia).

La pagina che riproponiamo qui è testimonianza di questo singolare approccio all’imperatore pagano ma presenta degli spunti che potrebbero essere estremamente illuminanti per la particolare congiuntura storica che stiamo vivendo, agli albori della nuova era trumpiana. In questa pagina poi emerge tutta la distanza della tradizione evangelica italiana che potremmo definire di “teologia politica” rispetto alle lezioni che provengono da oltre l’Atlantico incluso i ravvedimenti forse tardivi di personaggi come Timothy Keller o di altri ancora che solo negli ultimi tempi, in particolare pensando ad alcuni scritti di Keller, hanno lanciato l’allarme contro la deriva politica dell’evangelismo americano.

 

La libertà di coscienza proclamata da Giuliano
[Trattasi di stralci del capitolo VI del libretto La religione di Stato, di Teodorico Pietrocola Rossetti, del 1861, pp. 35–41. Pubblicato nell’anno della nascita del Regno d’Italia, lo scritto ha un intento chiaramente propositivo verso i nuovi assetti politici, statuali ma anche sociali e culturali che si andavano delineando in quel cruciale periodo storico].

 

Costantino non fu, né divenne mai cristiano né mostrò mai di esser rigenerato, né nato di nuovo, né mai camminò secondo Cristo, ma dopo la sua conversione continuò ad essere despota efferato e violento; alcuni della famiglia imperiale, scandalizzati dal suo esempio, rigettarono il nuovo credo nell’intimo del loro cuore, e lo professarono esteriormente per ragione di Stato.

[Giuliano] era stato battezzato quend’era pargolo, fu educato al romanesimo e alla superstizione … ma arguto com’era ed inesorabilmente logico, non trovò Cristo ne’ canoni, nelle tradizioni, e nelle invenzioni degli ambiziosi prelati, e disprezzò il nuovo credo. Potente incentivo a questa sua apostasia fu la corruzione, i vizii e l’empietà de’ romanisti. Quelli della sua parentela, insegnati da Eusebio e da Ario, e non già dall’Evangelo, non aveano sentito il rinnovamento del cuore e continuarono nelle loro ferocie e dissolutezze: ciò ancora scandalizzò Giuliano, per cui credette che la religione pagana valesse meglio della nuova.  …

Per questi fatti si può dire che l’apostasia di Giuliano fu opera de’ preti e non sua: – ed essa apostasia perde tutto il colore che le si vuole apporre, quando si pensa che apostatare dall’errore è nulla, mentre è cosa gravissima apostatare dalla Verità. (corsivo nell’or.).

E poi – che razza di religione era quella, se all’annunzio dell’apostasia di Giuliano, i pagani che si spacciavano convertiti al Romanesimo riapersero i loro templi? Era una religione di Stato – convenzionale – imposta con la forza, e che dura fin che vi son tiranni, ma poi cade al primo bagliore del sole della libertà. …

Giuliano fu il solo che concepì in tutta la sua pienezza l’idea della libertà di coscienza. Ma non gli giovò a nulla, perché egli aveva una Religione di Stato [il paganesimo, ndc], impedimento gravissimo all’attuazione di quell’idea. La sua filosofia e la sua moderazione non bastarono a metterla in esecuzione, perciocché un Credo di Stato è un lacciuolo che ritiene la preziosissima libertà dell’anima e le impedisce ogni manifestazione di volontà morale.

Tutti gli atti del suo regno aveano per mira la libertà di coscienza, – ed incredibilia sed vera, – con essi egli insegnava ai Romanisti ad esser cristiani.

«Ho deliberato, egli disse [cit. della fonte], usare tale umanità con tutti i Galilei, che nessun d’essi, in qualunque luogo sia, soffra violenza, né sia strascinato al tempio, né trattato male contro la sua religione. Ma gli Ariani, gonfi per le loro ricchezze, hanno assaliti i Valentiniani, e hanno commesso in Edessa misfatti, che in città ben ordinate non debbono accadere. Adunque per dar loro aiuto a praticare la loro ammirabile legge, e agevolare la via d’entrar nel regno de’ cieli, abbiamo ordinato che siano tolte loro tutte le facoltà della chiesa d’Edessa: i denari sieno dati ai soldati, i terreni sieno uniti al nostro patrimonio, acciocché, divenendo poveri, sieno più saggi, e non sia loro tolto il regno de’ cieli che sperano »

 

La tolleranza e il perdono delle offese erano praticati dall’apostata! Dio giudicava quegli inesorabili settarii per la bocca di un empio. «Per gl’iddii, ordinava Giuliano [cit. della fonte], non voglio che i Galilei sieno uccisi, né battuti ingiustamente, né offesi in veruna forma» … Lezione ai feroci uccisori degli Albigesi, de’ Valdesi, degli Ugonotti, e degli Americani! Ed altrove: «Giuliano ai Bostriani: Io credeva che i capi de’ galilei conoscessero che hanno maggior obbligo a me che al mio predecessore [Costante], poiché per la maggior parte sotto di lui sono stati cacciati, imprigionati, perseguitati e assai ne furono ancora uccisi di quelli che vengono detti eretici … Sotto il mio regno, all’incontro, gli sbandati sono stati richiamati, i beni confiscati sono stati restituiti; e tuttavia a tal segno è giunto il loro furore, che fanno ogni opera di sconvolgere i popoli, perché non è più permesso loro usar tirannia sopra gli altri …»

E agli abitanti di Bostra:

«Le ragioni hanno a vincer gli uomini, non le ingiurie, né i tormenti nelle membra. E lo dico e ridico più volte, non sia malmenato il popolo de’ Galilei; perciocché coloro che in grandi cose s’ingannano sono più degni di pietà che d’odio» (neretto mio).

 

 

 

 

 

 

 

 

L’articolo Quando gli evangelici ammiravano Giuliano (l’apostata) proviene da DiRS GBU.

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Il conflitto israeliano palestinese nell’ultimo periodo ha suscitato grande interesse non solo nel mondo evangelico, ma sicuramente in tutto l’Occidente. Bisogna aggiungere, inoltre, che l’atteggiamento che, in alcuni casi, ha avuto il governo israeliano nei confronti dei civili palestinesi non ha avuto il consenso di una parte dell’opinione pubblica occidentale ed ha suscitato non pochi dibattiti che sono anche confluiti, come avevamo detto ad inizio di anno, anche nelle discussioni e indagini che si sono tenute nelle corti internazionali di Giustizia, chiamate a pronunciarsi su un eventuale genocidio o eventuali crimini di guerra.

Per comprendere ciò che sta accadendo e che tipo di atteggiamento un credente dovrebbe avere, conviene leggere anche qualcosa che vada al di là del testo biblico e di testi che parlino di teologia della restituzione o che echeggino differenti posizioni teologiche. Come apparso anche a Seul, al quarto Congresso di Losanna, i credenti devono guardare alla situazione con preghiera, attenzione ed apprensione, senza confondere l’Israele profetico con l’attuale stato di Israele e con l’attuale governo di questo Stato che è fatto da uomini. 

In Italia non mancano le pubblicazioni uscite negli ultimi mesi a tal proposito, ma ci sentiamo di segnalare un piccolo libro pubblicato per i tipi di Laterza e scritto da Anna Foa che si intitola Il suicidio di Israele e che oggi è tra i primi in classifica in Italia nella saggistica (a dimostrazione dell’interesse per l’argomento) e che ho avuto il piacere di presentare in dialogo con l’A. l’altro ieri nella scuola dove insegno.

Anna Foa è stata docente di Storia Moderna alla Sapienza di Roma ed è stata sempre impegnata nella ricerca sul mondo ebraico in Italia, essendo anche lei ebrea della diaspora come ama definirsi. Diversi suoi libri hanno anche parlato della Shoah e di quanto successo agli Ebrei nel XX secolo ed anche prima soprattutto in Italia.

La Foa in quattro rapidi capitoli analizza quale sia la situazione oggi a partire dalla storia: come accade da parte di molti storici la data da cui si parte non è quella biblica ma quella della nascita del sionismo o, per dirla meglio, dei sionismi. Nel testo infatti si precisa la pluralità del movimento sionista e lo si paragona (come è giusto che sia) con il movimento risorgimentale italiano, un movimento di identità nazionale che è stato, di fatto il fondatore dell’odierno Israele nel 1948 e dove sono confluiti pensieri politici che vanno dal socialismo al conservatorismo religioso e laico, rappresentato dall’attuale premier. Israele, infatti, è stato governato per quasi trent’anni dai laburisti che sono coloro che hanno avuto anche le maggiori vittorie nelle guerre arabo-israeliane ed hanno iniziato le trattative con i Paesi Arabi e, in seguito, con i Palestinesi che, purtroppo, non hanno portato ad una soluzione. 

Nel capitolo dedicato all’identità la Foa ricorda che i rapporti tra arabi ed israeliani non sono stati sempre tesi e lo sono diventati dopo la fondazione di Israele. Sino a quando gli ebrei si sono insediati dalla fine del XIX secolo in Palestina non vi sono stati particolari contrasti che si sono invece ampliati dopo la fondazione dello Stato e durante la presenza degli Inglesi dopo la prima guerra mondiale. Il problema che vede la Foa, che dice di parlare come ebrea della diaspora, laica ma che ama il suo popolo e che la fondazione delle identità delle due nazioni è avvenuta a seguito due due eventi ritenuti tragici: la Shoah perpetrata dai nazisti e la Nakba (la catastrofe) che i Palestinesi ritengono di aver vissuto dopo la fondazione dello Stato di Israele. Senza discutere della diversa portata dei due eventi, nel testo si ritiene che tutto ciò ha portato all’assunzione da parte dei due popoli di un paradigma vittimario che difficilmente può portare ad una riconciliazione. 

Il terzo capitolo del testo ricostruisce in poche pagine i fallimenti ed i tentativi di fare pace tra i due popoli che erano culminati con gli accordi di Oslo che sono miseramente falliti, sia a causa dei palestinesi che anche dei governi israeliani conservatori che non volevano dare veramente indipendenza ai territori che sarebbero dovuti essere della Palestina. La questione di Gerusalemme poi ha spesso travolto i processi di pace e non li ha fatti arrivare alla conclusione.

Questo pessimismo (che permane nel libro) ci porta all’ultimo capitolo che porta il titolo del testo e dove la storica di origine ebraica non mostra grande ottimismo per ciò che è accaduto dal 7 ottobre di un anno fa e pensa che le scelte dell’attuale governo israeliano che ha di fatto anche annichilito l’opposizione interna dopo le numerose manifestazioni che avevano preceduto gli eventi, non portano a nulla di buono. Sia l’attuale governo israeliano che Hamas vorrebbero per sé tutta la Palestina e non sono disposti a cedere su nulla rischiano la distruzione del proprio popolo e di sé stessi.

Seppur con un finale non speranzoso la Foa ha voluto cercare di dare una visione il più possibile serena di quanto sta accadendo leggendo con gli occhi della storica ebrea della diaspora. Infatti, agli ebrei fuori di Israele rimprovera il poco attivismo nell’aiutare gli israeliani a trovare una soluzione pacifica. Il suo è un accorato appello soprattutto verso il suo popolo che vede sbagliare, piuttosto che una condanna contro il terrorismo palestinese (che pure nel testo c’è).

Si tratta di un testo appassionato, scritto da una persona veramente esperta del problema perché se ne sente coinvolta ma che è in grado anche di farsi spazio all’interno di una politica sempre più polarizzata in tutto il mondo e che cerca di esprimere una voce moderata ed anche preoccupata per quanto sta accadendo. Da un punto di vista evangelico è un testo che va letto con interessa perché, pur nella sua brevità, dà una documentazione notevole per comprendere quanto accaduto ed una prospettiva che mostra che non tutti gli Ebrei (neanche all’interno di Israele) sono d’accordo con l’attuale governo. Per quanto ci riguarda, oltre le condanne che condividiamo quando vengono attaccati innocenti, il nostro compito è pregare per la pace ed agire per la riconciliazione.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’articolo Lunedì Letterario. Israele verso il suicidio? proviene da DiRS GBU.

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di Nicola Berretta

Sono trascorsi oramai quasi 5 anni da quel lontano febbraio 2020 quando in Italia scoppiò la pandemia da Covid-19, e il dramma collettivo che abbiamo tutti quanti attraversato sembra oramai solo un ricordo lontano. Un ricordo, però, che lascia ancora strascichi con conseguenze fisiche in alcuni di coloro che ne sono stati colpiti più violentemente, ma anche conseguenze emotive in chi ha perduto persone care, o psicologiche in chi ha subito con maggiore difficoltà il lungo periodo di isolamento sociale, soprattutto bambini e adolescenti. Prima però che quella brutta esperienza cada completamente nell’oblio, confinata nei soli manuali di microbiologia ed epidemiologia, penso che sia giunto il tempo per fare qualche bilancio, guardando all’esperienza vissuta con maggiore lucidità potendola adesso osservare dall’esterno, senza essere più travolti dall’accavallarsi di notizie allarmanti se non addirittura evocatrici di complotti costruiti a tavolino. Non va infatti dimenticato il clima di sospetto e demonizzazione che ha accompagnato gli anni della pandemia, che ha coinvolto anche realtà ecclesiali. Fare un bilancio a posteriori può essere dunque utile per valutare con spirito critico l’esperienza attraversata, nella speranza di farne tesoro per il futuro.

I dati che seguono sono per la maggior parte frutto di una mia elaborazione a partire da informazioni fornite dal Ministero della Salute e accessibili in rete[1]. Inoltre farò riferimento a elaborazioni dell’Istituto europeo EuroMOMO, che raccoglie dati sulla mortalità della popolazione della maggior parte dei Paesi europei, inclusa l’Italia, accessibili anch’essi in rete[2].

Una critica metodologica che potrebbe essere mossa prima ancora di illustrare i dati che seguono potrebbe sorgere per un dubbio sollevato fin dall’inizio della pandemia, circa l’affidabilità del numero di morti certificati dalle agenzie preposte, se cioè si sia trattato davvero di decessi dovuti al Covid-19 oppure quei numeri siano stati intenzionalmente gonfiati, se non addirittura inventati di sana pianta. Forse ricorderemo la polemica se si trattasse di morti per Covid oppure di morti con Covid, se cioè si trattasse di persone decedute a causa del virus Sars-Cov-2 oppure di persone morte per tutt’altro motivo, ma che incidentalmente erano state infettate da quel virus. È utile allora avvalersi di una comparazione tra i dati ufficiali sui decessi da Covid-19 comunicati dal Ministero della Salute e quelli relativi al numero assoluto di morti documentato dall’agenzia EuroMOMO. Questi ultimi infatti sono analisi statistiche su quante persone siano morte in un determinato periodo, al di là della causa del loro decesso, sia esso dovuto a malattie di qualsiasi tipo oppure anche accidentale.

 

Il Grafico 1 presenta in alto i decessi che si sono verificati Italia dalla fine del 2018 ad oggi (novembre ’24) per qualsiasi causa[3]. La linea orizzontale rossa indica la soglia oltre la quale i morti sono sostanzialmente superiori all’atteso, in base alle statistiche degli anni precedenti. Nota che il numero di decessi presenta sempre un’eccedenza più o meno marcata nei mesi di dicembre e gennaio, a causa dell’influenza stagionale, come si può notare ad esempio all’inizio del 2019, tuttavia è evidente l’aumento drammatico nell’incidenza dei morti per qualsiasi causa poco dopo l’inizio del 2020, quando per l’appunto scoppia in Italia la pandemia da Covid-19, e che continua in ondate successive anche in periodi dell’anno di norma non soggetti a variazioni sostanziali nel numero di decessi. Quello che però è ancora più importante sottolineare è la comparazione tra il grafico in alto di EuroMOMO e quello grigio sottostante, relativo al numero di morti ufficialmente riconosciuti per causa di Covid-19. Una semplice analisi visiva mostra un andamento pressoché parallelo dei due grafici. Anche un’analisi dei numeri crudi, che qui non presento, indica che il numero di morti dichiarati ufficialmente come dovuti a Covid-19 rispecchia l’eccedenza di decessi rispetto ad anni precedenti, anzi, sembrerebbe addirittura inferiore. Cosa ci dice questo? Ci dice che i numeri comunicati dalle agenzie governative sui decessi dovuti al Covid-19 sono affidabili. Se può essere accaduto che qualcuno sia stato erroneamente incluso tra i deceduti per Covid-19, ce ne sono stati altrettanti (se non di più) che sono morti per Covid-19 ma non sono stati documentati come tali.

Dopo questa premessa metodologica è utile ricordare di che numeri stiamo parlando. Da febbraio 2020 ad oggi il virus Sars-Cov-2 ha colpito quasi 27 milioni di italiani[4], provocando un totale di 198.155 morti (al 30 ottobre 2024). Sono tanti? Sono pochi? Beh, se è vero che in Italia il numero di civili morti durante la IIa guerra mondiale sono stati poco più di 150 mila (fonte Wikipedia[5]), direi che in questi ultimi 5 anni in Italia si è verificata una vera e propria tragedia. Altro che influenza! È utile e doveroso sottolineare questa realtà, per avere maggiore sobrietà e comprensione nel valutare oggi, col senno di poi, decisioni operative che sono state prese per rispondere a un’emergenza di estrema gravità e per di più del tutto inedita nella nostra storia recente.

Torniamo ancora ai dati di EuroMOMO (Grafico 2), questa volta però guardando ai decessi avvenuti per qualsiasi causa da fine 2018 a oggi in tutta Europa, sia totali (grafico in alto) sia suddivise per fasce di età (grafici successivi). Di nuovo, l’eccedenza numerica rispetto alle attese è segnalata dal superamento della linea rossa tratteggiata. Nota che questa volta l’andamento è tendenzialmente sinusoidale e non rettilineo come nel grafico precedente, perché questo grafico riporta numeri assoluti e non il parametro statistico “z-score”. Al di là di questi dettagli tecnici, sono ancora evidenti le chiare eccedenze nel numero di decessi corrispondenti alle varie ondate di pandemia da Covid-19 successive a febbraio 2020. L’informazione in più che ci fornisce questo grafico è l’incidenza dei decessi in rapporto all’età. Se da una parte è chiarissimo l’aumento di decessi in persone di oltre 65 anni (grafico in basso), per i più giovani (0-14 e 15-44 anni) il numero dei morti in Europa è rimasto sostanzialmente all’interno dei parametri attesi. Questo dato conferma l’evidenza ampiamente riportata secondo cui gli effetti più gravi del Covid-19 si sono verificati in larga parte nella fascia di età oltre i 60 anni, mentre i più giovani ne sono stati sostanzialmente risparmiati.

C’è però un altro dato importante che ci viene fornito da questo grafico, alla luce delle polemiche che tuttora circolano circa i pericoli del vaccino anti-Covid somministrato in massa in Europa a tutte le fasce di età dalla seconda metà del 2021 a tutto il 2022. Se da una parte è vero che nei più giovani non si è verificato alcun aumento sostanziale nel numero dei decessi da virus Sars-Cov-2, è altrettanto vero che non si è verificato alcun aumento significativo di decessi nei giovani a seguito della campagna vaccinale. Se cioè fosse vero, come taluni continuano ad affermare, che vi sarebbero state e vi sarebbero tuttora tantissimi decessi di giovani che hanno ricevuto il vaccino, ma sottaciuta dalle fonti governative, questi grafici dovrebbero renderle esplicite. Mi rendo conto che, chi è convinto che vi sia in atto una cospirazione per coprire il pericolo di questi vaccini, continuerà a ritenere che anche questi numeri siano stati manipolati, ma mi auguro che possano convincere quella fascia più ampia di persone che magari sono rimaste nel dubbio perché impressionate da informazioni circa episodi singoli e circostanziati.

 

Continuando sul tema della campagna vaccinale, andiamo ora all’ultimo Grafico 3, ottenuto dai dati ufficiali diramati dal Ministero della Salute. Il grafico in alto (colore blu) mostra il numero di italiani risultati positivi al virus Sars-Cov-2 dall’inizio della pandemia a oggi, mentre quello sottostante (colore rosso) riporta il numero di morti giornalieri nello stesso arco temporale. Si nota un picco di decessi avvenuto con la 1a ondata iniziata nel febbraio 2020. Fu in risposta a quell’esplosione di morti da Covid-19 che il Governo italiano impose restrizioni alla libera circolazione per tutta la primavera 2020 (lockdown). A quella 1a ondata di decessi ha fatto seguito una 2a ondata dopo l’estate 2020 fino alla primavera del 2021. Questa è stata la fase che ha visto complessivamente il maggior numero di decessi per Covid-19, ma comunque, in rapporto, è stata più contenuta della precedente, se si considera il numero di positivi notevolmente maggiore che si verificò in quel periodo rispetto alla prima ondata (grafico blu). Si assiste poi a una 3a ondata di decessi a partire dalla seconda metà del 2021, che continua in modo irregolare per tutto il 2022. Anche in questa 3a fase c’è un considerevole numero di decessi, ma occorre notare che questi decessi si verificano in concomitanza col periodo in cui si registra il maggior numero di persone positive (nota la serie di picchi nel grafico blu, che raggiungono valori fino a più di 200.000 positivi al giorno).

Questa osservazione ci introduce al grafico in basso (colore bianco). Si tratta di un grafico che misura la letalità del virus, valutata guardando a quanti decessi si sono verificati in un determinato periodo, in rapporto al numero di persone che sono risultate positive al virus in quello stesso periodo[6]. I valori di letalità dalla seconda metà del 2020 si assestano tra l’1 e il 3%[7]. Il che vuol dire che in quel periodo, di 1000 persone che venivano diagnosticate positive al virus Sars-Cov-2, ne sarebbero poi decedute da 10 a 30. Osservando con attenzione il grafico, si nota che a partire dagli ultimi mesi del 2021 si assiste a un drastico calo nel tasso di letalità, che resta costante per tutto il 2022 a livelli attorno allo 0.3%, per poi risalire. Tornando all’esempio di prima, tra la fine del 2021 a tutto il 2022, su 1000 persone che venivano diagnosticate positive al virus Sars-Cov-2, ne decedevano 3, cioè fino a un decimo della situazione precedente. Cosa è successo in Italia dall’autunno del 2021 a tutto il 2022? La risposta è semplice: c’è stata un’estesa campagna vaccinale contro il virus Sars-Cov-2.

Facciamo allora qualche semplice calcolo numerico. Durante l’intero anno 2022 è stato riportato ufficialmente un totale di circa 50.000 morti per Covid-19. Un numero sicuramente alto, ma di fatto relativamente contenuto se si rapporta all’altissimo numero di contagi che si sono verificati in quel periodo (3a ondata nel grafico blu). Se infatti il tasso di letalità fosse stato pari a quello dell’anno precedente, prima della campagna vaccinale, quel numero di positivi avrebbe dato luogo a più o meno 300.000 morti. Questi numeri ci dicono che la campagna vaccinale ha salvato (solo in Italia!) un numero pari a circa 250.000 vite umane, cioè, più del totale di morti per Covid-19 che si sono verificati fino a oggi in Italia! Per inciso, dopo la campagna vaccinale il tasso di letalità è risalito per raggiungere valori simili al periodo precedente, ma tutt’oggi il numero assoluto di decessi rimane contenuto perché il numero di positivi al virus è calato drasticamente[8].

Questi sono numeri, non sono opinioni. Sono numeri che dovrebbero sollecitarci qualche riflessione. La prima cosa che mi viene in mente è l’intervento mio e di due stimati colleghi (Emanuele Negri e Graziano Riccioni) nel maggio del 2022, in occasione del 15° Convegno nazionale delle Edizioni GBU[9], in cui ci esponemmo a favore della campagna vaccinale allora in atto, all’interno di una polemica a tratti molto aspra sollevata da chi invece ne paventava i pericoli collegati a malvagie cospirazioni internazionali. Ricordo molto bene i commenti successivi in risposta a quell’intervento, e i moniti sulla grave responsabilità che ci eravamo assunti (davanti a Dio!) nell’esporre al rischio di morire tante ignare persone, senza che essi stessi fornissero poi alcuna evidenza oggettiva, documentata, a sostegno di quegli anatemi.  La mia coscienza era pulita allora e lo è tanto più adesso, alla luce di quanto documentato sopra. Ma mi domando se coloro che si sono spesi per diffondere notizie infondate su complotti internazionali in atto, finalizzati a imporre una vaccinazione dannosa per la salute umana, non dovrebbero oggi valutare l’opportunità di riflettere sul proprio comportamento. Di fatto, almeno 250.000 persone (solo in Italia!) non sarebbero oggi in mezzo a noi se si fosse dato ascolto ai loro interventi minacciosi sui rischi dei vaccini. Sottolineo, non mi sto riferendo a chi, per motivi personali, ha deciso di non vaccinarsi. Sto parlando di chi si è fatto promotore della diffusione di notizie infondate su inesistenti pericoli dei vaccini, per dissuadere e scongiurare che altri si vaccinassero.

La speranza è che questi anni tribolati divengano solo un ricordo lontano che i giovani d’oggi potranno narrare ai loro nipotini, vantandosi di aver vissuto quell’esperienza riportata nei libri di storia. Tuttavia non sarebbe male se facessimo tutti quanti tesoro di ciò che è accaduto, magari anche solo per riflettere sugli enormi danni di cui possiamo divenire responsabili diffondendo notizie di cui non siamo certi circa l’origine e la correttezza. E su questo, non è utile rifugiarsi dietro l’alibi di averlo fatto innocentemente, solo “a titolo di informazione”, come spesso mi capita di sentire. Nel momento stesso in cui diffondiamo una notizia infondata, si diviene corresponsabili dei danni che essa provoca.

Inoltre, non sarebbe male riflettere sul clima di diffuso sospetto e scetticismo nei confronti della scienza, che si è tristemente radicato in gran parte del nostro mondo evangelico nel corso dell’ultimo secolo. Ci siamo dimenticati che il metodo scientifico affonda le sue radici nella cultura biblica, come illustri scienziati del passato (e anche del presente) mettono bene in chiaro. È triste constatare che il dilagante pensiero ateo scientista si sia appropriato della paternità di una disciplina che invece è nostra, ma gliel’abbiamo noi stessi consegnata in mano, guardando al mondo scientifico come a un nemico della fede. Un pensiero che consolidiamo ulteriormente nell’accostarci alle tante teorie cospirazioniste antiscientifiche oramai sempre più diffuse in rete. Se questa esperienza ci porterà perlomeno a iniziare un cambiamento nel nostro atteggiamento sospettoso nei riguardi dei risultati scientifici, allora il Covid-19 sarà stato una vera benedizione.

[1] https://ift.tt/L87skcA

[2] https://ift.tt/8ev2yiC

[3] Nota che i dati non sono numeri assoluti, ma il parametro statistico “z-score”, che è comunque direttamente correlato alla quantità di decessi.

[4] Questo dato non tiene conto delle persone che hanno contratto più volte il virus nel corso di questi anni, per cui questa cifra è verosimilmente una sovrastima.

[5] https://ift.tt/f5wyrAx

[6] Più precisamente, ogni giorno è stata calcolata la media dei decessi avvenuti quel giorno stesso e nei 6 giorni precedenti. Questo valore è stato rapportato (x100) alla media dei nuovi positivi riportati nella seconda settimana antecedente. Questa scelta è stata fatta assumendo un periodo di degenza di 2 settimane, da quando una persona era stata riconosciuta positiva al virus fino al suo decesso.

[7] Nota che nei primi mesi di pandemia il valore di letalità è talmente alto da andare fuori scala. Si tratta di valori che raggiungono anche l’80-90%, ma si tratta sicuramente di cifre non verosimili perché con tutta probabilità il numero di decessi era rapportato a un numero di positivi inferiore al dato reale, vista la scarsa diffusione di tamponi.

[8] Circa i motivi di questo calo nella diffusione del virus, lascio la parola ai virologi che spiegherebbero molto meglio di me questo fenomeno, non nuovo, di ondate di diffusione dei virus finché poi di fatto si estinguono. Detto questo, la risalita del tasso di letalità indica che il virus continua ad essere potenzialmente pericoloso, ed è per questo motivo che ne viene tutt’ora attentamente monitorata la diffusione.

[9] https://www.youtube.com/watch?v=2r5nJA6oPGY

L’articolo 5 anni dal Covid-19: tempo di bilanci numerici… e non solo proviene da DiRS GBU.

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di Maria Gil Orefice, laureanda in Filologia Moderna

“Vivere e confrontarsi con l’Islam” è il tema su cui si è incentrato il diciassettesimo Convegno di Studi GBU: tre giorni densi di seminari e approfondimenti estremamente interessanti ma soprattutto utili per conoscere meglio il mondo musulmano e comprendere i metodi migliori per instaurare un dialogo nella Verità con chi ne fa parte. L’oratore, insieme ai professori incaricati dei diversi seminari, ha accompagnato noi partecipanti nella scoperta dell’Islam, delle sue origini e di come si è evoluta la sua percezione nel corso dei secoli.

Due interventi che ho molto apprezzato personalmente sono stati quelli del professor Claudio Monopoli e della professoressa Aoife Beville. Il primo ha tracciato l’evoluzione della percezione del mondo musulmano nella letteratura italiana, da Dante che pone Maometto tra i seminatori di discordia (non tra gli eretici!) a Tasso che nella sua Gerusalemme liberata dipinge i musulmani come esseri completamente malvagi, con forze demoniache dalla loro. La professoressa Beville ha invece approfondito Il cavallo e il ragazzo di C.S. Lewis e il modo in cui l’autore ha descritto i Calormeniani al suo interno, sviluppando una riflessione molto interessante su come qualcosa che noi potremmo non notare neanche (in questo caso, la rappresentazione dei Calormeniani come uomini dalla pelle scura e la barba lunga e sporca che indossano turbanti) possa invece apparire evidente e dissuadere dalla lettura un musulmano che dovesse trovarsi a leggere. Collegandomi a questo, riporto uno dei punti fondamentali emersi durante il Convegno: per creare un dialogo con qualcuno altro da noi, è necessario approcciarsi con dignità a ciò in cui crede. Per quanto noi siamo giustamente convinti della Verità della Bibbia, non dobbiamo commettere l’errore di sminuire le persone musulmane con cui ci confrontiamo; non se vogliamo avere una possibilità di instaurare un dialogo sincero e utile a portarli a Dio.

Questo Convegno mi ha fornito vari spunti e tattiche utili a comprendere ed evangelizzare i musulmani, ma ciò che mi ha più colpita è senza dubbio come lo strumento più efficace nel portare i musulmani a Cristo sia il Corano stesso. Questo non ci è stato solo spiegato dall’oratore, Emil Shehadeh, ma anche testimoniato da un ragazzo cristiano di origini musulmane che ha raccontato come proprio leggendo il Corano abbia iniziato a porsi domande: perché l’Islam ritiene Maometto come massimo profeta, se nel loro libro sacro è evidente che Gesù sia il più glorioso tra tutti i profeti? Perché molti musulmani accusano i cristiani di aver modificato la Bibbia, se il Corano afferma che Allah non permette a nessuno di modificare la sua parola?

Conoscere il contenuto del Corano, quindi, rappresenta un vantaggio se si vuole instaurare un dialogo con persone musulmane. Emil Shehadeh ci ha fornito delle ottime basi di partenza; sta a noi, ora, continuare a studiare e approfondire il tema, se sentiamo la chiamata in questa direzione.

Questi tre giorni di Convegno sono stati un’esperienza intensa e davvero utile per la mia crescita spirituale, sono grata di aver partecipato e averne ricavato spunti utili per come evangelizzare o dialogare con persone di altre fedi in generale, oltre che musulmane nello specifico.

L’articolo Convegno Studi GBU – Impressioni proviene da DiRS GBU.

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(Daniel K. Williams)

Articolo tradotto e pubblicato con autorizzazione di Christianity Today

 

Quando Jimmy Carter parlò della sua fede in Cristo, durante la campagna elettorale per la presidenza del 1976, molti evangelici rimasero estasiati.

Nessun candidato aveva mai affermato di essere “nato di nuovo” o parlato così apertamente del suo rapporto con Gesù. Né aveva accolto mai i giornalisti nella sua classe di discepolato per adulti, che Carter continuò a tenere nello stesso periodo in cui si era candidato per la Casa Bianca. D’altronde, nessun altro candidato era mai stato un diacono di una chiesa battista del sud degli Stati Uniti.

Il pastore dell’Oklahoma, Bailey Smith, rivolgendosi alla folla radunata per l’incontro annuale della SBC, nel giugno del 1976, affermò che gli Stati Uniti avevano bisogno di un “uomo nato di nuovo alla Casa Bianca”. Poi aggiunse, nel caso qualcuno non avesse colto l’allusione, “Le iniziali del suo nome sono le stesse di quelle del nostro Signore!” [Jimmy Carter, come Jesus Christ, ndt]

Ma solo poche settimane dopo, la Third Century Publishers, una casa editrice evangelica riconducibile al fondatore di Campus Crusade for Christ, Bill Bright, pubblicò un libro che criticava duramente la bontà della fede evangelica di Carter. Il libro, What about Jimmy Carter? fu scritto da un giovane evangelista di nome Ron Boehme.

Boehme, quando sentì parlare per la prima volta della candidatura di Carter, disse di essersi “emozionato” all’idea che un cristiano nato di nuovo fosse candidato alla Presidenza. Tuttavia, man mano che approfondiva le convinzioni di Carter, la sua opinione sul candidato democratico si inasprirono. Scoprì che Carter aveva abbracciato una visione neo-ortodossa della Bibbia e sosteneva politiche liberali relative all’aborto e ai diritti degli omosessuali.

Boehme concluse che forse Carter non fosse affatto un evangelico o che addirittura non fosse neanche un credente. Scrisse: “Quando qualcuno, nella sua campagna politica e nel suo approccio alla legge, promuove o asseconda immoralità ed empietà allora non è un vero seguace di Gesù”. Prendendo in prestito di una delle affermazioni di Gesù nel Sermone sul Monte, Boehme aggiunse: “Un albero buono non può produrre frutti cattivi”.

Boehme non fu il solo a giungere a questa conclusione. Sebbene Carter nel 1976 avesse preso circa la metà dei voti degli evangelici bianchi, molti evangelici, nelle settimane che precedettero le elezioni, rilanciarono i dubbi di Boehme. L’intervista di Carter alla rivista Playboy turbò molti cristiani conservatori, e lo stesso effetto produssero alcune delle sue posizioni politiche.

Nel 1980, alcuni evangelici che un tempo avevano sostenuto Carter (come il conduttore radiofonico Pat Robertson) furono in prima linea nel movimento per sconfiggerlo alle elezioni di quell’anno. Carter, sostenevano, aveva promosso un “umanesimo secolare” grazie al sostegno di un programma femminista e al suo rifiuto di opporsi ai diritti degli omosessuali. In effetti, nel 1980, fu in gran parte una reazione alle politiche presidenziali di Carter che spinse la mobilitazione politica della destra religiosa e il forte sostegno evangelico a Ronald Reagan.

Dopo che Carter lasciò la Presidenza, la frattura tra lui e la leadership, sempre più conservatrice della Southern Baptist Convention, continuò ad approfondirsi. Alla fine, Carter lasciò la Convention per unirsi alla Cooperative Baptist Fellowship (SBC), una denominazione che ordinava le donne e rifiutava alcune delle posizioni politiche conservatrici della SBC.

Ma Carter continuò a definirsi un cristiano evangelico. Continuò a raccontare di leggere la Bibbia ogni giorno, di pregare costantemente e di tenere lezioni settimanali di scuola domenicale nella sua chiesa battista. Il suo lavoro di volontariato con lo Habitat for Humanity divenne leggendario. E spesso, mentre era ancora Presidente, aveva condiviso la sua fede con gli altri, incluso leader internazionali non cristiani.

Scrisse anche diversi libri sulla sua fede. “Sono convinto che Gesù sia il Figlio di Dio”, affermò nel suo ultimo libro, pubblicato nel 2018. Dichiarò che Gesù era il suo “personale salvatore “, e anche “una guida personale e un esempio per la propria vita e per quella degli altri. … Gli elementi fondamentali del cristianesimo valgono personalmente per me, modellano il mio atteggiamento e le mie azioni e contribuiscono a darmi una vita gioiosa e positiva, una vita che ha uno scopo”.

Dopo aver consultato la descrizione dell’evangelicalismo che aveva rinvenuto in un articolo di Wikipedia, e dopo averla integrata con note tratte da uno dei suoi commentari alla Bibbia, Carter concluse nel suo libro che egli non era solo un cristiano, ma che era un “cristiano evangelico”. Era nato di nuovo; condivideva la sua fede con gli altri e amava Gesù come suo personale Salvatore. Che cosa poteva esserci di più evangelico di questo?

Ma c’era una differenza tra la comprensione della fede che Carter mostrava e le opinioni dei suoi critici evangelici. La sua esperienza di conversione con la nuova nascita avrebbe potuto essere sicuramente simile alla loro, e la sua dedizione alla preghiera e alla lettura della Bibbia altrettanto forte della loro, ma su due questioni Carter era distante dagli evangelici conservatori della fine del XX secolo: l’inerranza biblica e la politica.

Questi erano proprio i temi al centro della crescita dei conservatori della Southern Baptist Convention che ebbe inizio proprio mentre Carter era in carica come Presidente. Per molti evangelici conservatori degli anni ’70, per Harold Lindsell, Francis Schaeffer e i leader della parte conservatrice all’interno della Southern Baptist Convention, il tema dell’inerranza biblica era centrale per l’identità evangelica. Sostenevano che senza una Bibbia infallibile i cristiani protestanti non avrebbero avuto una fonte di autorità che fosse stata stabile e trascendente. Il principio della Riforma del sola scriptura, combinato con una comprensione della perfezione e della sovranità di Dio, esigeva una scrittura infallibile.

Molti di questi evangelici sostenevano anche che il governo americano avesse bisogno di uno standard morale stabile e trascendente, basato sui principi cristiani. La legalizzazione dell’aborto e una nuova glorificazione pubblica dell’immoralità sessuale erano il risultato di politici e giudici che avevano dimenticato la legge di Dio.

La loro visione del cristianesimo che doveva avere un’influenza nella sfera pubblica si esprimeva principalmente nel bisogno di sostenere i principi morali cristiani a fronte della crescente secolarizzazione. Ritenevano la rivoluzione sessuale, insieme alla seconda ondata di femminismo, la più grande minaccia che la famiglia americana avesse mai subito. Ed erano determinati a fermare quella minaccia eleggendo persone devote nelle cariche pubbliche, persone che sarebbero state guidate dalla legge di Dio, non dalle tendenze culturali del tempo.

Carter, però, non condivideva nessuna di queste opinioni. Le sue idee politiche e religiose non erano state plasmate da una reazione alla rivoluzione sessuale, ma dall’esperienza del movimento per i diritti civili. Come altri bianchi del sud della sua generazione, Carter era cresciuto a contatto con la segregazione razziale e la disuguaglianza, e giunse alla conclusione che le chiese evangeliche bianche della sua regione erano per lo più dalla parte sbagliata della lotta per la giustizia degli afroamericani.

La chiesa battista di Carter a Plains, in Georgia, fu ufficialmente segregazionista fino al 1976. La comunità votò negli anni ’60 contro l’accoglienza di persone di colore quali propri membri, e Carter si oppose a quella decisione pur non abbandonando la chiesa. Eppure, come ricordò anni dopo nel suo libro Faith: A Journey for All, venne ispirato dagli esempi di altri cristiani che assunsero una posizione controculturale volta a superare la linea del colore presente nel sud segregazionista. Ad esempio, a poche miglia dalla sua casa di Plains, Millard e Linda Fuller diedero il via a un’impresa agricola cristiana interrazziale, chiamata Koinonia, per poi fondare Habitat for Humanity.

Incontri con persone come i Fuller convinsero Carter che ciò di cui il paese aveva bisogno non era una campagna pubblica per riportare l’America a Dio. Era una concreta imitazione dell’etica di Gesù. Dopotutto, era in questo modo che i sostenitori cristiani afroamericani dei diritti civili avevano ottenuto il sostegno dei cristiani bianchi, che in precedenza erano contro di loro, in quanto furono toccati dall’esempio dell’amore cristiano che avevano visto tra gli attivisti.

Carter fu così colpito da esempi del genere tanto da incorniciare la sua fede intorno a questo principio piuttosto che intorno a specifiche rivendicazioni dottrinali. Ma più leggeva le Scritture, più veniva colpito dall’etica di Cristo e più desiderava avere Gesù come suo “amico” per grazia mediante la fede.

Per Carter, quindi, l’inerranza biblica non era un problema. Giunse a pensare che forse la Bibbia potesse contenere alcune contraddizioni interne che non potevano essere armonizzate, e che parti della Bibbia potessero avere bisogno di essere reinterpretate alla luce della scienza moderna. Ma questo non aveva importanza, poiché il racconto della vita di Gesù era al contrario storicamente corretto.

Similmente, Carter ritenne che le priorità politiche della destra cristiana fossero sbagliate, perché erano incentrate non sull’etica di Gesù ma sull’idea errata che i valori della famiglia potessero essere imposti per legge. In quanto battista arminiano, Carter si opponeva ai credi: credeva nel sacerdozio di tutti i credenti e insisteva fermamente sul fatto che la fede, per essere autentica, dovesse essere liberamente scelta. Non poteva essere dettata dalla legge, sostenne in dei suoi numerosi libri, tra cui Our Endangered Values: America’s Moral Crisis e Faith: A Journey for All.

Seguire Gesù mentre si occupava una carica pubblica non poteva significare allora imporre standard cristiani per legge. Per Carter, doveva significare agire con integrità e con sollecitudine per tutte le persone. E se la nazione si fosse rivolta a Dio, allora il frutto di questa conversione non sarebbe stato necessariamente quello di leggi contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso o contro l’aborto. Sarebbe stato, al contrario, un dedicarsi “alla risoluzione delle controversie con mezzi pacifici” e un impegno per “libertà e per i diritti umani” a favore degli altri, incluso, e in particolar modo, i diritti delle donne che, secondo lui, troppi evangelici conservatori ignoravano.

La fede di Carter appariva più funzionale al protestantesimo storico che non all’evangelicalismo americano di fine XX o di inizio XXI secolo, e gli evangelici non avevano torto quando rilevavano questa differenza. Ma Carter è rimasto un battista per tutta la vita in quanto credeva in una conversione frutto della nuova nascita, in una relazione personale con Gesù e nella necessità di condividere la propria fede con gli altri. Parlava sempre di fede con un accento evangelico e, nonostante le sue differenze rispetto ai cristiani più conservatori, nutriva un amore per lo stesso Salvatore.

Nell’ottica della storia, e grazie al periodo più lungo di una post-presidenza americana, queste somiglianze sono forse più facili da vedere oggi di quanto non lo fossero nel 1980. La determinazione di Carter a estendere l’amore di Gesù è stato il miglior riflesso del Sermone sul Monte di quanto non si rendessero conto i suoi critici evangelici.

Daniel K. Williams insegna American history presso la Ashland University ed è autore di The Politics of the Cross: A Christian Alternative to Partisanship.

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(di Giacomo Carlo Di Gaetano)

  1. Il dialogo è parte integrante della missione e della proclamazione del vangelo
    Manifesta virtù cristiane (ascolto e attenzione) e non è espressione della mollezza o della debolezza postmoderna né tanto meno di uno scivolamento verso forme di religionismo o ecumenismo (Col. 4:6; Gc 1:19; Rom 12:18)
  1. Dialogo nella verità
    È impensabile un dialogo in cui il cristiano rinunci alle verità proclamate da Gesù o rinunci alla testimonianza cristiana in quanto ciò significherebbe rinunciare al proprio essere cristiani (Gv 14:6; Rom 1:16–17, 2:16; 2 Tm 3:16–17; Eb 4:12–13; Gv 17:17).

«I cristiani che hanno una posizione dottrinale chiara hanno buone opportunità nel dialogo [p.es. con i musulmani], poiché un convinto fedele musulmano parlerebbe di buon grado più con un cristiano convinto che con un cristiano cosiddetto “liberale” che non conosce la sua fede o con un ateo» (Schirmacher, p. 75).

  1. Dialogo e fondamentalismo
    Le verità fondamentali del cristiano devono essere ricondotte in ultima analisi alla persona e all’opera di Gesù. Nel dialogo i nostri interlocutori non incontrano Gesù ma semplici testimoni. Per questo le verità fondamentali non coincidono con il fondamentalismo, termine utile più a fotografare forme e comportamenti degli individui piuttosto che verità da comunicare.
  1. Nel dialogo, oltre alla Verità, l’Amore
    Il dialogo ha due facce: da un lato c’è l’approccio critico verso le posizioni altrui (Paolo e i suoi sentimenti ad Atene) dall’altro c’è il desiderio di condurre lo stesso dialogo con mansuetudine e rispetto (At 17:16 e 22; 1 Pt 3:15–16)
  1. La dignità dei dialoganti
    La verità e l’amore nel dialogo sono possibili solo presupponendo la pari dignità degli interlocutori. A tal fine il cristiano si impegna a non nascondere o camuffare ciò in cui crede ma anche a non disdegnare la condizione di “credente” dell’interlocutore.«Nel dialogo ci facciamo reciprocamente partecipi della nostra umanità, con la sua dignità e la sua degradazione, ed esprimiamo la nostra comune sollecitudine per questa umanità» (Stott, p. 86)
  2. Il dialogo è tra due esseri umani
    Nel dialogo il nostro interlocutore non sta interagendo direttamente con Dio ma con altri esseri umani che hanno fatto una particolare esperienza di e con Dio.

«I cristiani desiderano che le persone trovino pace con Dio, ricevano il perdono e credano che solo in Dio c’è la verità. Ma queste stesse persone non hanno peccato contro di noi e non devono inginocchiarsi davanti a noi per essere giustificate. Noi stessi non siamo coloro che hanno la verità in tutto e che in ogni cosa che dicono professano sempre la verità. I cristiani non sono onnisapienti» (Schirmacher, p. 74)

«Il mio interesse non è mai diretto al buddismo ma a una persona vivente e al suo buddismo; non stabilisco mai un contatto con l’Islam, ma con un musulmano e il suo maomettismo» (J.H. Bavink, in Stott, p. 85)

  1. Dialogo e “diritti” dei dialoganti.
    Nel cristianesimo i diritti non derivano dal fatto di essere cristiani ma dal fatto che siamo creati a immagine di Dio. Ci sono religioni che accordano diritti unicamente ai propri fedeli. Solo nel cristianesimo si concepisce l’idea di operare e implementare i diritti di tutti, incluso di coloro che sono contro il cristianesimo.
  1. Dialogo e identità
    Il dialogo per i cristiani non discende dal fatto che siamo chiamati a proclamare l’amore di Dio (mandato evangelistico) ma dal fatto di sapere che siamo dei peccatori perdonati.
    I nostri interlocutori devono riconciliarsi con Dio e non con noi. Dunque, è importante che nel dialogo non si dia l’impressione di voler conquistare qualcuno alla nostra causa, enfatizzando la nostra identità religiosa (cristiani vs musulmani; evangelici vs cattolici, etc.).
    Le identità devono essere ridimensionate a causa dell’eccellenza di Gesù Cristo (Fil 3).
  1. Modelli di dialogo
    Dall’insegnamento delle Scritture possiamo estrapolare diversi modelli. Due in particolare possono rivelarsi utili.
    Il primo modello ci impone una scelta: le preghiere del pubblicano e del peccatore (Lc 18:1–13).
    Il secondo ci suggerisce una strategia: il dialogo di Gesù con la donna “samaritana” (Gv 4). Dove bisogna adorare, a Gerusalemme o a Samaria? La risposta di Gesù rileva il fatto che sebbene si possa pensare a una preminenza di una località (la salvezza viene da Sion) tuttavia ora si adora in modo diverso.
  1. Dialogo e cose in comune
    Il dialogo (p.es. con i musulmani) verterà sulle somiglianze tra le due fedi. Allorquando le somiglianze saranno esplorate e condivise, in quel momento, accadrà che un musulmano avrà esaurito i propri argomenti.
    Un cristiano invece inizierà proprio da lì, dalle somiglianze, per rendere la sua testimonianza:«I cristiani non credono semplicemente in un creatore che desidera che facciamo la sua volontà. Piuttosto, credono in un Dio trino la cui seconda persona, Gesù Cristo, ha compiuto la salvezza per il mondo: egli ha conseguito la salvezza per il mondo in quanto l’umanità non è capace di liberarsi dalla colpa dell’ingiustizia. Sono proprio queste le cose indispensabili per i cristiani e queste non appaiono nella lista delle somiglianze tra l’Islam e il Cristianesimo» (Schirmacher, p. 76).

 

Breve bibliografia

  1. J. Stott, Missione cristiana nel mondo moderno
  2. T. Schirmacher, The Koran and the Bible
  3. A. Bannister, Musulmani e cristiani adorano lo stesso Dio?
  4. E. Shehadeh, Dodici discepoli nella Casa dell’Islam
  5. M. Volf, Contro la marea

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

È uso ormai da qualche decennio, in Italia, che il 31 ottobre sia una data in cui la ricorrenza, convenzionale, dell’inizio della Riforma protestante (1517) venga segnalata da una serie di iniziative. Le iniziative sono in crescita, sotto la rubrica di vari slogan che coinvolgono la memoria ma anche l’attualizzazione e la realtà del senso della Riforma protestante.

Un clima del genere, sebbene attenga, per il momento, all’enclave evangelico e protestante, non può che essere positivo per un contesto storico e ideale come quello italiano dove abbiamo nell’archivio dell’identità nazionale il passaggio sulla “Riforma mancata” di Piero Gobetti (1901–1926).

Alla precarietà ed esiguità del recupero della memoria (che è comunque un fatto positivo, lo ribadiamo) si aggiunge anche la constatazione che un tale recupero risente delle varie anime del mondo evangelico che mettono in campo sguardi retrospettivi diversi sulla Riforma. Agli estremi abbiamo lo sguardo quasi agiografico di chi “inventa” una Riforma fatta di eroi a quello più ponderato dell’analisi storica (che è quello a cui ci sentiamo più vicini).

Ma questa pluralità degli approcci al fenomeno riformistico del 1500 e a ciò che significa nell’oggi, fa emergere un tema suggestivo che cercherei di esplicitare in questo modo: in che modo il “pensare” storico (che è memoria, rievocazione, ricordo, etc.) può e deve beneficiare esso stesso di alcuni principi che la Riforma ha introdotto nella storia e nella sensibilità dell’Occidente? Se la Riforma è stato quell’evento che ha riproposto la centralità della Bibbia per tutte le aree dell’esistenza, in che modo questa centralità condiziona lo stesso approccio alla storia?

 

Ci sarebbero diversi percorsi che potrebbero intraprendersi e questa riflessione non è altro che uno spunto. L’area coperta dalle riflessioni storiografiche è amplissima e abitata da tanti luminari che hanno segnato la stessa coscienza occidentale.

Proviamo però a fare questo esercizio.

La prima proposta concerne l’evento storico della Riforma in sé e per sé. Dobbiamo fale nostra la constatazione, che orami è acclarata, che forse sarebbe più corretto parlare di vari rivoli della Riforma, di “riforme”, non sempre sovrapponibili. Personalmente metterei tra parentesi, in questa piccola riflessione “evangelica”, l’interrogativo se la Controriforma sia essa stessa una Riforma.

Quando parliamo di Riforma “protestante”, infatti, abbiamo tra le mani un materiale estremamente variegato e plurale per dinamiche temporali (basti pensare alle differenze tra l’Europa del 1517 e quella della Notte di San Bartolomeo, 1572), per fenomeni sociali (da Enrico VIII alla rivolta dei contadini), per sensibilità culturali e teologiche, e così via.

Forse, il segno più forte, più marcato della pluralità e perfino dell’eterogeneità della Riforma è dato dalla distinzione che si va sempre più affermando e chiarificando tra Riforma Magisteriale (che si affida al magistrato – leggi Lutero e Calvino) e Riforma Radicale.

Se si vuole capire che cosa ha realmente prodotto la stessa riscoperta riformistica di Lutero (la giustificazione per fede), la pedagogia catechistica di Calvino e gli esperimenti ecclesiastici di Zwingli non bisogna solo guardare alla lunga e orribile sequela della repressione controriformistica. Bisogna guardare al coraggio che ebbero gli Anabattisti di portare la Riforma agli estremi, con il gesto eclatante del battesimo degli adulti. La Riforma non doveva fermarsi all’ambito della teologia e divenire poi scolastica e poi ancora guerra di religione, doveva toccare il cuore dell’esperienza cristiana: il modo di essere chiesa secondo il Nuovo Testamento e l’impatto che questo doveva avere nella società, nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra cultura e fede.

La Riforma del pensiero storico (e delle celebrazioni) che guarda alla Riforma passa dal riequilibrio e dalla riscoperta della Riforma radicale. Il 1525 (anno in cui si registrarono i primi battesimi degli adulti) deve essere affiancato al 1517, con buona pace di Lutero, e Calvino, che avevano in orrore il coraggio degli Anabattisti fino al punto di perseguitarli!

 

C’è un secondo punto, ideale, in questa «riforma del pensare storico». Esso concerne l’epicentro da cui tutto si propagò. Sicuramente si trattò della Bibbia, del sola Scriptura – a questa proposito, e a beneficio di questa riforma del pensare storico, dobbiamo ricordare che i cinque “SOLA” non vennero dalla scrivania di Lutero o di Calvino, così tutto di un botto, ma furono il frutto anch’essi di una riflessione, guarda caso, storica!

Ma dietro e dentro il sola Scriptura agiva il principio umanistico del ritorno alle fonti (ad fontes). Lo scrive molto semplicemente Giancarlo Rinaldi nel suo Breve profilo di storia del cristianesimo. Dalla Riforma a oggi: «La parola d’ordine circolante tra gli umanisti era “tornare alle fonti”; questa stessa formula la ritroveremo anche tra i riformatori desiderosi di tornare alla Bibbia quale fonte, unica, della verità per il cristiano» (p. 19).

Una «riforma del pensare storico» deve dunque preoccuparsi di guardare alla Riforma con l’acribia dell’umanista del ‘500.

Non deve accontentarsi delle tradizioni che incapsulano il passato. Queste tradizioni, che possono essere di ordine confessionale (p.es. luteranesimo, calvinismo, anabattismo, etc.) appaiono, soprattutto oggi, di ordine puramente ideologico e hanno un evidente risvolto di politica ecclesiale. Almeno in due direzioni: accentuare, sul piano della memoria – perché è di questo che parliamo – il solco della contrapposizione tra i cosiddetti “evangelicali” e cosiddetti “liberali”; in secondo luogo, affermare una leadership intellettuale nei confronti di un evangelismo che per il fatto di concepirsi (o essere etichettato) come “fondamentalista” e “pentecostale”, di per sé ha bisogno di una educazione teologica che includa anche la formattazione della memoria.

Se vogliamo essere fedeli allo spirito riformistico, dobbiamo tornare alle “fonti” della Riforma. L’umiltà e l’entusiasmo umanistico che si immerge nel mare delle fonti storiche può essere una panacea per chi da un lato vuole leggere nella Riforma le dinamiche contemporanee ma anche per chi vuole costruire un’età dell’oro da contrapporre al dominio del Cattolicesimo. Ma anche per chi potrebbe erroneamente sentirsi senza un album di famiglia.
Su tutti noi evangelici italiani incombe l’intuizione ottocentesca: nel mentre si accumulavano “fonti” relative ai fatti di religione della penisola, incluso quelle sulla diffusione della Riforma in Italia, si interpretava lo stesso spirito riformistico con un sonoro quanto sorprendente: “non siamo né protestanti né cattolici”.

 

Il terzo elemento di una riforma del pensare storico deve riguardare il racconto della storia nel presente. Perché celebriamo il 31 ottobre? Che cosa ci muove veramente? Qui la «riforma del pensare storico» deve per forza di cose prendere una strada “biblica”. Possiamo imparare da Ebrei 13:7–9

7 Ricordatevi dei vostri conduttori, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio, e, considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede.
8 Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno. 9 Non vi lasciate trasportare qua e là da diversi e strani insegnamenti; perché è bene che il cuore sia reso saldo dalla grazia

Una straordinaria sintesi di un’autentica riforma della memoria.
Il ricordo, la celebrazione sono in funzione dell’esaltazione (soli Deo gloria) dell’unica realtà che trascende il tempo, anche il tempo della storia, vale a dire Gesù Cristo, il Risorto, il Vivente (solus Christus).

Ed è solo questa esaltazione, nel fluire delle generazioni, e delle epoche storiche, che ci permetterà da un lato di stare fermi nella grazia (sola gratia) e dall’altro lato di ringraziare per gli esempi del passato che vanno considerati nella loro umanità (considerando la loro fine – incluso i loro errori?) e di prendere ciò che ci lasciano, la fede, che è la cosa che possiamo manifestare qui, oggi, anche il 31 ottobre del 2024, poiché è la nostra fede, non quella di Lutero e Calvino (sola fide)!

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(Vivere e confrontarsi con l’Islam)


Francesco Maggio
è impegnato da molti anni in un servizio (ministero lo chiamiamo in gergo evangelico) di testimonianza ai musulmani. Ha fondato la SCAI, Scuola di Apologetica e Islamistica

 

Francesco, raccontaci un po’ del tuo ministero verso i musulmani; che cosa fai nei loro confronti e come è nata questa vocazione.

Durante la mia crescita nella fede cristiana ho iniziato a dialogare con i musulmani nel tentativo di condividere il messaggio del Vangelo. Tuttavia, senza un’adeguata preparazione, mi sono presto accorto che non riuscivo a portare avanti la mia testimonianza in modo efficace. Questo è un problema che accomuna molti di noi: ci troviamo spesso impreparati quando si tratta di affrontare un confronto di questo tipo. Nei nostri scambi con i musulmani la conversazione spesso prende una piega critica nei confronti di Gesù Cristo, della Trinità, della Sua divinità e delle Sacre Scritture. I musulmani tendono a mettere in discussione le nostre credenze e ciò che è scritto nella Bibbia. Basta parlare con un musulmano per accorgersene. Inoltre, il Corano stesso contiene diversi passaggi che criticano apertamente pagani, cristiani ed ebrei. La polemica sembra essere parte integrante del loro modo di confrontarsi. Mi accorgevo così che avevo bisogno di una preparazione da acquisire presso una scuola biblica focalizzata sull’evangelizzazione tra i musulmani. Abbiamo scuole bibliche che ci preparano per rispondere e per testimoniare ai mormoni, ai testimoni di Geova, agli atei ma non trovavo una scuola biblica che insegnasse a testimoniare e a rispondere ai musulmani. Per questo andai a Londra per la mia formazione missiologica. Sono passati ormai 32 anni.

 

In che modo, sinteticamente, pensi che si debba cercare un approccio con vicini e amici musulmani per parlare loro del vangelo?
Le mie riflessioni nel corso del tempo sono state le seguenti: per un approccio con i vicini e amici musulmani per parlare loro del Vangelo è essenziale partire da un atteggiamento di profondo rispetto e amicizia. Nell’evangelizzazione, infatti, il metodo più diffuso è il rapporto di amicizia, un rapporto in cui introdurre gradualmente il messaggio del Vangelo

È importante ricordare che non stiamo cercando di “vincere una discussione” o imporre le nostre convinzioni, ma piuttosto di condividere la nostra esperienza di fede in modo genuino e amorevole.

Un buon punto di partenza è allora essere disposti ad ascoltare. Spesso, la migliore apertura è mostrare interesse per le loro esperienze religiose (semplici domande, come perché pregate 5 volte al giorno, e altre domande). Questo crea un terreno fertile per un confronto sincero sul quale entrambi possono esprimersi senza sentirsi giudicati. Durante la conversazione, personalmente, cerco di testimoniare la mia fede in modo chiaro, semplice e personale. Spiego cosa significa per me il vangelo: non come un insieme di regole, ma come la storia di Dio che in Cristo mi ha cambiato la vita e mi ha assicurato la salvezza secondo i meriti di suo Figlio.

Cerco di dire loro che il vangelo è più di un messaggio religioso; è una relazione viva con Gesù, fonte di salvezza eterna. Credo dunque che ognuno debba raccontare il modo in cui la propria vita è stata trasformata e come si continua a sperimentare il suo perdono e la sua grazia ogni giorno.

È anche importante ricordare di non diluire il messaggio per cercare di compiacere. Siamo chiamati a essere onesti riguardo alla verità del vangelo, anche se può essere difficile o sfidante. Come dice 1 Pietro 3:15, dobbiamo essere sempre pronti a dare una risposta riguardo alla speranza che è in noi, ma farlo con gentilezza e rispetto.

Molto spesso, i musulmani convinti si presentano come sfidanti, tendendo a trascinare gli interlocutori in polemiche contro la Verità. Come dicevo, generalmente non siamo preparati né abituati a rispondere loro, e spesso ci ritroviamo a fuggire dal confronto. Tuttavia, possiamo trovare ispirazione dai profeti e dai servitori di Dio nelle Scritture.

Pensiamo, ad esempio, al profeta Elia, che affrontò i profeti di Baal. Elia scelse di rimanere saldo sul terreno della Verità e dimostrò un potente segno del potere di Dio. Allo stesso modo, il profeta Geremia si trovò spesso di fronte a falsi profeti, e rimase fermo nella proclamazione del messaggio di Dio.

Anche Gesù affrontò i Farisei, i quali cercavano continuamente di metterlo in difficoltà con domande insidiose, simili alle sfide che spesso ci pongono i musulmani convinti. Gesù rispose sempre con saggezza, non cadendo mai nelle trappole.

Mi viene in mente anche l’apostolo Paolo, che a sua volta si confrontò con i filosofi di Atene. Paolo non cercò di polemizzare, ma di spiegare la Verità con pazienza e chiarezza. Egli studiò la loro narrativa e le loro credenze, basate sulle idee di poeti e profeti precedenti, e utilizzò questa conoscenza per costruire un ponte verso il Vangelo.

Mi sono dunque accorto che per raggiungere efficacemente i cuori dei musulmani è fondamentale abbandonare metodi ormai superati. Il nostro uditorio, i nostri amici, oggi sono musulmani di seconda e terza generazione; nei nostri atenei sanno come spiazzare forbitamente e filosoficamente gli argomenti biblici. Usano diverse e scientificamente raffinate argomentazioni, differenti da quelle utilizzate dai loro padri. I musulmani di oggi sono universitari, avvocati, professori, ingegneri, laureandi, sono persone di cultura.
I nostri giovani credenti universitari li incontrano ogni giorno. Alcuni di questi musulmani di seconda e terza generazione sono divenuti anche personalità politiche.
Il nostro obiettivo deve essere quello di permettere al messaggio del Vangelo di penetrare profondamente nelle anime di chi lo ascolta, distinguendolo dalle sterili discussioni verbali e dalle polemiche. È essenziale riportare il Vangelo al suo giusto posto, ponendolo al centro del dialogo.

Ma chi di noi è in grado di trasmettere questo messaggio in maniera chiara e incisiva in pochi minuti?

Infine, è fondamentale avere pazienza e fiducia nel fatto che non siamo noi a cambiare i cuori, ma solo Dio può fare questo miracolo. La nostra responsabilità è seminare con amore e verità, pregando affinché sia lo Spirito Santo a operare nelle vite delle persone, recipienti possibili della svariata Grazia di Dio.

Il successo non si misura dalle conversioni immediate, ma dall’onestà e dall’amore con cui riusciamo a riflettere Cristo.

 

Ritieni che oltre alla spinta evangelistica sia lecito e giusto per i cristiani evangelici impegnarsi, insieme ai musulmani, per capire in che modo poter convivere pacificamente tra di loro in una stessa comunità sociale?

È essenziale affermare che per i cristiani evangelici la Verità è unica e si trova nella Bibbia, e questa verità non può essere alterata o compromessa in alcuna circostanza. Detto questo, è non solo possibile, ma anche giusto impegnarsi con i musulmani per esplorare insieme come convivere pacificamente all’interno della stessa comunità sociale. La convivenza pacifica non richiede di rinunciare alle nostre convinzioni di fede in Cristo, ma piuttosto ci chiama a vivere e testimoniare la nostra fede con autenticità, chiarezza e amore.

Il mio obiettivo è sempre quello di mostrare l’amore di Cristo, anche a musulmani che hanno convinzioni religiose fortemente polemiche. Questo amore si manifesta attraverso il rispetto scendendo sul livello della loro offensiva non per vincere gli argomenti ma renderli ubbidienti alla Verità e per aprire il cuore dei musulmani polemisti al Vangelo, sempre rimanendo fedeli ai principi biblici.

In 2 Corinzi 10:5*, è scritto: “Noi distruggiamo i ragionamenti e ogni altezza che si eleva contro la conoscenza di Dio, e facciamo prigioniero ogni pensiero fino a renderlo ubbidiente a Cristo.”

Nello stesso tempo come dice la Scrittura: “Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini” (Romani 12:18).
Siamo chiamati a cercare la pace e la convivenza, contribuendo al benessere della comunità senza mai compromettere la verità in cui crediamo.

Francesco Maggio terrà un Seminario al 17° Convegno Studi GBU dal titolo: Gesù di Nazaret e Maometto: vite parallele?

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CONFRONTARSI

Durante il decennio segnato dall’attivismo dei nuovi atei (oggi si registra un riposizionamento di questi filosofi o scienziati su posizioni che potremmo definire di “ateismo cristiano” o di “cristianesimo ateo”, che è tutto dire …) è andata in scena una particolare modalità di confronto, quella del dibattito/duello tra “campioni”. Un campione della fede cristiana e un campione della posizione opposta, per lo più “atea”. Ma non sono mancati duelli con esponenti di altre religioni. Sicuramente il nome più blasonato per questo tipo di confronto è stato quello di John Lennox. Su You Tube si trovano una lunga serie di dibattiti del matematico di Oxford con i principali esponenti del nuovo ateismo. Ma non sono mancati degli emuli nostrani! Abbiamo anche avuto ministeri che si sono specializzati in questo tipo di confronto: penso per esempio a Veritas Forum.
L’idea che soggiace a questi esperimenti è quella di segnare la presenza della testimonianza cristiana in uno spazio pubblico, come per esempio un’aula universitaria, non certamente con l’intento di convincere l’avversario (potrebbe anche accadere, naturalmente, tutto è possibile) quanto piuttosto quello di gettare un seme negli ascoltatori per quanto attiene la rispettabilità (John Locke avrebbe detto “ragionevolezza”) del cristianesimo.

Si potrebbero evocare altri esempi storici di “confronto”. Penso per esempio alle antiche assemblee germaniche del basso medioevo (le diete) che divennero protagoniste della diffusione sociale delle idee della Riforma (la Dieta di Worms, per esempio). Si trattava di passaggi giuridici e pubblici nei quali un’intera popolazione cittadina poteva poi determinarsi ad accogliere la Riforma, o a rigettarla (accadde così in molte città libere, tra cui Ginevra); oppure contesti in cui c’era un confronto istituzionale tra Papato, Impero e Principi, sempre alla presenza di qualche professore di teologia. Accadeva infatti che ci si trovava tra i piedi un Lutero, un Calvino, piuttosto che uno Zwingli, etc.

Confronti–duello. Sicuramente benedetti ma che si staccavano e si staccano dal tessuto in cui è calata la vita dei protagonisti e soprattutto degli ascoltatori. Si tratta di confronti tra idee, molto spesso tra “ismi” (Cristianesimo vs Ateismo), senza nulla togliere alla bravura e alla capacità dei protagonisti (e penso in particolare a Lennox) di cercare di riportare il confronto sempre sui temi legati alla vita tutta intera e non solo alla vita della mente (vedi Vivere e confrontarsi con … Vivere).

Il confronto a cui alludiamo, al contrario, parte proprio dal contesto vitale.
Questa fondamentale differenza è espressa molto bene da un pensatore olandese a cui spesso si fa riferimento come a un campione di dogmatica e di teoria teologica (Herman Bavinck). La citazione è tratta da un piccolo libro capolavoro di John Stott (Missione cristiana nel mondo moderno), in cui Stott analizza quattro parole relative alla missione cristiana, tra cui spicca la parola dialogo (sicuramente un sinonimo del nostro “confrontarsi con”:

«Il mio interesse non è mai diretto al buddismo ma a una persona vivente e al suo buddismo; non stabilisco mai un contatto con l’Islam, ma con un musulmano e il suo maomettismo» (H. Bavinck sull’elenctica – la scienza che smaschera davanti al mondo pagano tutte le false religioni rivelandole come peccato contro Dio … e chiama il mondo pagano alla conoscenza del vero Dio –, citato in J. Stott, Missione, p. 85).

Ecco che qui troviamo l’incipit del confronto che vorremmo stimolare nella testimonianza cristiana.

Si tratta di un confronto che passa al lato e si distingue anche dagli approcci “identitari” (per esempio gli approcci identitari al cattolicesimo – AIC) in cui si vuole dimostrare che, teologicamente, il protestantesimo è superiore al cattolicesimo, etc.. Negli approcci identitari, colui che si confronta non si confronta mai come persona che incontra un altro tu ma semplicemente come un esponente di una tradizione che invita l’interlocutore a verificare quale sia la tradizione migliore. Diatriba! Questo tipo di diatriba ha un suo retroterra filosofico e teologico di cui ci occuperemo in un altro momento.

Forse si potrebbe dire che il confronto con, quale passaggio interno alla testimonianza cristiana abbia visto negli ultimi 50 anni, almeno per quanto concerne la testimonianza dei cristiani evangelici, una certa oscillazione.
Dalla forma stigmatizzata sempre da John Stott che parlava per gli evangelici della strategia dei “conigli”: si usciva dalla propria tana (si dice confort zone?) per una rapida incursione a suon di proclamazione del vangelo, “sparata” a un uditorio che non conosceva per niente questi interlocutori estemporanei, per poi tornare nella propria tana, vale a dire a disinteressarsi delle cose del mondo.
All’approccio appunto identitario con il quale si è giunti, oggi, a una certa presunzione di superiorità con la quale si vorrebbe mostrare al mondo che noi ci siamo, dobbiamo contare di più, abbiamo le giuste idee espresse con le corrette parole mentre di fronte, e separati da noi senza tema di contaminazioni o ponti di collegamento, ci stanno sistemi di credenze pervasi di confusione. Farebbero bene, questi sistemi, a venire alla nostra scuola. Questo tipo di confronto potrebbe valere nei confronti del cattolicesimo ma anche nei confronti del mondo musulmano. Nel primo caso vanteremmo il blasone della Riforma, nel secondo la superiorità dei valori occidentali (ebraico-cristiani).

Ci sono almeno tre elementi che caratterizzano il confronto che sorge dalla vita (vivere e confrontarsi con …) e che vorremmo sottolineare.

 

  1. Persone che si parlano e parlano di se stesse.

Lo abbiamo letto in Bavinck: un tu incontra un altro tu. Chi mi sta di fronte non è l’Islam ma Mohamed e il singolare modo che egli ha di incarnare il suo credo. È risaputo che l’Islam è un mosaico di culture e tradizioni condizionate da contesti geografici e sociali molti differenziati. Queste culture circondano il nocciolo duro dei cinque pilastri del credo islamico ma non si sovrappongono perfettamente a esso. Per cui l’interlocutore senegalese vive il suo islamismo in maniera diversa da un filippino, da un arabo, o da un convertito europeo.

Questo fa si che, molto spesso, i cristiani che vivono in contesto islamico o che provengono da tale contesto, una volta che approdano alla fede vivente in Gesù, mostrano di non essere principalmente interessati a ripulire le incrostazioni culturali dell’Islam. Ciò permette di dire a Dave Garrison, islamista ed esperto di missione tra i musulmani, che:

«per molti musulmani, l’Islam [inteso come cultura, ndc] è centrale nel modo di vivere della gente. È la loro madre. La loro famiglia. La loro comunità. E non hanno problemi con l’Islam. Ciò che ora vogliono fare è seguire Gesù e amare di più i loro parenti per trascinarli alla fede. Ho trovato pochissime persone che volevano affrontare l’Islam [in quanto cultura]. Sentivano solo che quella era una battaglia secondaria. La vera battaglia era seguire Gesù e diffondere Gesù». (Thimoty C. Morgan, Why Muslims are becoming the best Evangelist, Intervista a Dave Garrison, Christianity Today, https://www.christianitytoday.com/2014/04/why-muslims-are-becoming-best-evangelists/)

Anche per quanto concerne il versante cristiano, in un confronto tra due “tu”, non si parla astrattamente di Cristianesimo ma si parla di che cosa il cristianesimo ha prodotto e sta producendo nelle vite di chi crede e sta parlando; e per converso ascoltiamo quello che il sistema di fede del nostro interlocutore sta producendo nella sua vita e raccontiamo ciò che il cristianesimo sta producendo nella nostra vita.

Questo permette di mostrare il modo in cui il messaggio del vangelo (che naturalmente non scompare dietro il racconto dell’esperienza personale) agisce a livello delle persone; si potrà mostrare che Gesù è una persona vivente. E potremo ascoltare e individuare i punti in cui il credo del nostro interlocutore manifesta dei vuoti.

La vita, il “vivere con”, diviene dunque la condizione di possibilità per un confronto di questo genere. Emil Shehadeh, oratore del Convegno Studi di quest’anno, nel suo lavoro di analisi delle dinamiche di conversione dal mondo islamico, trova che l’amicizia sia la dinamica più efficace. Quella ricercata maggiormente dagli stessi convertiti dall’Islam.

 

 

  1. Metto in gioco la mia identità

«Fino a che rido delle sue sciocche superstizioni, lo guardo dall’alto in basso; non ho ancora trovato la chiave per entrare nella sua anima. Ma non appena capisco che ciò che egli fa in modi notevolmente ingenui e fanciulleschi, pure io lo faccio più e più volte sotto una diversa forma, non appena mi pongo accanto a lui – allora posso nel nome di Cristo dichiararmi in disaccordo con lui e convincerlo di peccato, come Cristo fece con me e come continua a fare giorno dopo giorno» (Bavink in J. Stott, Ibid., p. 85)

È sempre Bavinck che parla. Il “confrontarsi con” esige che non si resti aggrappati al proprio recinto identitario, ma che ci si sposti, che si rischi, abbandonandolo e rinunciando alla propria identità. L’orizzonte all’interno del quale deve svolgersi il confronto è il vangelo. E il vangelo non è di nessuno, neanche degli “evangelicali”. Il confronto non si svolge all’insegna della Riforma né tanto meno all’insegna dei valori occidentali. Il confronto adotta la postura che Paolo ha indicato ai Corinzi nel capitolo 9 della Prima Lettera che porta quel nome. Il confronto vede il cristiano come un soggetto mobile, disposto a rinunciare a ogni cosa per il vangelo; disposto a seguire e concordare con l’interlocutore, magari quando questi si lamenta e condanna i tanti errori commessi dai cristiani identitari: dalle crociate alle guerre di religione.

Si è vero, loro [per esempio i musulmani] hanno il jihad, hanno i testi che maledicono gli infedeli (ebrei e cristiani).
Ma sono solo i credenti in Gesù ad avere Gesù!!!
A loro tocca additare la presenza di un regno che non è di questo mondo e che essi dovrebbero incarnare.

Rinunciare al “noi” è dunque una vera e propria conversione semantica. Non ti sto parlando a nome di un “noi”; siamo io e te di fronte al vangelo. Io ti apro il mio cuore, ti mostro quanto sono stato perdonato, ti mostro il peggio di me stesso affinché tu possa vedere quanto grande è l’amore di Gesù Cristo.

 

  1. Racconto una storia migliore

Jonathan Lamb, riprendendo le riflessioni che Glynn Harrison (A Better Story: God, sex and human flourishing, 2017) fa a sostegno dell’etica sessuale cristiana, rilancia la tesi che in un frangente storico come il nostro la morale cristiana relativa alle relazioni d’amore appare completamente screditata; per questo motivo dobbiamo imparare a raccontare una storia migliore.

Negli ultimi venti o trent’anni: «il nostro tono è spesso suonato duro e freddo. Perfino narcisistico».

Il primo rimedio è un necessario ascolto da prestare a quanti differiscono da noi: «Nelle guerre culturali spesso ci si è concentrati troppo, su tutti i fronti, sul “rispondere” e troppo poco sull’“ascoltare”». Gli attivisti, su tutti i versanti del dibattito, profondono ogni loro energia nell’«oscura arte della persuasione». Tuttavia, «non dobbiamo essere sordi all’invito scritturale ad ascoltare prima di parlare e a essere pronti a rispettare la buona fede di quanti potrebbero avere posizioni diverse dalle nostre» (In J. Lamb, Che siano uno, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU).

Ingelosire (Rom 11:11), è questo il concetto che Paolo elabora nei famosi capitoli della Lettera ai Romani in cui parla del rapporto tra Cristiani e popolo ebraico. La sostituzione apparente dei primi al secondo (la metafora dell’ulivo) ha solo un unico obiettivo: far sì che gli Ebrei provino gelosia per il rapporto che i Cristiani hanno intessuto con YHWH, con un’intimità dovuta solo e unicamente a Jeshua. Ma questa è stata un’utopia nella storia, contraddetta ahimè da ben altri sentimenti, con una scia di incomprensioni che continua ancora al giorno d’oggi.

Ma la proposta di una storia migliore implica la rimozione di alibi e fraintesi, tutti passaggi obbligati di un “confrontarsi con” in cui siano dei “tu” che si incontrano, e in cui le identità non sono barriere ma costruzioni virtuali aggirabili. Sono i cristiani in primis, che possono fare questo, che non temono di perdere niente, avendo guadagnato tutto con Cristo.

Che sia possibile una storia migliore da raccontare è dato da un indizio che emerge qui e là nella cultura occidentale: esso è rappresentato da quei pensatori di varia provenienza che sono disposti a identificare nel cristianesimo elementi in grado di giustificare la possibilità di un fiorire umano (penso qui in particolare a Miroslav Volf). Questa possibilità solo il cristianesimo sembra garantirla.

Ecco una sfida nella sfida: è vero il cristianesimo ha risorse per il fiorire umano.

Ma quale cristianesimo?

Il vivere e il confrontarsi con … ha il vantaggio di rifuggire dall’equivoco rappresentato da un cristianesimo nominale o culturale. Poiché un discepolo di Gesù nella vita quanto nel confronto non avrà altro scopo che incarnare la vita nuova del Risorto e del suo Regno, e non saprebbe che farsene delle ideologie dei valori cristiani, facili da proclamare quanto altrettanto facili da contraddire … con la vita.

 

 

 

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