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di Massimo Rubboli

(Questo articolo è tratto dalla nuova pubblicazione dell’autore: I cristiani, la violenza e le armi. Percorsi storici e revisioni storiografiche, Edizioni GBU, 2024)

Nell’Impero romano, l’esercito svolgeva diversi incarichi: dopo la conquista di un territorio, aveva il còmpito di consolidarne il controllo prevenendo o reprimendo ogni forma di protesta e di resistenza, poi vi esercitava le funzioni di polizia, cooperava nei processi giudiziari, eseguiva le sentenze, proteggeva la raccolta delle tasse o le riscuoteva direttamente e si occupava anche della costruzione di strade e ponti.

Le varie funzioni svolte dall’esercito sono presenti nel Nuovo Testamento: Pilato consegna Gesù ai soldati che lo percuotono e lo scherniscono (Mc. 15:15-20; Mt. 27:26-31; Lc. 23:33,36; Gv. 19:1-3); una squadra formata da un centurione e quattro soldati lo crocifigge insieme a due malfattori, che erano stati arrestati in una precedente operazione di polizia (Mc. 15:24-39; Mt. 27:35-38; Lc. 19:18,23-24); il sepolcro di Gesù era sorvegliato da guardie (Mt. 27:64-66); a Cesarea, Pietro viene arrestato dai soldati di Erode Agrippa e “affidato alla custodia di quattro picchetti di quattro soldati ciascuno” (Atti 12:4); a Gerusalemme, Paolo è salvato dal tribuno militare Claudio Lisia, accompagnato da soldati e centurioni della cohors equitata7 (Atti 21:31-36; 22:23-29;23:10), che lo invia di notte al procuratore romano Marco Antonio Felice, scortato fino ad Antipatrida da due centurioni, “duecento soldati, settanta cavalieri e duecento lancieri”, e poi a Cesarea, con la scorta dei soli cavalieri (Atti 23:23-24, 31- 32); il tribuno Claudio Lisia scrive un rapporto ufficiale (Atti23:25-30).

È opportuno tenere presente che un motivo ricorrente che emerge chiaramente nel dittico Luca-Atti è “il desiderio di di mostrare che la professione di fede in Cristo è perfettamente compatibile con la lealtà del cittadino romano verso l’Impero”. Per questa ragione, “i rappresentanti del potere romano”, specialmente militari (anche i governatori di provincia erano necessariamente militari), “vengono tutti ritratti in luce favorevole”, ad eccezione del procuratore Felice (Atti 24:22-27).

Mentre i soldati sono di solito presentati negativamente, soprattutto nei vangeli di Matteo e Giovanni (Mt. 27: 27-31, 28:12; Gv. 19:23-24, 29, 32-34), i centurioni sono figure più positive9: Gesù afferma di non aver trovato in Israele una fede più grande di quella del centurione di Capernaum (Mt. 8:5-13; Lc. 7:1-10); alla morte di Gesù, il centurione10 riconosce che “Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc. 15:39); di Cornelio, centurione della coorte “Italica” di stanza a Cesarea, si dice che “era pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia, faceva molte elemosine al popolo e pregava Dio assiduamente” (Atti 10:2) e nella sua casa, per la prima volta, Pietro fa battezzare degli stranieri “nel nome di Gesù Cristo” (Atti 10:48); durante il trasferimento di Paolo da Cesarea a Roma, il centurione Giulio della coorte Augusta lo salva dai soldati che vogliono ucciderlo (Atti 27:42-44).

Per quanto riguarda il centurione di Capernaum, si è discusso se sia una persona storica o una figura letteraria. Nella prima ipotesi, non potrebbe essere un militare romano perché ai tempi di Gesù l’esercito romano non era presente in Galilea, dove erano stanziate le forze armate del tetrarca Erode Antipa. Dato che sia Matteo sia Luca indicano soltanto che si tratta di un gentile, è probabile che sia un funzionario erodiano, come appare anche dalla versione giovannea (Gv. 4:46-53)11. La questione è comunque di scarsa rilevanza ai fini dell’accertamento della posizione di Gesù nei confronti delle armi e del servizio militare; ciò che conta è il fatto che la professione del centurione non sembra rappresentare un problema e che Gesù non gli chiede di abbandonarla.

Anche Giovanni Battista, quando i soldati gli chiedono cosa devono fare in risposta al suo messaggio, aveva risposto “Non fate estorsioni, non opprimete nessuno con false denunce e contentatevi della vostra paga”, ma non li aveva invitati a lasciare il servizio militare (Lc. 3:14). Questi e altri episodi presenti nel Nuovo Testamento sono stati spesso usati – da Agostino a Tommaso, da Lutero ad oggi – per giustificare la partecipazione dei cristiani al servizio militare. Inoltre, è stato osservato che Gesù non solo non denunciò l’uso delle armi, ma non sarebbe stato neppure totalmente contrario alla violenza, poiché in un’occasione invitò i discepoli a vendere il mantello per comprare una spada. Quali erano le circostanze di questo episodio? Prima di ritirarsi a pregare nel giardino del Getsemani, Gesù ricorda ai discepoli di averli inviati “senza borsa, senza sacca da viaggio e senza calzari” e chiede: “Vi è forse mancato qualcosa?”

Essi risposero: “Niente”. Ed egli disse loro: “Ma ora, chi ha una borsa, la prenda; così pure una sacca; e chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico che in me dev’essere adempiuto ciò che è scritto: Egli è stato contato tra i malfattori [Is. 53:12]. Infatti, le cose che si riferiscono a me stanno per compiersi”. Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due spade!”. Ma egli disse loro: “Basta!” (Lc. 22: 35-38)

Dunque, Gesù voleva che i suoi discepoli usassero la spada? Eppure, quando Pietro usò la spada contro coloro che lo stavano arrestando e tagliò l’orecchio del servo del sommo sacerdote, Gesù intervenne per sanare l’orecchio e ordinò a un discepolo, identificato con Pietro in uno dei racconti (Gv. 18:26), di riporre la spada: “Riponi la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada. Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli?” (Gv. 18:10-11; cfr. Mt. 26:52-53; Mr. 14:43-52; Lu. 22:47-53). E poi, di fronte a Pilato, Gesù indicò come prova che il suo regno non era di questo mondo il fatto che i suoi discepoli non combattevano (Gv. 18:36). Allora come interpretare l’invito a comprare una spada? Gesù stesso fornisce la chiave di lettura con la citazione del passo di Isaia: la spada deve servire a compiere la profezia di Isaia, cioè a far apparire Gesù e i discepoli come un gruppo di “malfattori”.

Inoltre, questa scena segna una rottura con il giudaismo, perché Gesù rifiuta di richiedere l’intervento di quelle armate celesti la cui apparizione indica, nella letteratura maccabaica sulla persecuzione e resistenza, che la guerra è giusta ed è condotta da Dio.

Sulla mancanza nel Nuovo Testamento di una condanna del servizio militare, va notato che un argumentum ex silentio non costituisce una prova a favore. Infatti, se Gesù non condanna esplicitamente “i pubblicani e i peccatori” non significa, come insinuano le autorità religiose, che approvi la loro condotta (Lc. 7:34; 15:1). Se Giacomo usa come esempio positivo la prostituta Raab, non significa che elogi la sua professione (Gc. 2:25).

Invece, nel Nuovo Testamento è chiaramente indicato che la violenza non è compatibile con la sequela di Cristo, l’Agnello di Dio (Gv. 1:29, 36). Gesù stesso libera il campo dall’immagine di un Messia politico, che avrebbe guidato il popolo lottando contro l’usurpatore romano, entrando a Gerusalemme sul dorso di un asino (Mt. 21:1-11; Mr. 11:1-11; Lc. 19:28-44; Gv. 12:12-19). Lo aveva predetto il profeta Zaccaria:

“Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme; ecco, il tuo re viene a te;
egli è giusto e vittorioso, umile, in groppa a un asino, sopra un puledro, il piccolo dell’asina.
Io farò sparire i carri da Efraim, i cavalli da Gerusalemme e gli archi di guerra saranno distrutti.
Egli parlerà di pace alle nazioni, il suo dominio si estenderà da un mare all’altro, e dal fiume sino alle estremità della terra.” (Zc. 9:9-10)

L’insegnamento degli autori del Nuovo Testamento sembra inequivocabile: i discepoli di Gesù non sono chiamati a migliorare il comportamento delle persone o dei governi del mondo. Paolo sostiene che, mentre la comunità dei credenti deve esercitare un controllo sulla condotta morale dei suoi membri, non deve “giudicare quelli di fuori” (I Co. 5:12), che sono già stati giudicati da Dio, e afferma che il solo messaggio che la chiesa deve proclamare è quello della riconciliazione con Dio per mezzo di Cristo: “Dio ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Infatti, Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe e ha messo in noi la parola della riconciliazione. Noi, dunque, facciamo da ambasciatori per Cristo” (II Co. 5:18-19).

Essere ambasciatori della riconciliazione con Dio in Cristo comporta amare il prossimo, perfino i nemici, e costituire una comunità di credenti che sovverta le pratiche del mondo in base all’agape; quindi, esclude l’uso della violenza. Gesù indica questo amore come tratto distintivo dei figli di Dio (Mt. 5:44-45; Lc. 6:35), non come principio etico universale. Pertanto, ritornando alla questione dell’assenza nel Nuovo Testamento di una critica dell’esercizio delle armi, si può concludere che ai soldati non viene richiesto di cambiare occupazione perché non fanno parte dei discepoli di Gesù. Dio incontra le persone nella condizione in cui si trovano e soltanto dopo la loro sottomissione alla signoria di Cristo costoro devono affrontare il problema della compatibilità del loro modo di vivere con l’appartenenza alla comunità dei discepoli. Un dilemma che, come vedremo, ha percorso il cristianesimo lungo tutta la sua storia, ponendo i cristiani – nel caso del servizio militare – di fronte alla scelta dell’obiezione di coscienza.

L’incompatibilità tra impegno militare e coinvolgimento con Cristo emerse progressivamente, non da considerazioni etiche sulla guerra ma piuttosto dalla difficoltà di servire due padroni e di vivere in due contesti diversi, quello dell’Impero e quello del Regno di Dio13. La reticenza al servizio militare ha la sua motivazione nel principio evangelico della necessaria separazione tra il piano politico e la prospettiva escatologica nella quale si situano i cristiani. È in questa prospettiva che le lettere pastorali propongono il modello del “soldato di Cristo” che combatte il “combattimento cristiano” (I Tm. 6:12; II Tm. 4:7), utilizzando metaforicamente il lessico della guerra14 e soprattutto la panoplia del soldato: il cristiano rivedella speranza (I Tess. 5:8; cfr. Ef. 6:10, 14-17). Queste sono le “armi della luce”, necessarie per lottare contro le “opere delle tenebre” (Ro. 13:12), e l’“armatura di Dio” per affrontare le “insidie del diavolo”:

Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento, infatti, non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti. Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere. State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; oltre a tutto ciò, prendete lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio. (Ef. 6:11-17)

Molto probabilmente, l’adozione di questo linguaggio di uso comune da parte di Paolo e poi nella letteratura cristiana antica favorì l’accettazione da parte delle comunità cristiane di una realtà in contrasto con l’insegnamento evangelico.

 

 

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di Alister E. McGrath

Il termine “Umanesimo” è facilmente soggetto a fraintendimenti. Nel ventunesimo secolo questa parola è spesso utilizzata per indicare una sorta di “ateismo” o di “secolarismo” e per definire una concezione del mondo che esclude (o almeno evita di farvi riferimento) la fede nel soprannaturale. In età rinascimentale il termine presentava delle connotazioni decisamente diverse. Il Rinascimento fu un importante periodo di rigenerazione culturale che ebbe inizio in Italia nel quattordicesimo secolo e gradualmente si diffuse in gran parte d’Europa, raggiungendo l’apice della sua influenza nei primi anni del XVI secolo. La sua tesi centrale era che la cultura del tempo poteva essere rinnovata grazie a un confronto creativo con l’eredità culturale del passato, soprattutto con l’eredità dell’antica Grecia e di Roma.

L’Umanesimo può essere visto come la filosofia che sta dietro il Rinascimento. La cosa migliore è intenderlo come il perseguimento di un’eloquenza e di un’eccellenza culturale che affonda le sue radici nella convinzione che i modelli più alti si trovino nelle civiltà classiche di Roma e di Atene. Il suo metodo di fondo può essere sintetizzato nello slogan latino ad fontes, parafrasabile con «ritorno alle fonti»! Un fiume è nel suo stato di maggior purezza alla sua fonte. L’Umanesimo promuoveva il superamento del «Medioevo» (espressione che, non per nulla, è una creazione umanistica, volta a minimizzare questo disprezzato intermezzo storico fra le glorie del
mondo antico e il loro rinnovamento nel Rinascimento) così da poter consentire al presente di essere rinnovato e rinvigorito, attingendo in profondità alla sorgente dell’antichità. Gli effetti di questo programma sono osservabili su una sorprendente molteplicità di piani. Gli stili architettonici classici vennero a essere preferiti all’imperversante gotico. L’elegante stile di Cicerone rimpiazzò la forma piuttosto ridondante e imbarbarita di latino utilizzata dagli scrittori scolastici. Nelle università si metteva una grande passione nello studio del diritto romano e della filosofia greca. In tutti i casi si può vedere in azione lo stesso principio di base: ora che la cultura occidentale era diventata stanca, spenta e priva di direzione, la sua sorgente aveva la capacità di conferirle nuova vita e nuovo vigore.

La maggior parte degli umanisti dell’epoca, come il grande Erasmo da Rotterdam, erano cristiani interessati al rinnovamento e alla riforma della chiesa. Perché allora non applicare lo stesso metodo di rigenerazione al cristianesimo? Perché non tornare ad fontes, alle fonti originali della fede, e non consentire loro di conferire nuovo vigore a una chiesa che ormai si era bruciata e aveva perso credibilità? Era possibile riconquistare la vitalità e la semplicità dell’età apostolica? Nel quindicesimo e agli inizi del sedicesimo secolo questa era una visione potente, motivante, capace di catturare l’immaginazione di tanti laici.

Come fare, però? Qual era il corrispettivo religioso della cultura del mondo classico? Qual era la sorgente del cristianesimo? Gli umanisti cristiani avevano pochi dubbi: la Bibbia, soprattutto il Nuovo Testamento. Era questa la fonte ultima della fede. Gli scritti dei teologi medievali si potevano mettere da parte senza nessun problema, in modo da consentire un confronto diretto con le idee del Nuovo Testamento. Le interpretazioni ecclesiasticamente rassicuranti e familiari della Bibbia, riscontrabili nella teologia scolastica, dovevano essere accantonate in favore di una lettura diretta del testo. Per gli ecclesiastici conservatori si trattava di un passaggio pericoloso e minaccioso che aveva il potenziale di destabilizzare l’equilibrio teologico, frutto di delicati compromessi, raggiunti nel corso di tanti secoli. L’istanza umanistica di tornare alla Bibbia risultò un appello decisamente più radicale di quanto tanti alti prelati non fossero disposti a digerire.

Gli umanisti erano per lo più studiosi, uomini di lettere che sottolineavano che questo ritorno sistematico alla Bibbia dovesse realizzarsi sulla base del meglio che l’erudizione accademica potesse offrire. L’effettivo messaggio della Bibbia, che andava letta nelle sue lingue originali, doveva essere stabilito sulla base della più affidabile metodologia testuale. Immediatamente l’autorità della traduzione latina della Vulgata si trovò a essere minacciata. Quando gli studiosi umanistici si posero a esaminare nei particolari la storia del testo, incominciarono a emergere problemi. Domande difficili pressavano con forza crescente sulla sua integrità testuale e sulla sua attendibilità filologica. Quando la Vulgata fu spassionatamente comparata con i migliori manoscritti greci, si iniziarono a notare degli errori. Furono identificate delle varianti testuali. Nel 1516 Erasmo stesso licenziò un’edizione del testo greco del Nuovo Testamento che provocò una specie di ciclone. Pur contenendo molti errori, produsse un cambiamento epocale di mentalità, mettendo in dubbio in diversi punti il vigente testo biblico della Vulgata. Per mettere la cosa nei termini più crudi possibili: se Erasmo aveva ragione, c’era il caso che alcune enunciazioni, accettate come “bibliche” dalle precedenti generazioni, non facessero neppure parte del testo originale del Nuovo Testamento. Che implicazioni aveva questo, si chiesero allora in molti, per quelle dottrine della chiesa che
erano basate su tali enunciazioni?

Uno dei testi spesso utilizzati dai teologi medievali per difendere la dottrina della trinità è di particolare interesse: «Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza nel cielo: il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue; e questi tre sono d’accordo come uno» (1 Gv 5:7–8, ND).

Erasmo sottolineò che le parole «il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra» non si trovano in nessun manoscritto greco. Furono aggiunte successivamente alla Vulgata latina, probabilmente dopo l’800, pur non essendo note in nessuna antica versione greca. La spiegazione più verosimile è che queste parole siano state inizialmente aggiunte come “glossa” (un breve commento posto accanto o sotto il testo) e che un successivo scriba abbia presunto che facessero parte del testo stesso e ve le abbia quindi incluse nei successivi testi latini, senza sapere che non facevano parte del testo greco originale del Nuovo Testamento32. Se un tale brano doveva essere dichiarato «non biblico» questa, la più difficile delle dottrine cristiane, sarebbe potuta diventare pericolosamente vulnerabile.

L’esigenza di una lettura della Bibbia nelle sue lingue originali incontrò un ampio consenso in tutta l’Europa occidentale. Chi voleva promuovere gli ideali del Rinascimento aspirava a essere trium linguarum gnarus, vale a dire competente in greco, ebraico e latino. Tutto ciò portò alla fondazione di collegi per lo studio delle tre lingue o in alcuni casi di una cattedra per ciascuna delle lingue come avvenne, per esempio, nelle università di Alcalá in Spagna (1499), Wittenberg in Germania (1502), Oxford in Inghilterra (il Corpus Christi College, 1517), Lovanio nell’odierno Belgio (1517) e presso il Collège royal de France a Parigi (1530)33.

Non passò molto tempo perché la possibilità di seri errori di traduzione scoperti nella Vulgata minacciasse di imporre una revisione degli insegnamenti ecclesiastici in essere. Erasmo ne evidenziò alcuni nel 1516. Un ottimo esempio si trova nella traduzione della Vulgata delle parole con cui si apre il ministero di Gesù in Galilea (Mt 4:17): «Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino». Questa traduzione istituisce un collegamento diretto fra la venuta del regno di Dio e il sacramento della confessione. Erasmo evidenziò che il testo originale greco si doveva tradurre: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino». Laddove la Vulgata sembrava fare riferimento a una pratica esteriore (il sacramento della penitenza), Erasmo sottolineò che il riferimento era a un atteggiamento psicologico interiore, quello del “ravvedersi”.

Nella concezione umanistica della ricerca biblica, però, risultò esservi più dell’esigenza di migliori traduzioni. La nascita del «new learning» promosse, nel secondo decennio del XVI secolo, una visione alternativa dell’autorità interpretativa, di spettanza non più della chiesa ma della comunità scientifica. Il mondo accademico aveva già la chiave per la ricostruzione del testo biblico e della sua traduzione in volgare. Sarebbe stato solo un piccolo passo quello della rivendicazione del diritto di interpretare il testo utilizzando le nuove metodologie ermeneutiche del Rinascimento che si stavano allora sviluppando34.

«Senza Umanesimo non ci sarebbe stata nessuna Riforma». Questo slogan, ripetuto spesso, sottolinea il punto cruciale dell’imposizione di un programma più radicale di riforma della chiesa di quello che chiunque avrebbe potuto prevedere, grazie alla nascita dell’Umanesimo. È vero che erano in  tanti a essere convinti che vi fosse un urgente bisogno di eliminare gli abusi, semplificare le strutture e incrementare i livelli d’istruzione all’interno della chiesa; ora però altri iniziavano a suggerire che fosse necessaria una revisione di altro livello. Era possibile che almeno alcuni degli insegnamenti della chiesa poggiassero su basi bibliche non del tutto adeguate. Le persone erano bene avvezze a lamentarsi dei tanti difetti morali e spirituali della chiesa; questo però era qualche cosa di nuovo e minacciava di innescare dei dibattiti profondamente imbarazzanti e degli sviluppi che, nel cristianesimo occidentale,
sarebbero stati senza precedenti.

A un certo punto quest’appello alla riforma della chiesa si legò con la nuova idea di umanità che si stava affermando più o meno in questo periodo. La miscela che ne risultò fu esplosiva.

Alister E. McGrath, La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo, Edizioni GBU, 2017.

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di Lucia Di Fonso
(Psicologa, Edizioni GBU)

Il 25 Novembre di quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dell’istituzione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in ricordo delle tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa), violentate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione. In molti paesi, come anche in Italia, il colore esibito in questa giornata è il rosso e gli oggetti simbolo sono rappresentati da panchine o da scarpe da donna rosse posizionate per  ricordare le vittime di violenza e femminicidio.

Qui offriamo una breve prospettiva biblica sul tema, facendo riferimento a un intero capitolo intitolato La vittimizzazione delle donne del libro dei coniugi Derek e Dianne Tidball, Bibbia e quote rosa, Edizioni Gbu, 2021. Gli autori (marito e moglie) consapevoli della complessità dei dati, delle sfide e delle controversie, cercano un approccio umile e integrato al tema guardando alle donne come appaiono nella trama biblica, in luoghi e ruoli chiave.

«La Bibbia non è nient’altro che realistica. Presenta il mondo così com’è, sia quando le relazioni umane sono bellissime sia quando sono caratterizzate da una spaventosa brutalità. Le sue storie recano frequentemente testimonianza a quanto tali relazioni si siano deteriorate dal tempo dell’iniziale disubbidienza di Adamo ed Eva; quanto sono caduti in basso, uomini e donne, rispetto ai propositi creazionali di Dio! Questo è vero più che mai nelle descrizioni dei numerosi e raccapriccianti episodi che coinvolgono le donne» (p. 91).

La vittimizzazione delle figure femminili bibliche, secondo gli autori deriva dal fatto che la stragrande maggioranza degli insegnanti e dei predicatori tradizionalmente erano uomini: «il risultato è che l’esecrabilità a carico degli uomini per quegli atti di crudeltà è minimizzata e se ne fa addirittura ricadere la colpa sulle donne o si sorvola sulle obbrobriosità del comportamento maschile (p. 92).

Nell’Antico Testamento varie e importanti donne sono “vittime”. C’è Agar, vittima dell’impazienza di Abramo e dell’insofferenza di Sara.

Poi c’è Dina (il cui nome significa “giudicata” e la cui storia è narrata in Genesi 34). La teologa battista Lidia Maggi, in un articolo pubblicato sul sito Note di Pastorale Giovanile, così riassume la sua vicenda: «Dina, figlia di Giacobbe e Lea esce di casa per incontrarsi con le altre ragazze del villaggio. Il momento di svago si trasforma in un incubo che le cambierà per sempre la vita. Viene vista, rapita e violentata da Sichem, il figlio del capo del paese. Costui, dopo aver abusato di lei, se ne innamora perdutamente, chiede al padre di poterla sposare; “la sua anima si legò a Dina, figlia di Giacobbe; egli amò la fanciulla e parlò al cuore della ragazza” (Genesi 34:3). Il gesto di Sichem provocò una reazione devastante in un crescendo di orrore e violenza su tutti i maschi del popolo di Sichem da parte dei fratelli di Dina che vogliono vendicarne l’onore (o meglio, il loro stesso onore). Dina verrà riportata a casa, senza che le venga attribuita, nel testo, nessun sentimento e nessuna parola.  Dina esce di scena, precipitando nell’oblio, una sorte di merce di scambio tra mondi maschili, pedina dei loro rapporti di forza»[1].

Anche Tamar (Genesi 38) è vittima dell’indifferenza della sua famiglia e poi quasi vittima della giustizia dell’uomo, finché non ne mette allo scoperto l’ipocrisia. Più tardi, c’è un’altra Tamar figlia del re Davide (2 Sam 13) che fu rapita e abusata incestuosamente dal fratellastro e principe reale Amnon e vendicata due anni dopo da suo fratello Absalom (Bibbia e quote rosa, p. 93).

Diversi capitoli del libro dei Giudici (Gdc 11:29-40) sono dedicati alle figure femminili che denunciano la violenza della società patriarcale: alcune sono donne vittime (la figlia di Iefte o la concubina del levita) altre sono  donne eroine (la profetessa Debora; Giaele).

Nella storia della  giovane donna sacrificata dal padre (Gdc 11), Iefte fece un voto a Dio per vincere una battaglia contro gli Ammoniti, promettendo di offrirgli ciò che sarebbe uscito da casa sua al ritorno. Gli si fece incontro la sua unica figlia che lo accolse festante. Questa prese atto dello sconforto del padre ma lo esortò a compiere comunque il suo voto, chiedendogli due mesi di tempo per poter “piangere la sua verginità”. Allo scadere dei due mesi, il voto fu compiuto. Si trattava in effetti di un voto idolatrico in quanto il sacrificio umano non solo era vietato dalla Legge di Mosè (Lv 18, 21; 20, 2-5), ma era tipico del culto cananeo, come quello del dio ammonita Moloc. Il paradosso, quindi, è che Iefte convinto di fare un atto religioso per il Dio d’Israele, in realtà finisce per fare un sacrificio al dio del popolo nemico. Più tardi un altro capo (il re Saul) non esitò a rompere il giuramento pur di salvare suo figlio Gionatan, in una situazione simile (1 Sam 14).

La storia più sconvolgente di tutte, però, riportata in Giudici 19, è quella della moglie del Levita, un’anonima vittima della lussuria di un levita, della violenza di gruppo da parte di un’intera città e della fredda indifferenza del suo padrone.

Il protagonista di questa storia è un Levita della tribù omonima, addetta a importanti funzioni nel tempio. Abitava ad Efraim ma sposò una ragazza di Betlemme. La donna “concubina”, non ha un nome, appare passiva. Lei gli fu infedele, la traduzione non rende, il termine ebraico chiave può significare che fu “arrabbiata”, piuttosto che “infedele” verso di lui. Potrebbe darsi benissimo che sia stato lui, con il suo comportamento, ad averla indotta a tornare dal padre e abbia fatto quello che tutti gli altri facevano come viene descritto in tutto il libro dei Giudici, vale a dire, quello che le pareva meglio. Quattro mesi dopo, il levita si mise alla sua ricerca. L’uomo sembra interessato a riaverla con sé; decide, pertanto, di partire con l’intenzione di “parlare al suo cuore”. Perché si mise alla sua ricerca? Era perché l’amava o cercava una fredda giustizia, spinto dal desiderio di riprendersi quello che «gli apparteneva»? Se era in cerca di una vera riconciliazione, perché nel suo successivo comportamento la ignora tanto spesso? Quali che siano le sue motivazioni, il levita è ben accolto dal padre della concubina e sembra legare subito con lui. Per qualche giorno il levita si gode l’ospitalità dei genitori di lei. Della concubina non si dice nulla. I riflettori sono puntati sugli uomini, che rimangono il soggetto, gli attori principali; lei è una semplice comparsa. Pochi giorni dopo, questo clima conviviale comincia a deteriorarsi; il levita ha fretta di partire e di tornare a casa sua con la concubina.  Essendo ormai tardi, bisogna fermarsi per la notte.

Lidia Maggi nota: «Non è bene, tuttavia, fermarsi in un villaggio straniero, come suggerisce il servo. Conviene arrivare fino a Gàbaa, città di Beniamino, una delle tribù di Israele. La donna non viene consultata. Continua ad essere passiva. Nessuno sembra più interessato a parlare al suo cuore e neppure alle sue orecchie. Ironia della sorte, la terra che doveva proteggerli – terra promessa, dove avrebbero dovuto scorrere il latte ed il miele di relazioni libere – diventa terra pericolosa, ostile, straniera. Il levita con il servo e la concubina vengono sì ospitati in casa di un anziano; ma, mentre si godono l’ospitalità, ecco che dei pervertiti circondano la casa»[2].

Gli uomini all’esterno della casa vogliono abusare del levita. Il vecchio che li ospita interviene, facendo appello al sacro vincolo dell’ospitalità e propone di offrire in cambio due donne: la sua giovane figlia e la concubina del levita. Abusare di un uomo era inaccettabile. Lo stupro omosessuale sarebbe stata una palese violazione delle regole dell’ospitalità, che erano pesantemente sbilanciate in favore degli uomini. Violentare una o due donne, invece, non sembrava avere le stesse implicazioni o caricarsi dello stesso peso. L’aspetto più sconcertante di quest’episodio della storia è la facilità con cui gli uomini sono pronti a consegnare le donne perché diventino dei giocattoli nelle mani del branco. Viene loro detto: «Fatene quel che vi piacerà» (Tidball, p. 99).

A questo punto «il levita, lesto, spinge fuori la concubina che viene afferrata e violentata per tutta la notte. All’alba, quando i pervertiti si dileguano, la donna si trascina sulla soglia della casa e, con la mano tesa verso la porta, crolla a terra esausta. Passerà qualche ora prima che qualcuno si preoccupi di soccorrerla. Il levita, al risveglio, quando il sole è già alto, la trova sulla soglia. Come se niente fosse, le ordina di alzarsi: sono le prime parole che gli sentiamo rivolgere. Strano modo di parlare al suo cuore! La donna non risponde, non può rispondere.  Il levita non la soccorre: la carica di peso sull’asino e riprende il viaggio verso casa»[3].

L’abuso, lo stupro e la violenza erano degenerati nell’omicidio. Così il levita raccoglie il suo corpo malridotto come se fosse un «sacco di patate» o un tappetino in vendita in un mercato, la caricò sull’asino e partì per tornare a casa sua. Nulla, nella storia, ci offre alcuna indicazione dei suoi sentimenti. Non la piange. Il silenzio sembra calcolato per presentarlo come un uomo indifferente, freddo e spietato.  Si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise… (Tidball, p. 100).

Se non è stato lo stupro collettivo ad ucciderla, e neppure quell’assurdo viaggio di ritorno, ci penserà il coltello del levita che, in nome della giustizia, taglia il corpo della donna in dodici pezzi da mandare alle dodici tribù di Israele: “guardate che cosa mi hanno fatto!”[4].

I Tidball, commentano (op. cit., p. 101): Con un atto «inutilmente brutale», non mostra verso di lei nessun rispetto, non tratta il suo corpo con alcuna tenerezza d’affetti e la fa crudelmente a pezzi, proprio come se fosse la carcassa di un animale.

Ci si può immaginare il levita che giustifica il suo comportamento. L’ha fatto come segno d’avvertimento a Israele. È stato per impartire loro una lezione. La macabra natura del suo pacchetto doveva indurre tutti a fare un balzo sulla seggiola e a considerare quanto si fosse caduti in basso. Serviva una terapia d’urto.

Di primo acchito, l’azione del levita sembra avere sortito l’effetto sperato. Quella di tutti è una reazione d’orrore. «Una cosa simile non è mai accaduta né si è mai vista, da quando i figli d’Israele salirono dal paese d’Egitto fino al giorno d’oggi! Prendete a cuore questo fatto, consultatevi e parlate!» Inoltre, a un esame più ravvicinato, la reazione generale è più ambigua di quanto non possa sembrare. «Qualche cosa deve essere fatto», gridano. Che cosa, però? A ben pensare, la speranza è che vogliano dire che devono pentirsi del loro stato di anarchia e riformare le loro vite in vista della creazione di una società più giusta e meno violenta. Quello che segue, però, suggerisce che abbiano in mente altri tipi di risposta. Quello che hanno in mente è la guerra civile! L’azione del Levita serve soltanto a dare libero corso ad altra violenza, non ad arginarla, dato che tutto Israele si raduna a Mispa per un consiglio di guerra e stabilisce unanime di trattare la tribù di Beniamino «secondo tutta l’infamia che ha commessa in Israele». Il risultato è che 25.000 soldati beniaminiti muoiono in battaglia e le loro città sono date alle fiamme.

In conclusione, come sostengono i Tidball, il modo con cui sono trattate le donne, nel libro dei Giudici e non solo, fa da termometro per misurare la temperatura morale e spirituale del popolo d’Israele. Le tremende esperienze di alcune donne sono in genere riportate come dati di fatto, senza interpretazioni e spesso anche in modo asettico. L’approccio espositivo prevalente nella Bibbia è quello di lasciare che la storia parli da sola. Le storie in cui le donne sono vittime vengono dunque raccontate senza interpretazioni, senza lezioni morali e di solito senza che siano attribuite delle colpe.

È  il lettore dunque a doversi fare un’idea su quello che è giusto e quello che è sbagliato, su ciò che è bene o su ciò che è male.
Per questo motivo potremmo farci delle domande per contestualizzare questi eventi.

1) Perché nelle Scritture sono riportate con dovizia di particolari episodi così cruenti?

2) Quali sentimenti e considerazioni suscitano in noi racconti di tale efferatezza?

3) Quali comportamenti, nel caso del Levita (forse il personaggio più sinistro dei racconti biblici evocati) suscitano maggiormente la nostra indignazione?

4) Quali sentimenti possiamo immaginare provò la concubina nei confronti di diversi uomini (il marito-padrone, il padre, l’ospite e gli stupratori) di cui fu vittima?

In queste storie oltre alla violenza fisica non vanno dimenticate altre forme di violenza. Resta un’ultima domanda: è possibile un processo di guarigione della vittima e/o del violento? E in che modo?

[1]  L. Maggi, Dina e la concubina del levita: due storie distopiche, https://www.notedipastoralegiovanile.it/questioni-bibliche/dina-e-la-concubina-del-levita-due-storie-distopiche (visionato il 20/11/24).

[2] Art. cit.

[3]  L. Maggi, art. cit.

[4] Ibid.

L’articolo La vittimizzazione delle donne proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/la-vittimizzazione-delle-donne-2/

Tempo di lettura: 13 minuti

a cura di Rebecca Ciociola e Giacomo Carlo Di Gaetano

L’espressione “vaso debole” si trova nella 1 Pietro (3:7), all’interno di uno dei tanti codici famigliari contenuti nel Nuovo Testamento. L’espressione dà il titolo alla risposta che quattro donne, tutte impegnate in un ministero cristiano o in una professione socialmente rilevante per il tema trattato, hanno fornito a tre domande che abbiamo rivolto loro come redazione del DiRS–GBU.

Federica Albano, si occupa per lavoro e per passione di educazione e temi sociali. Ha operato per diversi anni in un centro antiviolenza. Vive in Lombardia ed è membro di una chiesa evangelica di Milano.

Katia Lavermicocca, Psicologa psicoterapeuta, docente d’area psicologica e consulente per enti che hanno come destinatari minori e famiglie, è membro della chiesa di Cristo di Bari.

Rossana Zanetti Sciuto, Diaconessa della comunità della Chiesa Apostolica di Piacenza, laureata in Teologia, indirizzo Pastorale della famiglia. Impegnata nella Formazione Ministeriale della Chiesa Apostolica dove insegna Questione Femminile nella Chiesa nel corso dei secoli.

Anna Moretti, impegnata da anni in un ministero di formazione e consulenza per donne, membro dell’Assemblea dei Fratelli di Novoli a Firenze.

 

 

1) Nel 2024 il Viminale ha registrato più di 90 casi di femminicidio. 4 omicidi su 5 avvengono nell’ambito familiare ristretto o allargato. Cosa ti fanno pensare/quale realtà descrivono questi dati?

Federica:

Anche se sono passati tanti anni ed il tema è stato molto discusso, di fatto il problema non è regredito. Il dato mostra che la strada da fare è ancora lunga sia per lo Stato e la sua legislazione sia per i cittadini / e le cittadine, per il sentire comune e l’idea che si ha della violenza, rivittimazzando le vittime (p. es.: in fondo se l’è anche un po’ cercata).

Katia:

Il femminicidio rappresenta il gesto estremo di una violenza che ha alle spalle una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza nei confronti delle donne. Il dato registrato quindi mette in evidenza il punto di non ritorno di una complessità sociale, relazionale, etica che coinvolge le coppie e le famiglie in questi anni.

La famiglia è il luogo presente in maniera continuativa nella vita di molti uomini e donne. Luogo inteso come spazio psicologico in cui costruire la propria identità ed appartenenza. Laboratorio di esperienze vissute prima nella dimensione di figlio e successivamente nella dimensione di adulto, compagno o genitore. L’ambiente domestico o di relazione esclusiva di coppia può quindi diventare motore creativo in cui si impara il dialogo, l’ascolto, la gestione delle emozioni, delle proprie frustrazioni o per motivazione diverse, luogo di solitudine in connotazione negativa, quindi di difficoltà nell’andare verso l’altro.

Le forme che può prendere questa difficoltà in età adulta possono essere diverse; la violenza verso la propria compagna è una di queste. Lenore Walker (1979) descrive le tre fasi del ciclo della violenza. La prima fase è quella in cui si accende la tensione tra i partner e l’uomo violento manifesta un crescente nervosismo, un atteggiamento perennemente irritato, opaco e ambiguo che confonde la donna. Il distacco del partner è avvertito dalla donna come un potenziale segno di abbandono che la spinge ad evitare di contestare il proprio compagno od opporsi, assecondando ogni sua mossa ed ogni suo volere.
La seconda fase vede agire il maltrattamento sia fisicamente che verbalmente.
La terza fase, infine, è caratterizzata in genere da una finta riappacificazione. L’uomo violento si riavvicina alla donna giurando pentimento e pronunciando scuse e parole d’amore a profusione, venendo prontamente perdonato e riaccolto. Nei primi episodi di violenza, la fase della falsa riappacificazione dura generalmente più a lungo; al contrario, all’aumentare degli episodi violenti, la durata della riappacificazione si riduce. Questa fase costituisce una sorta di rinforzo positivo per la donna, che con l’alternarsi di ogni fase diventa sempre più dipendente da questo meccanismo e sempre più bisognosa di questo legame, seppur malato, mentre l’uomo violento acquista sempre più potere all’interno della relazione di coppia

Rossana:

Dal 1° gennaio al 17 novembre 2024, in Italia, sono stati commessi 98 femminicidi di cui 84 avvenuti in ambito familiare/affettivo; 54 di queste donne sono state uccise dal partner o ex partner (Fonte governativa). Questi dati sono allarmanti e sono il campanello d’allarme di un problema ancora più grande che è di difficile risoluzione. Sono il sintomo di una società malata, una società che ha perso la sua identità, una società fluida, dove i valori primari sono stati smarriti. Una società che non è in grado di offrire una parità ed un’uguaglianza di genere e che non riesce a garantire al cento per cento protezione ad una fascia più sensibile dei suoi componenti, una società che ha difficoltà a relazionarsi con i propri simili. In questa società la famiglia, che è il nucleo primario di una società civile, ha perso quel valore e quel ruolo fondamentale che aveva in passato.

Oggi, le famiglie sono deboli, non sono all’altezza del compito al quale sono chiamate. La società odierna impone ritmi e ruoli totalmente alterati e questo, secondo me, è il fattore scatenante di tanta violenza. Le donne hanno conquistato, a fatica, il diritto ad avere voce in capitolo e, contrariamente a 60/70 anni fa, quando i ruoli in casa erano ben definiti, oggi si ritrovano a dover spesso ricoprire anche il ruolo che dovrebbe essere dell’uomo. A causa dei ritmi serrati a cui si è spesso sottoposti la comunicazione è venuta meno, le relazioni si sono incrinate e spesso, diventano malate. La competizione fra i sessi è stata portata a limiti estremi e l’uomo non si riconosce più negli stereotipi che vengono proposti.

Ecco che scatta allora in lui il desiderio di reprimere la libertà delle donne, della propria donna che una volta era remissiva, forse anche troppo, e subiva in silenzio, e che oggi invece si ribella a condizioni di vita deprivanti.

La donna ha più consapevolezza dei suoi diritti ed è in grado di gestirsi da sola in ogni situazione. È indipendente sia socialmente che economicamente e questo, in una società che è ancora dichiaratamente patriarcale, è un elemento dirompente. Questo continuo confronto fra uomo e donna è il fattore scatenante di tanta violenza. L’uomo non riesce ad accettare che la propria donna sia in grado di prendere le decisioni da sola, che può scegliere di uscire con le amiche, che sia, in alcuni casi, economicamente più forte del proprio partner, che non abbia bisogno di un mentore che la guidi e la consigli in ogni cosa e che le gestisca la vita impartendo ordini. Tutto questo viene visto come una minaccia all’amor proprio, scatena un senso di impotenza e di inferiorità che va a minare tutte le sicurezze dell’uomo. Ecco che allora si scatena la voglia di riaffermare quella superiorità atavica che vede l’uomo maschio come essere dominante, come essere superiore dalla quale la donna deve dipendere in tutto e per tutto; scatta allora il possesso, la voglia di reprime ogni libertà faticosamente conquistata e, nel momento in cui l’uomo realizza che la donna non è disposta ad essere più succube di certe situazioni, dirompe la violenza, quella violenza cieca desidera annientare ed assoggettare a sé l’altro.

Anna:

Se hai mai fatto una lunga passeggiata in montagna, sai bene che cosa susciti vedere un rifugio: troverò cibo, una bevanda calda, avrò la possibilità di riposarmi, farò due chiacchiere per raccontare il mio pezzo di strada fino a lì.
Nel progetto di Dio, la casa, come quel rifugio, doveva essere il luogo privilegiato in cui ogni membro della famiglia trovasse nutrimento, protezione   e relazioni profonde e stabili. In quella casa doveva circolare l’amore.
Questo era il progetto, questa la destinazione d’uso.

Ma proprio perché la famiglia è un’idea di Dio, viene attaccata fin dalle sue fondamenta: il progetto viene riscritto e rimaneggiato, se ne propone un altro dove sono al centro io, dove comando io, dove ricevo dei servizi io, dove ti schiavizzo e se prendi il mio posto ti urlo dietro, ti strattono, ti picchio e se mi va e mi fa sentire meglio, ti tolgo di mezzo così quel posto a capotavola non lo prenderai mai più!
La famiglia: nel luogo per eccellenza in cui doveva circolare l’amore, non c’è più ossigeno, circola solo la paura, è lì che affermo il mio potere battendo il pugno, urlando parole cattive e offensive, facendo cose cattive e offensive.
Ti userò, non ti servirò, mi compiacerai in tutto, non ti ascolterò, ti sottometterò con violenze psicologiche dicendoti che tu non vali nulla, sei solo un’incapace.
Uomini che pensano di avere fra le mani oggetti e non persone, per cui come si butta via un piatto di carta usato, si butta via una donna, dopo averla usata.
Quante volte mogli e compagne amate “appassionatamente” sono finite a pezzi in sacchi della spazzatura? Quante volte sono state sfregiate perché non si riconoscessero più guardandosi allo specchio? Quante volte la violenza verbale le ha annichilite fino a ridurle allo stremo?

Il luogo dell’amore, la casa, trasformato nel luogo dell’orrore.

Il progetto di Dio cestinato. Quattro omicidi su cinque avvengono in famiglia, proprio perché nel progetto di Dio quello doveva essere il luogo più sicuro.
L’uomo riformula il progetto, si mette al posto di Dio, con conseguenze visibili sotto gli occhi di tutti: scarpe e panchine rosse di sangue.

 

2) L’ONU (Statistical framework for measuring the gender-related killing of women and girls, 2022) definisce i femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Le tipologie sono diverse: si va dall’omicidio ( e dalle violenze) compiute e perpetrate dal partner, ai casi in cui anche a opera di uno sconosciuto, violenze e omicidi sono legati alle differenze e alle motivazioni di genere.

A tuo giudizio quali potrebbero essere le cause principali per l’incremento di questo fenomeno?

Federica:

Le cause sono da ricercare nella radicalizzazione della cultura patriarcale intesa come totale supremazia dell’uomo sulla donna, la considerazione della donna quale oggetto da mostrare / usare (p. es. la pornografia, la pubblicità, etc.), il poco ascolto dedicato alle testimonianze delle donne vittime di violenza, la difficoltà ad immedesimarsi nel loro vissuto, la scarsa presa di responsabilità e di distanza degli uomini, tutti gli uomini, rispetto alla violenza quando si manifesta.

Katia:

Il fenomeno della violenza di genere copre un panorama più ampio, in cui i termini differenza, disparità, disuguaglianza giocano un peso importante. Dal punto di vista psicologico, le differenze individuali che sono state oggetto di studio dei maestri della psicologia come Eysenck, per la definizione delle diverse personalità, possono essere viste come una risorsa o come un pericolo. Il diverso da me, chi non corrisponde ai miei schemi, può essere percepito come stimolante o come minaccioso. Utilizzando schemi personali troppo rigidi non possiamo conoscere la persona come veramente è, creando una barriera che ci difende e ci protegge. Le distanze generano pregiudizi, cioè un giudizio anticipato che non riflette il reale. Le distanze generano anche stereotipi, cioè opinioni precostituite. Il senso di pericolo percepito o di rifiuto del diverso può portare a violenze.

Fenomeno in incremento per una complessità di ragioni di matrice diversa, ma metterei l’attenzione sul paradosso creato dal conoscere il mondo attraverso i social media. Un canale di “esperienza” del mondo e delle persone in cui si è o attori o spettatori, e che quindi non permette il reale scambio tra persone in-situazione, cioè nella contingenza dello scambio vissuto reciprocamente, che è alla base dell’educazione alle differenze.

Rossana:

La prima cosa che mi sento di rispondere è la paura. Paura del confronto, paura di non essere più all’altezza del proprio ruolo e del proprio compito, paura di non essere più l’essere umano dominante, paura di relazionarsi con un essere pari a sé. Mentre le donne hanno acquisito consapevolezza di sé, hanno lottato per ottenere uguali diritti, anche se la strada per la vera uguaglianza è ancora lunga e difficile da raggiungere, sotto il profilo economico soprattutto, l’uomo vede in tutto questo una minaccia alla propria persona. Ancora oggi si fa fatica ad accettare il diritto della donna a non essere considerata oggetto e quindi, proprietà di qualcuno. La donna sceglie di gestire la propria vita come meglio crede, sceglie il proprio partner, sono finiti, almeno sulla carta, i tempi in cui i matrimoni venivano imposti. La donna occidentale ha facoltà di scegliere di studiare, farsi una carriera, lavorare fuori casa, di migliorare le proprie condizioni di vita. C’è altro oltre il marito/compagno ed i figli.

Alcuni uomini, quelli deboli, hanno difficoltà ad accettare tutto questo. Non riescono a sopportare che una donna, in quanto donna, abbia dei diritti, abbia facoltà di scelta, abbia facoltà di dare una direzione diversa alla propria vita. Non è ammissibile per loro. Il confronto li destabilizza e li spaventa, non riescono proprio ad accettare che un essere umano con caratteristiche fisiche diverse dalle loro sia in grado di autogestirsi. Gli uomini deboli si sentono minacciati da tanta sicurezza, non tollerano che una donna, in quanto donna, possa essere superiore rispetto a loro. Questo fa scattare il desidero di eliminare il soggetto per dimostrare la forza bruta, per dimostrare la loro superiorità fisica. Qualcosa che mette paura deve essere annientato, eliminato altrimenti finisce per eliminare te e questo, l’uomo debole non lo può accettare. Ecco che si sviluppa allora il pensiero criminale: ti uccido perché rappresenti una minaccia per la mia persona. Ti anniento per non essere sopraffatto. Ti elimino per affermare la mia virilità e la mia superiorità. In una società che si preoccupa di difendere i diritti di tutti, questo non è accettabile. Bisogna educare all’affettività fin da piccoli ed al rispetto dell’altro per evitare di diventare degli adulti che non sanno amare.

Anna:

La sensazione che provo nel rispondere a questa domanda è di smarrimento, sconfitta e ineluttabilità. Anche oggi, nella mia città, più di una donna proprio vicino a me, sarà picchiata, insultata, umiliata, controllata e questo, per il semplice motivo che è una femmina. Lei scambierà il controllo per amore, la gelosia morbosa per cura, le parole offensive per espressione di vera mascolinità.
Non so se la violenza nei confronti delle donne sia effettivamente aumentata, ritengo che in tempi non remoti sia stata normalmente accettata e quindi non denunciata. Guardare un film come C’è ancora domani di Paola Cortellesi, apre uno squarcio su una realtà che è delle nostre nonne e bisnonne. Una realtà fatta di silenzi assordanti, di soprusi quotidiani, di lotta per la sopravvivenza e di anelito costante alla libertà personale.
Se è aumentata la violenza nei confronti delle donne, così come si evince dai dati raccolti su più fronti, penso che ciò sia legato al fatto che è aumentata la violenza in generale. La cassa di risonanza dei social non discrimina fatti eticamente corretti da scorretti, quello che conta veramente sono i like, per cui si possono tranquillamente postare immagini, parole, idee che hanno la violenza e il sopruso al centro. Vedere determinate immagini o ascoltare determinate parole, soprattutto quando si è molto giovani, forma le coscienze.
È triste, ma una delle conseguenze del peccato di Adamo ed Eva che si ripercuote nelle nostre vite ancora oggi, nella giornata in cui si lotta per l’eliminazione della violenza sulle donne, è quanto Dio disse ad Eva. Forse si ricorda più facilmente il concetto legato al dolore del parto e si dimentica la realtà dei desideri di lei che si sarebbero rivolti verso di lui.
Le donne accettano un ultimo appuntamento, cercano un ultimo chiarimento, e ritengono lo schiaffo di oggi l’ultimo e invece vengono uccise domani. Le donne continuano ad essere relazionali e a cercare con lo sguardo l’amore vero nell’uomo che hanno accanto.
Non essere indifferenti ai segnali, aiutare chi ci chiede aiuto, non minimizzare, educare la nuova generazione al rispetto della femminilità, tutto questo può sviluppare la crescita di una sensibilità che porti a riconoscere le micro–violenze prima che si trasformino in macro.
Allora ci sarà… ancora domani!

 

3) Ragioniamo a partire dalla fede cristiana: questa è la nostra prospettiva. Quali risposte offre il vangelo a questa piaga terribile della nostra società?

Federica:

Dio condanna la violenza in ogni sua forma.
La Bibbia prevede ruoli definiti nella coppia ma richiama a modalità di rispetto reciproco nel rapporto uomo-donna. Il nostro obiettivo è tendere al modello divino che non è mai stato violento nei confronti del femminile.

Katia:

Può essere utile prendere spunto proprio dall’esperienza che Gesù ha con le donne del suo tempo, e dal modello di matrimonio successivamente proposto come mutuo servizio in cui sia l’uomo sia la donna sono fatti a immagine di Dio. Gesù è in relazione alla Samaritana e a Maria Maddalena non avendo timore della diversità e del giudizio che c’era su queste donne; il suo atteggiamento di apertura, disponibilità al “diverso da me” è anche in altre occasioni la chiave di svolta degli eventi e la rivoluzione del suo messaggio.

E nel matrimonio il mutuo servizio è poi la disponibilità ad accogliere ciò che l’altro è per me e cosa io posso essere per l’altro, presupposto che permette di ridimensionare aspetti di insicurezza, giudizio, violenza subita che possono “sciogliersi” nella relazione di supporto della coppia adulta

Rossana:

Come abbiamo visto, i femminicidi e tutti gli atti di prevaricazione perpetrati ai danni delle donne sono una terribile piaga sociale che sembra inarrestabile.
Alla luce del vangelo, possiamo provare a trovare una soluzione per cercare di arginarla? La mia risposta è: “Si!”
Sono perfettamente consapevole che molti, nella società odierna non conoscono il vangelo, il fattore religioso forse è uno degli elementi della società che è stato messo in standby perché, per essere politicamente corretti e non offendere il prossimo, non possiamo urtare la sensibilità altrui con la manifestazione della fede e della pratica religiosa ma dobbiamo sentirci chiamati in causa in quanto dobbiamo avere cura del nostro prossimo e dobbiamo presentare un’alternativa a questo scempio senza fine.

Dio è il donatore di vita, è per la vita e promuove la vita. Nella sua Parola ci dà una speranza, ci insegna che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi. Il problema è proprio questo, non ci amiamo abbastanza, non sappiamo chi siamo veramente, di conseguenza, non sappiamo più relazionarci fra noi simili. Dio, attraverso le meravigliose pagine del vangelo ci insegna l’amore, ci insegna quale sono i nostri ruoli. Davanti a Lui siamo uguali, non c’è distinzione fra uomo e donna, non c’è prevaricazione, non c’è possesso da parte dell’uomo nei confronti della donna ma c’è reciprocità, c’è complementarità, c’è collaborazione, c’è rispetto e ci deve essere amore. L’uomo è chiamato a prendersi cura della donna, deve vegliare su di lei amandola come Cristo ama la sua Chiesa, deve avere riguardo ad essa come se avesse a che fare con un vaso delicato, la deve onorare perché anche la donna è erede della promessa e della grazia, deve amarla come la propria persona, deve studiarsi di farla stare bene perché da questo ne riceverà grazia. Dio ha dato pari dignità all’uomo e alla donna e questa dignità non può e non deve essere calpestata per nessun motivo.

Ovviamente ci sono dei suggerimenti anche per le donne nei confronti dei propri mariti che devono essere messi in pratica ma credo che il compito maggiore sia proprio degli uomini che sono chiamati a proteggere la donna in quanto rappresenta, nel caso della propria moglie, la propria stessa carne. Non si può amare sé stessi e odiare chi ti sta accanto. Non è questo che ci insegna il Vangelo. Dobbiamo riscoprire la bellezza di vivere la nostra fede e non aver paura di testimoniare e mostrare al mondo che c’è un’alternativa a questa società che ci vorrebbe tutti uguali, automi che non hanno più sentimenti e che non sanno più provare emozioni.

Anna:

Il Vangelo è la buona notizia! La migliore buona notizia che sia mai stata raccontata in questo mondo violento.
Il Vangelo è la buona notizia di un cambiamento personale, di una trasformazione continua e radicale, profonda e strutturale. Il Vangelo è la buona notizia per cui non esiste l’ineluttabilità di “tale padre tale figlio”, il Vangelo è la buona notizia per un uomo violento che ha visto e sentito violenze fin da piccolo, ma che può, volontariamente, abbandonare parole e atti offensivi accettando Cristo nella propria vita.
Il Vangelo non è una favola rassicurante che finisce bene, il Vangelo è una storia vera che cambia le vite e che quindi cambia la società! Qualsiasi cultura, in qualsiasi parte del mondo, anche in Afghanistan dove è prassi uccidere le ragazze che non vogliono sposare il marito scelto dai parenti o in India dove le spose sono bambine ignare di tutto, o in Italia dove le donne rischiano ad uscire quando è buio e ancor più quando tornano a casa, anche qui l’Evangelo può cambiare radicalmente tutto.
I primi a dover sentire l’urgenza di raccontare questa buona notizia sono proprio i cristiani che credono fermamente nella potenza rinnovatrice di questo Vangelo.
Il sangue versato da Cristo, la violenza inaudita di cui è stato oggetto il suo corpo, le torture da lui subite, ci raccontano la storia di un Amore infinito e immisurabile fatto di parole e atti conseguenti, capace ancora oggi di trasformare il cuore dell’uomo più violento in qualunque parte del mondo lui si trovi a vivere. L’amore, dice la Bibbia, non fa mai male al prossimo!
Se la donna vicino a te percepisce un senso di dolore o paura quando le parli o quando ti avvicini a lei, quello non è certamente amore!

L’articolo Il vaso debole … da non frantumare proviene da DiRS GBU.

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Lo storico del Cristianesimo Giancarlo Rinaldi introduce così il breve lasso di tempo in cui, nel quarto secolo, giunse a imperare sull’Impero romano un singolare imperatore di nome Giuliano (Flavio Claudio Giuliano), che passò alla storia con l’epiteto di Giuliano l’apostata.

 

[Giancarlo Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità, Edizioni GBU, 2008, pp. 706–714].

«Il ruolo della Chiesa cristiana durante il secolo quarto subisce, nel­l’àmbito dell’impero romano, una trasformazione radicale. Essa, infatti, pas­sa dalla iniziale persecuzione promossa dai tetrarchi (Diocleziano, Galerio, Massimino Daia) alla tolleranza sancita da Galerio, nel 311, e da Costanti­no, nel 313. Da questa tolleranza, inoltre, essa passa rapidamente alla premi­nenza e poi all’acquisizione dello status di religione di Stato unica e ufficiale, in virtù dell’Editto di Tessalonica promulgato dall’imperatore Teodosio I nel febbraio del 380. Prendendo in considerazione più da vicino gli eventi con­nessi a questa parabola possiamo senz’altro rilevare che la Chiesa da realtà perseguitata agli inizi del secolo si presentò alla fine dello stesso quale fautri­ce di persecuzioni a danno di giudei, di pagani e, più ancòra, di cristiani non appartenenti a quella che possiamo definire la “Chiesa imperiale ortodossa”».

La ‘reazione’ di Giuliano imperatore
In questo clima di montante intolleranza antipagana ebbe a trascorrere i suoi anni giovanili Flavio Claudio Giuliano (331–363). Il regno di Giuliano fu di breve durata (361-363) ma di grande significato nell’àmbito della storia religiosa.Si è parlato a tal proposito di un tentativo di ‘laicizzazione’ del­lo Stato. Giuliano, sia per storia personale (all’età di sei anni scampò, in­sieme al fratello Gallo a una strage, il cui mandante fu ritenuto l’imperatore Costantino, che distrusse la sua famiglia) sia per formazione (dal neoplatonismo alla teurgia ai misteri elusini, passando per i culti di Mitra e Cibele) si dedicò non a una persecuzione, nei confronti dei cristiani quanto a un “conflitto culturale”. La politica giulianea, infatti, fu appassionatamente intesa a revocare le situazioni di privilegio a favore dei cristiani che si erano determinate da Co­stantino al 361.

Giulano definiva i cristiani ‘Galilei’ in ragione del fatto che li riteneva responsabili della trasposizione della divinità ebraica a livello di un principio divino universale. La sua principale opera, di cui possediamo frammenti, portava infatti il titolo di Adversus Ga­lilaeos, (tr. it. di E. Masaracchia, Giuliano Imperatore, Contra Galilaeos, Roma 1990). Giuliano fu celebrato da due grandi scrittori pagani di Antiochia: Liba­nio e Ammiano Marcellino. Ma fu avversato, soprattutto in risposta alla sua opera principale, da numerosi autori. Tra le confutazioni sopravvive frammentaria­mente quella di Teodoro di Mopsuestia e quella di Cirillo d’Alessandria, che è la più im­portante.
I cristiani elevarono grida di gioia alla notizia della morte di Giuliano. La celebra­rono come una punizione di Dio.

Fin qui Rinaldi.

La singolarità di questa vicenda, da cui il titolo dell’articolo, sta nel fatto che questo personaggio fu ripreso dagli evangelici dell’800, nel clima infuocato del Risorgimento, e indicato come un campione di un governo che abolisse la Religione di stato (identificata chiaramente con il Cattolicesimo con le implicazioni relative al ruolo del Papa nelle vicende dell’Unità d’Italia).

La pagina che riproponiamo qui è testimonianza di questo singolare approccio all’imperatore pagano ma presenta degli spunti che potrebbero essere estremamente illuminanti per la particolare congiuntura storica che stiamo vivendo, agli albori della nuova era trumpiana. In questa pagina poi emerge tutta la distanza della tradizione evangelica italiana che potremmo definire di “teologia politica” rispetto alle lezioni che provengono da oltre l’Atlantico incluso i ravvedimenti forse tardivi di personaggi come Timothy Keller o di altri ancora che solo negli ultimi tempi, in particolare pensando ad alcuni scritti di Keller, hanno lanciato l’allarme contro la deriva politica dell’evangelismo americano.

 

La libertà di coscienza proclamata da Giuliano
[Trattasi di stralci del capitolo VI del libretto La religione di Stato, di Teodorico Pietrocola Rossetti, del 1861, pp. 35–41. Pubblicato nell’anno della nascita del Regno d’Italia, lo scritto ha un intento chiaramente propositivo verso i nuovi assetti politici, statuali ma anche sociali e culturali che si andavano delineando in quel cruciale periodo storico].

 

Costantino non fu, né divenne mai cristiano né mostrò mai di esser rigenerato, né nato di nuovo, né mai camminò secondo Cristo, ma dopo la sua conversione continuò ad essere despota efferato e violento; alcuni della famiglia imperiale, scandalizzati dal suo esempio, rigettarono il nuovo credo nell’intimo del loro cuore, e lo professarono esteriormente per ragione di Stato.

[Giuliano] era stato battezzato quend’era pargolo, fu educato al romanesimo e alla superstizione … ma arguto com’era ed inesorabilmente logico, non trovò Cristo ne’ canoni, nelle tradizioni, e nelle invenzioni degli ambiziosi prelati, e disprezzò il nuovo credo. Potente incentivo a questa sua apostasia fu la corruzione, i vizii e l’empietà de’ romanisti. Quelli della sua parentela, insegnati da Eusebio e da Ario, e non già dall’Evangelo, non aveano sentito il rinnovamento del cuore e continuarono nelle loro ferocie e dissolutezze: ciò ancora scandalizzò Giuliano, per cui credette che la religione pagana valesse meglio della nuova.  …

Per questi fatti si può dire che l’apostasia di Giuliano fu opera de’ preti e non sua: – ed essa apostasia perde tutto il colore che le si vuole apporre, quando si pensa che apostatare dall’errore è nulla, mentre è cosa gravissima apostatare dalla Verità. (corsivo nell’or.).

E poi – che razza di religione era quella, se all’annunzio dell’apostasia di Giuliano, i pagani che si spacciavano convertiti al Romanesimo riapersero i loro templi? Era una religione di Stato – convenzionale – imposta con la forza, e che dura fin che vi son tiranni, ma poi cade al primo bagliore del sole della libertà. …

Giuliano fu il solo che concepì in tutta la sua pienezza l’idea della libertà di coscienza. Ma non gli giovò a nulla, perché egli aveva una Religione di Stato [il paganesimo, ndc], impedimento gravissimo all’attuazione di quell’idea. La sua filosofia e la sua moderazione non bastarono a metterla in esecuzione, perciocché un Credo di Stato è un lacciuolo che ritiene la preziosissima libertà dell’anima e le impedisce ogni manifestazione di volontà morale.

Tutti gli atti del suo regno aveano per mira la libertà di coscienza, – ed incredibilia sed vera, – con essi egli insegnava ai Romanisti ad esser cristiani.

«Ho deliberato, egli disse [cit. della fonte], usare tale umanità con tutti i Galilei, che nessun d’essi, in qualunque luogo sia, soffra violenza, né sia strascinato al tempio, né trattato male contro la sua religione. Ma gli Ariani, gonfi per le loro ricchezze, hanno assaliti i Valentiniani, e hanno commesso in Edessa misfatti, che in città ben ordinate non debbono accadere. Adunque per dar loro aiuto a praticare la loro ammirabile legge, e agevolare la via d’entrar nel regno de’ cieli, abbiamo ordinato che siano tolte loro tutte le facoltà della chiesa d’Edessa: i denari sieno dati ai soldati, i terreni sieno uniti al nostro patrimonio, acciocché, divenendo poveri, sieno più saggi, e non sia loro tolto il regno de’ cieli che sperano »

 

La tolleranza e il perdono delle offese erano praticati dall’apostata! Dio giudicava quegli inesorabili settarii per la bocca di un empio. «Per gl’iddii, ordinava Giuliano [cit. della fonte], non voglio che i Galilei sieno uccisi, né battuti ingiustamente, né offesi in veruna forma» … Lezione ai feroci uccisori degli Albigesi, de’ Valdesi, degli Ugonotti, e degli Americani! Ed altrove: «Giuliano ai Bostriani: Io credeva che i capi de’ galilei conoscessero che hanno maggior obbligo a me che al mio predecessore [Costante], poiché per la maggior parte sotto di lui sono stati cacciati, imprigionati, perseguitati e assai ne furono ancora uccisi di quelli che vengono detti eretici … Sotto il mio regno, all’incontro, gli sbandati sono stati richiamati, i beni confiscati sono stati restituiti; e tuttavia a tal segno è giunto il loro furore, che fanno ogni opera di sconvolgere i popoli, perché non è più permesso loro usar tirannia sopra gli altri …»

E agli abitanti di Bostra:

«Le ragioni hanno a vincer gli uomini, non le ingiurie, né i tormenti nelle membra. E lo dico e ridico più volte, non sia malmenato il popolo de’ Galilei; perciocché coloro che in grandi cose s’ingannano sono più degni di pietà che d’odio» (neretto mio).

 

 

 

 

 

 

 

 

L’articolo Quando gli evangelici ammiravano Giuliano (l’apostata) proviene da DiRS GBU.

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Il conflitto israeliano palestinese nell’ultimo periodo ha suscitato grande interesse non solo nel mondo evangelico, ma sicuramente in tutto l’Occidente. Bisogna aggiungere, inoltre, che l’atteggiamento che, in alcuni casi, ha avuto il governo israeliano nei confronti dei civili palestinesi non ha avuto il consenso di una parte dell’opinione pubblica occidentale ed ha suscitato non pochi dibattiti che sono anche confluiti, come avevamo detto ad inizio di anno, anche nelle discussioni e indagini che si sono tenute nelle corti internazionali di Giustizia, chiamate a pronunciarsi su un eventuale genocidio o eventuali crimini di guerra.

Per comprendere ciò che sta accadendo e che tipo di atteggiamento un credente dovrebbe avere, conviene leggere anche qualcosa che vada al di là del testo biblico e di testi che parlino di teologia della restituzione o che echeggino differenti posizioni teologiche. Come apparso anche a Seul, al quarto Congresso di Losanna, i credenti devono guardare alla situazione con preghiera, attenzione ed apprensione, senza confondere l’Israele profetico con l’attuale stato di Israele e con l’attuale governo di questo Stato che è fatto da uomini. 

In Italia non mancano le pubblicazioni uscite negli ultimi mesi a tal proposito, ma ci sentiamo di segnalare un piccolo libro pubblicato per i tipi di Laterza e scritto da Anna Foa che si intitola Il suicidio di Israele e che oggi è tra i primi in classifica in Italia nella saggistica (a dimostrazione dell’interesse per l’argomento) e che ho avuto il piacere di presentare in dialogo con l’A. l’altro ieri nella scuola dove insegno.

Anna Foa è stata docente di Storia Moderna alla Sapienza di Roma ed è stata sempre impegnata nella ricerca sul mondo ebraico in Italia, essendo anche lei ebrea della diaspora come ama definirsi. Diversi suoi libri hanno anche parlato della Shoah e di quanto successo agli Ebrei nel XX secolo ed anche prima soprattutto in Italia.

La Foa in quattro rapidi capitoli analizza quale sia la situazione oggi a partire dalla storia: come accade da parte di molti storici la data da cui si parte non è quella biblica ma quella della nascita del sionismo o, per dirla meglio, dei sionismi. Nel testo infatti si precisa la pluralità del movimento sionista e lo si paragona (come è giusto che sia) con il movimento risorgimentale italiano, un movimento di identità nazionale che è stato, di fatto il fondatore dell’odierno Israele nel 1948 e dove sono confluiti pensieri politici che vanno dal socialismo al conservatorismo religioso e laico, rappresentato dall’attuale premier. Israele, infatti, è stato governato per quasi trent’anni dai laburisti che sono coloro che hanno avuto anche le maggiori vittorie nelle guerre arabo-israeliane ed hanno iniziato le trattative con i Paesi Arabi e, in seguito, con i Palestinesi che, purtroppo, non hanno portato ad una soluzione. 

Nel capitolo dedicato all’identità la Foa ricorda che i rapporti tra arabi ed israeliani non sono stati sempre tesi e lo sono diventati dopo la fondazione di Israele. Sino a quando gli ebrei si sono insediati dalla fine del XIX secolo in Palestina non vi sono stati particolari contrasti che si sono invece ampliati dopo la fondazione dello Stato e durante la presenza degli Inglesi dopo la prima guerra mondiale. Il problema che vede la Foa, che dice di parlare come ebrea della diaspora, laica ma che ama il suo popolo e che la fondazione delle identità delle due nazioni è avvenuta a seguito due due eventi ritenuti tragici: la Shoah perpetrata dai nazisti e la Nakba (la catastrofe) che i Palestinesi ritengono di aver vissuto dopo la fondazione dello Stato di Israele. Senza discutere della diversa portata dei due eventi, nel testo si ritiene che tutto ciò ha portato all’assunzione da parte dei due popoli di un paradigma vittimario che difficilmente può portare ad una riconciliazione. 

Il terzo capitolo del testo ricostruisce in poche pagine i fallimenti ed i tentativi di fare pace tra i due popoli che erano culminati con gli accordi di Oslo che sono miseramente falliti, sia a causa dei palestinesi che anche dei governi israeliani conservatori che non volevano dare veramente indipendenza ai territori che sarebbero dovuti essere della Palestina. La questione di Gerusalemme poi ha spesso travolto i processi di pace e non li ha fatti arrivare alla conclusione.

Questo pessimismo (che permane nel libro) ci porta all’ultimo capitolo che porta il titolo del testo e dove la storica di origine ebraica non mostra grande ottimismo per ciò che è accaduto dal 7 ottobre di un anno fa e pensa che le scelte dell’attuale governo israeliano che ha di fatto anche annichilito l’opposizione interna dopo le numerose manifestazioni che avevano preceduto gli eventi, non portano a nulla di buono. Sia l’attuale governo israeliano che Hamas vorrebbero per sé tutta la Palestina e non sono disposti a cedere su nulla rischiano la distruzione del proprio popolo e di sé stessi.

Seppur con un finale non speranzoso la Foa ha voluto cercare di dare una visione il più possibile serena di quanto sta accadendo leggendo con gli occhi della storica ebrea della diaspora. Infatti, agli ebrei fuori di Israele rimprovera il poco attivismo nell’aiutare gli israeliani a trovare una soluzione pacifica. Il suo è un accorato appello soprattutto verso il suo popolo che vede sbagliare, piuttosto che una condanna contro il terrorismo palestinese (che pure nel testo c’è).

Si tratta di un testo appassionato, scritto da una persona veramente esperta del problema perché se ne sente coinvolta ma che è in grado anche di farsi spazio all’interno di una politica sempre più polarizzata in tutto il mondo e che cerca di esprimere una voce moderata ed anche preoccupata per quanto sta accadendo. Da un punto di vista evangelico è un testo che va letto con interessa perché, pur nella sua brevità, dà una documentazione notevole per comprendere quanto accaduto ed una prospettiva che mostra che non tutti gli Ebrei (neanche all’interno di Israele) sono d’accordo con l’attuale governo. Per quanto ci riguarda, oltre le condanne che condividiamo quando vengono attaccati innocenti, il nostro compito è pregare per la pace ed agire per la riconciliazione.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

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di Nicola Berretta

Sono trascorsi oramai quasi 5 anni da quel lontano febbraio 2020 quando in Italia scoppiò la pandemia da Covid-19, e il dramma collettivo che abbiamo tutti quanti attraversato sembra oramai solo un ricordo lontano. Un ricordo, però, che lascia ancora strascichi con conseguenze fisiche in alcuni di coloro che ne sono stati colpiti più violentemente, ma anche conseguenze emotive in chi ha perduto persone care, o psicologiche in chi ha subito con maggiore difficoltà il lungo periodo di isolamento sociale, soprattutto bambini e adolescenti. Prima però che quella brutta esperienza cada completamente nell’oblio, confinata nei soli manuali di microbiologia ed epidemiologia, penso che sia giunto il tempo per fare qualche bilancio, guardando all’esperienza vissuta con maggiore lucidità potendola adesso osservare dall’esterno, senza essere più travolti dall’accavallarsi di notizie allarmanti se non addirittura evocatrici di complotti costruiti a tavolino. Non va infatti dimenticato il clima di sospetto e demonizzazione che ha accompagnato gli anni della pandemia, che ha coinvolto anche realtà ecclesiali. Fare un bilancio a posteriori può essere dunque utile per valutare con spirito critico l’esperienza attraversata, nella speranza di farne tesoro per il futuro.

I dati che seguono sono per la maggior parte frutto di una mia elaborazione a partire da informazioni fornite dal Ministero della Salute e accessibili in rete[1]. Inoltre farò riferimento a elaborazioni dell’Istituto europeo EuroMOMO, che raccoglie dati sulla mortalità della popolazione della maggior parte dei Paesi europei, inclusa l’Italia, accessibili anch’essi in rete[2].

Una critica metodologica che potrebbe essere mossa prima ancora di illustrare i dati che seguono potrebbe sorgere per un dubbio sollevato fin dall’inizio della pandemia, circa l’affidabilità del numero di morti certificati dalle agenzie preposte, se cioè si sia trattato davvero di decessi dovuti al Covid-19 oppure quei numeri siano stati intenzionalmente gonfiati, se non addirittura inventati di sana pianta. Forse ricorderemo la polemica se si trattasse di morti per Covid oppure di morti con Covid, se cioè si trattasse di persone decedute a causa del virus Sars-Cov-2 oppure di persone morte per tutt’altro motivo, ma che incidentalmente erano state infettate da quel virus. È utile allora avvalersi di una comparazione tra i dati ufficiali sui decessi da Covid-19 comunicati dal Ministero della Salute e quelli relativi al numero assoluto di morti documentato dall’agenzia EuroMOMO. Questi ultimi infatti sono analisi statistiche su quante persone siano morte in un determinato periodo, al di là della causa del loro decesso, sia esso dovuto a malattie di qualsiasi tipo oppure anche accidentale.

 

Il Grafico 1 presenta in alto i decessi che si sono verificati Italia dalla fine del 2018 ad oggi (novembre ’24) per qualsiasi causa[3]. La linea orizzontale rossa indica la soglia oltre la quale i morti sono sostanzialmente superiori all’atteso, in base alle statistiche degli anni precedenti. Nota che il numero di decessi presenta sempre un’eccedenza più o meno marcata nei mesi di dicembre e gennaio, a causa dell’influenza stagionale, come si può notare ad esempio all’inizio del 2019, tuttavia è evidente l’aumento drammatico nell’incidenza dei morti per qualsiasi causa poco dopo l’inizio del 2020, quando per l’appunto scoppia in Italia la pandemia da Covid-19, e che continua in ondate successive anche in periodi dell’anno di norma non soggetti a variazioni sostanziali nel numero di decessi. Quello che però è ancora più importante sottolineare è la comparazione tra il grafico in alto di EuroMOMO e quello grigio sottostante, relativo al numero di morti ufficialmente riconosciuti per causa di Covid-19. Una semplice analisi visiva mostra un andamento pressoché parallelo dei due grafici. Anche un’analisi dei numeri crudi, che qui non presento, indica che il numero di morti dichiarati ufficialmente come dovuti a Covid-19 rispecchia l’eccedenza di decessi rispetto ad anni precedenti, anzi, sembrerebbe addirittura inferiore. Cosa ci dice questo? Ci dice che i numeri comunicati dalle agenzie governative sui decessi dovuti al Covid-19 sono affidabili. Se può essere accaduto che qualcuno sia stato erroneamente incluso tra i deceduti per Covid-19, ce ne sono stati altrettanti (se non di più) che sono morti per Covid-19 ma non sono stati documentati come tali.

Dopo questa premessa metodologica è utile ricordare di che numeri stiamo parlando. Da febbraio 2020 ad oggi il virus Sars-Cov-2 ha colpito quasi 27 milioni di italiani[4], provocando un totale di 198.155 morti (al 30 ottobre 2024). Sono tanti? Sono pochi? Beh, se è vero che in Italia il numero di civili morti durante la IIa guerra mondiale sono stati poco più di 150 mila (fonte Wikipedia[5]), direi che in questi ultimi 5 anni in Italia si è verificata una vera e propria tragedia. Altro che influenza! È utile e doveroso sottolineare questa realtà, per avere maggiore sobrietà e comprensione nel valutare oggi, col senno di poi, decisioni operative che sono state prese per rispondere a un’emergenza di estrema gravità e per di più del tutto inedita nella nostra storia recente.

Torniamo ancora ai dati di EuroMOMO (Grafico 2), questa volta però guardando ai decessi avvenuti per qualsiasi causa da fine 2018 a oggi in tutta Europa, sia totali (grafico in alto) sia suddivise per fasce di età (grafici successivi). Di nuovo, l’eccedenza numerica rispetto alle attese è segnalata dal superamento della linea rossa tratteggiata. Nota che questa volta l’andamento è tendenzialmente sinusoidale e non rettilineo come nel grafico precedente, perché questo grafico riporta numeri assoluti e non il parametro statistico “z-score”. Al di là di questi dettagli tecnici, sono ancora evidenti le chiare eccedenze nel numero di decessi corrispondenti alle varie ondate di pandemia da Covid-19 successive a febbraio 2020. L’informazione in più che ci fornisce questo grafico è l’incidenza dei decessi in rapporto all’età. Se da una parte è chiarissimo l’aumento di decessi in persone di oltre 65 anni (grafico in basso), per i più giovani (0-14 e 15-44 anni) il numero dei morti in Europa è rimasto sostanzialmente all’interno dei parametri attesi. Questo dato conferma l’evidenza ampiamente riportata secondo cui gli effetti più gravi del Covid-19 si sono verificati in larga parte nella fascia di età oltre i 60 anni, mentre i più giovani ne sono stati sostanzialmente risparmiati.

C’è però un altro dato importante che ci viene fornito da questo grafico, alla luce delle polemiche che tuttora circolano circa i pericoli del vaccino anti-Covid somministrato in massa in Europa a tutte le fasce di età dalla seconda metà del 2021 a tutto il 2022. Se da una parte è vero che nei più giovani non si è verificato alcun aumento sostanziale nel numero dei decessi da virus Sars-Cov-2, è altrettanto vero che non si è verificato alcun aumento significativo di decessi nei giovani a seguito della campagna vaccinale. Se cioè fosse vero, come taluni continuano ad affermare, che vi sarebbero state e vi sarebbero tuttora tantissimi decessi di giovani che hanno ricevuto il vaccino, ma sottaciuta dalle fonti governative, questi grafici dovrebbero renderle esplicite. Mi rendo conto che, chi è convinto che vi sia in atto una cospirazione per coprire il pericolo di questi vaccini, continuerà a ritenere che anche questi numeri siano stati manipolati, ma mi auguro che possano convincere quella fascia più ampia di persone che magari sono rimaste nel dubbio perché impressionate da informazioni circa episodi singoli e circostanziati.

 

Continuando sul tema della campagna vaccinale, andiamo ora all’ultimo Grafico 3, ottenuto dai dati ufficiali diramati dal Ministero della Salute. Il grafico in alto (colore blu) mostra il numero di italiani risultati positivi al virus Sars-Cov-2 dall’inizio della pandemia a oggi, mentre quello sottostante (colore rosso) riporta il numero di morti giornalieri nello stesso arco temporale. Si nota un picco di decessi avvenuto con la 1a ondata iniziata nel febbraio 2020. Fu in risposta a quell’esplosione di morti da Covid-19 che il Governo italiano impose restrizioni alla libera circolazione per tutta la primavera 2020 (lockdown). A quella 1a ondata di decessi ha fatto seguito una 2a ondata dopo l’estate 2020 fino alla primavera del 2021. Questa è stata la fase che ha visto complessivamente il maggior numero di decessi per Covid-19, ma comunque, in rapporto, è stata più contenuta della precedente, se si considera il numero di positivi notevolmente maggiore che si verificò in quel periodo rispetto alla prima ondata (grafico blu). Si assiste poi a una 3a ondata di decessi a partire dalla seconda metà del 2021, che continua in modo irregolare per tutto il 2022. Anche in questa 3a fase c’è un considerevole numero di decessi, ma occorre notare che questi decessi si verificano in concomitanza col periodo in cui si registra il maggior numero di persone positive (nota la serie di picchi nel grafico blu, che raggiungono valori fino a più di 200.000 positivi al giorno).

Questa osservazione ci introduce al grafico in basso (colore bianco). Si tratta di un grafico che misura la letalità del virus, valutata guardando a quanti decessi si sono verificati in un determinato periodo, in rapporto al numero di persone che sono risultate positive al virus in quello stesso periodo[6]. I valori di letalità dalla seconda metà del 2020 si assestano tra l’1 e il 3%[7]. Il che vuol dire che in quel periodo, di 1000 persone che venivano diagnosticate positive al virus Sars-Cov-2, ne sarebbero poi decedute da 10 a 30. Osservando con attenzione il grafico, si nota che a partire dagli ultimi mesi del 2021 si assiste a un drastico calo nel tasso di letalità, che resta costante per tutto il 2022 a livelli attorno allo 0.3%, per poi risalire. Tornando all’esempio di prima, tra la fine del 2021 a tutto il 2022, su 1000 persone che venivano diagnosticate positive al virus Sars-Cov-2, ne decedevano 3, cioè fino a un decimo della situazione precedente. Cosa è successo in Italia dall’autunno del 2021 a tutto il 2022? La risposta è semplice: c’è stata un’estesa campagna vaccinale contro il virus Sars-Cov-2.

Facciamo allora qualche semplice calcolo numerico. Durante l’intero anno 2022 è stato riportato ufficialmente un totale di circa 50.000 morti per Covid-19. Un numero sicuramente alto, ma di fatto relativamente contenuto se si rapporta all’altissimo numero di contagi che si sono verificati in quel periodo (3a ondata nel grafico blu). Se infatti il tasso di letalità fosse stato pari a quello dell’anno precedente, prima della campagna vaccinale, quel numero di positivi avrebbe dato luogo a più o meno 300.000 morti. Questi numeri ci dicono che la campagna vaccinale ha salvato (solo in Italia!) un numero pari a circa 250.000 vite umane, cioè, più del totale di morti per Covid-19 che si sono verificati fino a oggi in Italia! Per inciso, dopo la campagna vaccinale il tasso di letalità è risalito per raggiungere valori simili al periodo precedente, ma tutt’oggi il numero assoluto di decessi rimane contenuto perché il numero di positivi al virus è calato drasticamente[8].

Questi sono numeri, non sono opinioni. Sono numeri che dovrebbero sollecitarci qualche riflessione. La prima cosa che mi viene in mente è l’intervento mio e di due stimati colleghi (Emanuele Negri e Graziano Riccioni) nel maggio del 2022, in occasione del 15° Convegno nazionale delle Edizioni GBU[9], in cui ci esponemmo a favore della campagna vaccinale allora in atto, all’interno di una polemica a tratti molto aspra sollevata da chi invece ne paventava i pericoli collegati a malvagie cospirazioni internazionali. Ricordo molto bene i commenti successivi in risposta a quell’intervento, e i moniti sulla grave responsabilità che ci eravamo assunti (davanti a Dio!) nell’esporre al rischio di morire tante ignare persone, senza che essi stessi fornissero poi alcuna evidenza oggettiva, documentata, a sostegno di quegli anatemi.  La mia coscienza era pulita allora e lo è tanto più adesso, alla luce di quanto documentato sopra. Ma mi domando se coloro che si sono spesi per diffondere notizie infondate su complotti internazionali in atto, finalizzati a imporre una vaccinazione dannosa per la salute umana, non dovrebbero oggi valutare l’opportunità di riflettere sul proprio comportamento. Di fatto, almeno 250.000 persone (solo in Italia!) non sarebbero oggi in mezzo a noi se si fosse dato ascolto ai loro interventi minacciosi sui rischi dei vaccini. Sottolineo, non mi sto riferendo a chi, per motivi personali, ha deciso di non vaccinarsi. Sto parlando di chi si è fatto promotore della diffusione di notizie infondate su inesistenti pericoli dei vaccini, per dissuadere e scongiurare che altri si vaccinassero.

La speranza è che questi anni tribolati divengano solo un ricordo lontano che i giovani d’oggi potranno narrare ai loro nipotini, vantandosi di aver vissuto quell’esperienza riportata nei libri di storia. Tuttavia non sarebbe male se facessimo tutti quanti tesoro di ciò che è accaduto, magari anche solo per riflettere sugli enormi danni di cui possiamo divenire responsabili diffondendo notizie di cui non siamo certi circa l’origine e la correttezza. E su questo, non è utile rifugiarsi dietro l’alibi di averlo fatto innocentemente, solo “a titolo di informazione”, come spesso mi capita di sentire. Nel momento stesso in cui diffondiamo una notizia infondata, si diviene corresponsabili dei danni che essa provoca.

Inoltre, non sarebbe male riflettere sul clima di diffuso sospetto e scetticismo nei confronti della scienza, che si è tristemente radicato in gran parte del nostro mondo evangelico nel corso dell’ultimo secolo. Ci siamo dimenticati che il metodo scientifico affonda le sue radici nella cultura biblica, come illustri scienziati del passato (e anche del presente) mettono bene in chiaro. È triste constatare che il dilagante pensiero ateo scientista si sia appropriato della paternità di una disciplina che invece è nostra, ma gliel’abbiamo noi stessi consegnata in mano, guardando al mondo scientifico come a un nemico della fede. Un pensiero che consolidiamo ulteriormente nell’accostarci alle tante teorie cospirazioniste antiscientifiche oramai sempre più diffuse in rete. Se questa esperienza ci porterà perlomeno a iniziare un cambiamento nel nostro atteggiamento sospettoso nei riguardi dei risultati scientifici, allora il Covid-19 sarà stato una vera benedizione.

[1] https://ift.tt/L87skcA

[2] https://ift.tt/8ev2yiC

[3] Nota che i dati non sono numeri assoluti, ma il parametro statistico “z-score”, che è comunque direttamente correlato alla quantità di decessi.

[4] Questo dato non tiene conto delle persone che hanno contratto più volte il virus nel corso di questi anni, per cui questa cifra è verosimilmente una sovrastima.

[5] https://ift.tt/f5wyrAx

[6] Più precisamente, ogni giorno è stata calcolata la media dei decessi avvenuti quel giorno stesso e nei 6 giorni precedenti. Questo valore è stato rapportato (x100) alla media dei nuovi positivi riportati nella seconda settimana antecedente. Questa scelta è stata fatta assumendo un periodo di degenza di 2 settimane, da quando una persona era stata riconosciuta positiva al virus fino al suo decesso.

[7] Nota che nei primi mesi di pandemia il valore di letalità è talmente alto da andare fuori scala. Si tratta di valori che raggiungono anche l’80-90%, ma si tratta sicuramente di cifre non verosimili perché con tutta probabilità il numero di decessi era rapportato a un numero di positivi inferiore al dato reale, vista la scarsa diffusione di tamponi.

[8] Circa i motivi di questo calo nella diffusione del virus, lascio la parola ai virologi che spiegherebbero molto meglio di me questo fenomeno, non nuovo, di ondate di diffusione dei virus finché poi di fatto si estinguono. Detto questo, la risalita del tasso di letalità indica che il virus continua ad essere potenzialmente pericoloso, ed è per questo motivo che ne viene tutt’ora attentamente monitorata la diffusione.

[9] https://www.youtube.com/watch?v=2r5nJA6oPGY

L’articolo 5 anni dal Covid-19: tempo di bilanci numerici… e non solo proviene da DiRS GBU.

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di Maria Gil Orefice, laureanda in Filologia Moderna

“Vivere e confrontarsi con l’Islam” è il tema su cui si è incentrato il diciassettesimo Convegno di Studi GBU: tre giorni densi di seminari e approfondimenti estremamente interessanti ma soprattutto utili per conoscere meglio il mondo musulmano e comprendere i metodi migliori per instaurare un dialogo nella Verità con chi ne fa parte. L’oratore, insieme ai professori incaricati dei diversi seminari, ha accompagnato noi partecipanti nella scoperta dell’Islam, delle sue origini e di come si è evoluta la sua percezione nel corso dei secoli.

Due interventi che ho molto apprezzato personalmente sono stati quelli del professor Claudio Monopoli e della professoressa Aoife Beville. Il primo ha tracciato l’evoluzione della percezione del mondo musulmano nella letteratura italiana, da Dante che pone Maometto tra i seminatori di discordia (non tra gli eretici!) a Tasso che nella sua Gerusalemme liberata dipinge i musulmani come esseri completamente malvagi, con forze demoniache dalla loro. La professoressa Beville ha invece approfondito Il cavallo e il ragazzo di C.S. Lewis e il modo in cui l’autore ha descritto i Calormeniani al suo interno, sviluppando una riflessione molto interessante su come qualcosa che noi potremmo non notare neanche (in questo caso, la rappresentazione dei Calormeniani come uomini dalla pelle scura e la barba lunga e sporca che indossano turbanti) possa invece apparire evidente e dissuadere dalla lettura un musulmano che dovesse trovarsi a leggere. Collegandomi a questo, riporto uno dei punti fondamentali emersi durante il Convegno: per creare un dialogo con qualcuno altro da noi, è necessario approcciarsi con dignità a ciò in cui crede. Per quanto noi siamo giustamente convinti della Verità della Bibbia, non dobbiamo commettere l’errore di sminuire le persone musulmane con cui ci confrontiamo; non se vogliamo avere una possibilità di instaurare un dialogo sincero e utile a portarli a Dio.

Questo Convegno mi ha fornito vari spunti e tattiche utili a comprendere ed evangelizzare i musulmani, ma ciò che mi ha più colpita è senza dubbio come lo strumento più efficace nel portare i musulmani a Cristo sia il Corano stesso. Questo non ci è stato solo spiegato dall’oratore, Emil Shehadeh, ma anche testimoniato da un ragazzo cristiano di origini musulmane che ha raccontato come proprio leggendo il Corano abbia iniziato a porsi domande: perché l’Islam ritiene Maometto come massimo profeta, se nel loro libro sacro è evidente che Gesù sia il più glorioso tra tutti i profeti? Perché molti musulmani accusano i cristiani di aver modificato la Bibbia, se il Corano afferma che Allah non permette a nessuno di modificare la sua parola?

Conoscere il contenuto del Corano, quindi, rappresenta un vantaggio se si vuole instaurare un dialogo con persone musulmane. Emil Shehadeh ci ha fornito delle ottime basi di partenza; sta a noi, ora, continuare a studiare e approfondire il tema, se sentiamo la chiamata in questa direzione.

Questi tre giorni di Convegno sono stati un’esperienza intensa e davvero utile per la mia crescita spirituale, sono grata di aver partecipato e averne ricavato spunti utili per come evangelizzare o dialogare con persone di altre fedi in generale, oltre che musulmane nello specifico.

L’articolo Convegno Studi GBU – Impressioni proviene da DiRS GBU.

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(Daniel K. Williams)

Articolo tradotto e pubblicato con autorizzazione di Christianity Today

 

Quando Jimmy Carter parlò della sua fede in Cristo, durante la campagna elettorale per la presidenza del 1976, molti evangelici rimasero estasiati.

Nessun candidato aveva mai affermato di essere “nato di nuovo” o parlato così apertamente del suo rapporto con Gesù. Né aveva accolto mai i giornalisti nella sua classe di discepolato per adulti, che Carter continuò a tenere nello stesso periodo in cui si era candidato per la Casa Bianca. D’altronde, nessun altro candidato era mai stato un diacono di una chiesa battista del sud degli Stati Uniti.

Il pastore dell’Oklahoma, Bailey Smith, rivolgendosi alla folla radunata per l’incontro annuale della SBC, nel giugno del 1976, affermò che gli Stati Uniti avevano bisogno di un “uomo nato di nuovo alla Casa Bianca”. Poi aggiunse, nel caso qualcuno non avesse colto l’allusione, “Le iniziali del suo nome sono le stesse di quelle del nostro Signore!” [Jimmy Carter, come Jesus Christ, ndt]

Ma solo poche settimane dopo, la Third Century Publishers, una casa editrice evangelica riconducibile al fondatore di Campus Crusade for Christ, Bill Bright, pubblicò un libro che criticava duramente la bontà della fede evangelica di Carter. Il libro, What about Jimmy Carter? fu scritto da un giovane evangelista di nome Ron Boehme.

Boehme, quando sentì parlare per la prima volta della candidatura di Carter, disse di essersi “emozionato” all’idea che un cristiano nato di nuovo fosse candidato alla Presidenza. Tuttavia, man mano che approfondiva le convinzioni di Carter, la sua opinione sul candidato democratico si inasprirono. Scoprì che Carter aveva abbracciato una visione neo-ortodossa della Bibbia e sosteneva politiche liberali relative all’aborto e ai diritti degli omosessuali.

Boehme concluse che forse Carter non fosse affatto un evangelico o che addirittura non fosse neanche un credente. Scrisse: “Quando qualcuno, nella sua campagna politica e nel suo approccio alla legge, promuove o asseconda immoralità ed empietà allora non è un vero seguace di Gesù”. Prendendo in prestito di una delle affermazioni di Gesù nel Sermone sul Monte, Boehme aggiunse: “Un albero buono non può produrre frutti cattivi”.

Boehme non fu il solo a giungere a questa conclusione. Sebbene Carter nel 1976 avesse preso circa la metà dei voti degli evangelici bianchi, molti evangelici, nelle settimane che precedettero le elezioni, rilanciarono i dubbi di Boehme. L’intervista di Carter alla rivista Playboy turbò molti cristiani conservatori, e lo stesso effetto produssero alcune delle sue posizioni politiche.

Nel 1980, alcuni evangelici che un tempo avevano sostenuto Carter (come il conduttore radiofonico Pat Robertson) furono in prima linea nel movimento per sconfiggerlo alle elezioni di quell’anno. Carter, sostenevano, aveva promosso un “umanesimo secolare” grazie al sostegno di un programma femminista e al suo rifiuto di opporsi ai diritti degli omosessuali. In effetti, nel 1980, fu in gran parte una reazione alle politiche presidenziali di Carter che spinse la mobilitazione politica della destra religiosa e il forte sostegno evangelico a Ronald Reagan.

Dopo che Carter lasciò la Presidenza, la frattura tra lui e la leadership, sempre più conservatrice della Southern Baptist Convention, continuò ad approfondirsi. Alla fine, Carter lasciò la Convention per unirsi alla Cooperative Baptist Fellowship (SBC), una denominazione che ordinava le donne e rifiutava alcune delle posizioni politiche conservatrici della SBC.

Ma Carter continuò a definirsi un cristiano evangelico. Continuò a raccontare di leggere la Bibbia ogni giorno, di pregare costantemente e di tenere lezioni settimanali di scuola domenicale nella sua chiesa battista. Il suo lavoro di volontariato con lo Habitat for Humanity divenne leggendario. E spesso, mentre era ancora Presidente, aveva condiviso la sua fede con gli altri, incluso leader internazionali non cristiani.

Scrisse anche diversi libri sulla sua fede. “Sono convinto che Gesù sia il Figlio di Dio”, affermò nel suo ultimo libro, pubblicato nel 2018. Dichiarò che Gesù era il suo “personale salvatore “, e anche “una guida personale e un esempio per la propria vita e per quella degli altri. … Gli elementi fondamentali del cristianesimo valgono personalmente per me, modellano il mio atteggiamento e le mie azioni e contribuiscono a darmi una vita gioiosa e positiva, una vita che ha uno scopo”.

Dopo aver consultato la descrizione dell’evangelicalismo che aveva rinvenuto in un articolo di Wikipedia, e dopo averla integrata con note tratte da uno dei suoi commentari alla Bibbia, Carter concluse nel suo libro che egli non era solo un cristiano, ma che era un “cristiano evangelico”. Era nato di nuovo; condivideva la sua fede con gli altri e amava Gesù come suo personale Salvatore. Che cosa poteva esserci di più evangelico di questo?

Ma c’era una differenza tra la comprensione della fede che Carter mostrava e le opinioni dei suoi critici evangelici. La sua esperienza di conversione con la nuova nascita avrebbe potuto essere sicuramente simile alla loro, e la sua dedizione alla preghiera e alla lettura della Bibbia altrettanto forte della loro, ma su due questioni Carter era distante dagli evangelici conservatori della fine del XX secolo: l’inerranza biblica e la politica.

Questi erano proprio i temi al centro della crescita dei conservatori della Southern Baptist Convention che ebbe inizio proprio mentre Carter era in carica come Presidente. Per molti evangelici conservatori degli anni ’70, per Harold Lindsell, Francis Schaeffer e i leader della parte conservatrice all’interno della Southern Baptist Convention, il tema dell’inerranza biblica era centrale per l’identità evangelica. Sostenevano che senza una Bibbia infallibile i cristiani protestanti non avrebbero avuto una fonte di autorità che fosse stata stabile e trascendente. Il principio della Riforma del sola scriptura, combinato con una comprensione della perfezione e della sovranità di Dio, esigeva una scrittura infallibile.

Molti di questi evangelici sostenevano anche che il governo americano avesse bisogno di uno standard morale stabile e trascendente, basato sui principi cristiani. La legalizzazione dell’aborto e una nuova glorificazione pubblica dell’immoralità sessuale erano il risultato di politici e giudici che avevano dimenticato la legge di Dio.

La loro visione del cristianesimo che doveva avere un’influenza nella sfera pubblica si esprimeva principalmente nel bisogno di sostenere i principi morali cristiani a fronte della crescente secolarizzazione. Ritenevano la rivoluzione sessuale, insieme alla seconda ondata di femminismo, la più grande minaccia che la famiglia americana avesse mai subito. Ed erano determinati a fermare quella minaccia eleggendo persone devote nelle cariche pubbliche, persone che sarebbero state guidate dalla legge di Dio, non dalle tendenze culturali del tempo.

Carter, però, non condivideva nessuna di queste opinioni. Le sue idee politiche e religiose non erano state plasmate da una reazione alla rivoluzione sessuale, ma dall’esperienza del movimento per i diritti civili. Come altri bianchi del sud della sua generazione, Carter era cresciuto a contatto con la segregazione razziale e la disuguaglianza, e giunse alla conclusione che le chiese evangeliche bianche della sua regione erano per lo più dalla parte sbagliata della lotta per la giustizia degli afroamericani.

La chiesa battista di Carter a Plains, in Georgia, fu ufficialmente segregazionista fino al 1976. La comunità votò negli anni ’60 contro l’accoglienza di persone di colore quali propri membri, e Carter si oppose a quella decisione pur non abbandonando la chiesa. Eppure, come ricordò anni dopo nel suo libro Faith: A Journey for All, venne ispirato dagli esempi di altri cristiani che assunsero una posizione controculturale volta a superare la linea del colore presente nel sud segregazionista. Ad esempio, a poche miglia dalla sua casa di Plains, Millard e Linda Fuller diedero il via a un’impresa agricola cristiana interrazziale, chiamata Koinonia, per poi fondare Habitat for Humanity.

Incontri con persone come i Fuller convinsero Carter che ciò di cui il paese aveva bisogno non era una campagna pubblica per riportare l’America a Dio. Era una concreta imitazione dell’etica di Gesù. Dopotutto, era in questo modo che i sostenitori cristiani afroamericani dei diritti civili avevano ottenuto il sostegno dei cristiani bianchi, che in precedenza erano contro di loro, in quanto furono toccati dall’esempio dell’amore cristiano che avevano visto tra gli attivisti.

Carter fu così colpito da esempi del genere tanto da incorniciare la sua fede intorno a questo principio piuttosto che intorno a specifiche rivendicazioni dottrinali. Ma più leggeva le Scritture, più veniva colpito dall’etica di Cristo e più desiderava avere Gesù come suo “amico” per grazia mediante la fede.

Per Carter, quindi, l’inerranza biblica non era un problema. Giunse a pensare che forse la Bibbia potesse contenere alcune contraddizioni interne che non potevano essere armonizzate, e che parti della Bibbia potessero avere bisogno di essere reinterpretate alla luce della scienza moderna. Ma questo non aveva importanza, poiché il racconto della vita di Gesù era al contrario storicamente corretto.

Similmente, Carter ritenne che le priorità politiche della destra cristiana fossero sbagliate, perché erano incentrate non sull’etica di Gesù ma sull’idea errata che i valori della famiglia potessero essere imposti per legge. In quanto battista arminiano, Carter si opponeva ai credi: credeva nel sacerdozio di tutti i credenti e insisteva fermamente sul fatto che la fede, per essere autentica, dovesse essere liberamente scelta. Non poteva essere dettata dalla legge, sostenne in dei suoi numerosi libri, tra cui Our Endangered Values: America’s Moral Crisis e Faith: A Journey for All.

Seguire Gesù mentre si occupava una carica pubblica non poteva significare allora imporre standard cristiani per legge. Per Carter, doveva significare agire con integrità e con sollecitudine per tutte le persone. E se la nazione si fosse rivolta a Dio, allora il frutto di questa conversione non sarebbe stato necessariamente quello di leggi contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso o contro l’aborto. Sarebbe stato, al contrario, un dedicarsi “alla risoluzione delle controversie con mezzi pacifici” e un impegno per “libertà e per i diritti umani” a favore degli altri, incluso, e in particolar modo, i diritti delle donne che, secondo lui, troppi evangelici conservatori ignoravano.

La fede di Carter appariva più funzionale al protestantesimo storico che non all’evangelicalismo americano di fine XX o di inizio XXI secolo, e gli evangelici non avevano torto quando rilevavano questa differenza. Ma Carter è rimasto un battista per tutta la vita in quanto credeva in una conversione frutto della nuova nascita, in una relazione personale con Gesù e nella necessità di condividere la propria fede con gli altri. Parlava sempre di fede con un accento evangelico e, nonostante le sue differenze rispetto ai cristiani più conservatori, nutriva un amore per lo stesso Salvatore.

Nell’ottica della storia, e grazie al periodo più lungo di una post-presidenza americana, queste somiglianze sono forse più facili da vedere oggi di quanto non lo fossero nel 1980. La determinazione di Carter a estendere l’amore di Gesù è stato il miglior riflesso del Sermone sul Monte di quanto non si rendessero conto i suoi critici evangelici.

Daniel K. Williams insegna American history presso la Ashland University ed è autore di The Politics of the Cross: A Christian Alternative to Partisanship.

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(di Giacomo Carlo Di Gaetano)

  1. Il dialogo è parte integrante della missione e della proclamazione del vangelo
    Manifesta virtù cristiane (ascolto e attenzione) e non è espressione della mollezza o della debolezza postmoderna né tanto meno di uno scivolamento verso forme di religionismo o ecumenismo (Col. 4:6; Gc 1:19; Rom 12:18)
  1. Dialogo nella verità
    È impensabile un dialogo in cui il cristiano rinunci alle verità proclamate da Gesù o rinunci alla testimonianza cristiana in quanto ciò significherebbe rinunciare al proprio essere cristiani (Gv 14:6; Rom 1:16–17, 2:16; 2 Tm 3:16–17; Eb 4:12–13; Gv 17:17).

«I cristiani che hanno una posizione dottrinale chiara hanno buone opportunità nel dialogo [p.es. con i musulmani], poiché un convinto fedele musulmano parlerebbe di buon grado più con un cristiano convinto che con un cristiano cosiddetto “liberale” che non conosce la sua fede o con un ateo» (Schirmacher, p. 75).

  1. Dialogo e fondamentalismo
    Le verità fondamentali del cristiano devono essere ricondotte in ultima analisi alla persona e all’opera di Gesù. Nel dialogo i nostri interlocutori non incontrano Gesù ma semplici testimoni. Per questo le verità fondamentali non coincidono con il fondamentalismo, termine utile più a fotografare forme e comportamenti degli individui piuttosto che verità da comunicare.
  1. Nel dialogo, oltre alla Verità, l’Amore
    Il dialogo ha due facce: da un lato c’è l’approccio critico verso le posizioni altrui (Paolo e i suoi sentimenti ad Atene) dall’altro c’è il desiderio di condurre lo stesso dialogo con mansuetudine e rispetto (At 17:16 e 22; 1 Pt 3:15–16)
  1. La dignità dei dialoganti
    La verità e l’amore nel dialogo sono possibili solo presupponendo la pari dignità degli interlocutori. A tal fine il cristiano si impegna a non nascondere o camuffare ciò in cui crede ma anche a non disdegnare la condizione di “credente” dell’interlocutore.«Nel dialogo ci facciamo reciprocamente partecipi della nostra umanità, con la sua dignità e la sua degradazione, ed esprimiamo la nostra comune sollecitudine per questa umanità» (Stott, p. 86)
  2. Il dialogo è tra due esseri umani
    Nel dialogo il nostro interlocutore non sta interagendo direttamente con Dio ma con altri esseri umani che hanno fatto una particolare esperienza di e con Dio.

«I cristiani desiderano che le persone trovino pace con Dio, ricevano il perdono e credano che solo in Dio c’è la verità. Ma queste stesse persone non hanno peccato contro di noi e non devono inginocchiarsi davanti a noi per essere giustificate. Noi stessi non siamo coloro che hanno la verità in tutto e che in ogni cosa che dicono professano sempre la verità. I cristiani non sono onnisapienti» (Schirmacher, p. 74)

«Il mio interesse non è mai diretto al buddismo ma a una persona vivente e al suo buddismo; non stabilisco mai un contatto con l’Islam, ma con un musulmano e il suo maomettismo» (J.H. Bavink, in Stott, p. 85)

  1. Dialogo e “diritti” dei dialoganti.
    Nel cristianesimo i diritti non derivano dal fatto di essere cristiani ma dal fatto che siamo creati a immagine di Dio. Ci sono religioni che accordano diritti unicamente ai propri fedeli. Solo nel cristianesimo si concepisce l’idea di operare e implementare i diritti di tutti, incluso di coloro che sono contro il cristianesimo.
  1. Dialogo e identità
    Il dialogo per i cristiani non discende dal fatto che siamo chiamati a proclamare l’amore di Dio (mandato evangelistico) ma dal fatto di sapere che siamo dei peccatori perdonati.
    I nostri interlocutori devono riconciliarsi con Dio e non con noi. Dunque, è importante che nel dialogo non si dia l’impressione di voler conquistare qualcuno alla nostra causa, enfatizzando la nostra identità religiosa (cristiani vs musulmani; evangelici vs cattolici, etc.).
    Le identità devono essere ridimensionate a causa dell’eccellenza di Gesù Cristo (Fil 3).
  1. Modelli di dialogo
    Dall’insegnamento delle Scritture possiamo estrapolare diversi modelli. Due in particolare possono rivelarsi utili.
    Il primo modello ci impone una scelta: le preghiere del pubblicano e del peccatore (Lc 18:1–13).
    Il secondo ci suggerisce una strategia: il dialogo di Gesù con la donna “samaritana” (Gv 4). Dove bisogna adorare, a Gerusalemme o a Samaria? La risposta di Gesù rileva il fatto che sebbene si possa pensare a una preminenza di una località (la salvezza viene da Sion) tuttavia ora si adora in modo diverso.
  1. Dialogo e cose in comune
    Il dialogo (p.es. con i musulmani) verterà sulle somiglianze tra le due fedi. Allorquando le somiglianze saranno esplorate e condivise, in quel momento, accadrà che un musulmano avrà esaurito i propri argomenti.
    Un cristiano invece inizierà proprio da lì, dalle somiglianze, per rendere la sua testimonianza:«I cristiani non credono semplicemente in un creatore che desidera che facciamo la sua volontà. Piuttosto, credono in un Dio trino la cui seconda persona, Gesù Cristo, ha compiuto la salvezza per il mondo: egli ha conseguito la salvezza per il mondo in quanto l’umanità non è capace di liberarsi dalla colpa dell’ingiustizia. Sono proprio queste le cose indispensabili per i cristiani e queste non appaiono nella lista delle somiglianze tra l’Islam e il Cristianesimo» (Schirmacher, p. 76).

 

Breve bibliografia

  1. J. Stott, Missione cristiana nel mondo moderno
  2. T. Schirmacher, The Koran and the Bible
  3. A. Bannister, Musulmani e cristiani adorano lo stesso Dio?
  4. E. Shehadeh, Dodici discepoli nella Casa dell’Islam
  5. M. Volf, Contro la marea

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