Tempo di lettura: 6 minuti
di Franco Iacomini
Articolo tradotto e pubblicato con il permesso di Christianity Today
Il teologo peruviano non aveva paura di discutere con i marxisti o di sfidare la Chiesa.
Samuel Escobar, pastore e teologo peruviano la cui passione per la giustizia sociale e l’evangelizzazione ha dato vita a un nuovo campo della missiologia, è morto il 29 aprile a Valencia, in Spagna. Aveva 90 anni.
Nel 1970, Escobar e i suoi colleghi teologi latinoamericani René Padilla, Orlando Costas e Pedro Arana coniarono il termine misión integral per indicare una visione teologica che vedeva l’evangelizzazione e la giustizia sociale come componenti inseparabili della vita cristiana. Essi consideravano questo principio come un modo per applicare la fede evangelica alle ingiustizie che erano davanti ai loro occhi, evidenziando che la cura dei poveri era al centro del messaggio di Gesù.
Al Congresso inaugurale di Losanna del 1974, Escobar ha tenuto un discorso plenario a più di 2.000 leader cristiani provenienti da 150 Paesi, sostenendo che la Chiesa ha la responsabilità di affrontare la povertà e le privazioni che colpiscono i suoi membri più vulnerabili.
“La via di Cristo è quella del servizio”, ha detto in un discorso che ha citato Matteo 20:27 (“Chi vuole essere il primo deve essere il vostro schiavo”) e Giovanni 20:21 (“Come il Padre ha mandato me, io mando voi”).
Escobar è nato ad Arequipa, una città del Perù meridionale, nel 1934. I suoi genitori divennero protestanti poco prima della sua nascita, nonostante il Paese fosse quasi interamente cattolico. Il padre di Escobar era un ufficiale di polizia e quando lui e la moglie si separarono, il figlio andò a vivere con lei. Escobar ha frequentato una scuola elementare gestita da missionari e in seguito è stato uno dei due soli protestanti tra i 500 studenti della sua scuola superiore pubblica di Arequipa.
Giovane che “divorava libri e scriveva poesie”, Escobar entrò nella scuola di arti e letteratura dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos di Lima nel 1951. Nello stesso anno, un missionario dei Sothern Baptist, M. David Oates, battezzò Escobar presso la Iglesia Bautista Ebenezer de Miraflores a Lima. In seguito, dal 1979 al 1984, Escobar ha servito come pastore della chiesa. Nel 1958 sposò Lily Artola, che aveva conosciuto in chiesa.
Dopo essersi laureato in pedagogia nel 1957, Escobar iniziò a lavorare come segretario itinerante per l’America Latina presso l’International Fellowship of Evangelical Students (IFES). Nell’ambito di questo lavoro, Escobar coinvolse i giovani che erano stati fortemente influenzati dall’ideologia di sinistra, che si era diffusa in America Latina a partire dalla Rivoluzione russa del 1917 e aveva acquisito nuova forza dopo la Rivoluzione cubana del 1959.
“Il marxismo era un’ideologia potente nei campus e l’estrema povertà, le dittature militari e l’oppressione dei poveri rendevano il suo messaggio rilevante”, ha scritto.
Escobar ha visitato spesso le università latinoamericane, tenendo conferenze sull’evangelizzazione e le missioni dando ampio spazio al dibattito.
“I marxisti venivano non solo per confutarmi, ma anche per sfruttare l’occasione per proclamare il loro messaggio”, ha raccontato. “Gli studenti evangelici erano sorpresi che fosse possibile discutere con i marxisti e presentare il Vangelo come una valida alternativa”.
Nel 1967, Escobar pubblicò Diálogo Entre Cristo y Marx (Dialogo tra Cristo e Marx), una raccolta di saggi che derivavano da queste conferenze. In occasione di una campagna evangelistica svoltasi nello stesso anno, gli organizzatori dell’evento distribuirono 10.000 copie ai partecipanti.
Nonostante la fame di dialogo, “nell’atmosfera evangelica in cui sono cresciuto in Perù negli anni 1950, un segno distintivo di un evangelico in buona fede era che non credeva o praticava il dialogo”, scriveva Escobar.
Ciononostante, Escobar “studiò duramente e si preparò per parlare con gli studenti marxisti in un modo che avesse senso per loro, con una preoccupazione che era sia sociale che evangelistica”, ha detto il teologo brasiliano Valdir Steuernagel, che incontrò Escobar mentre era studente in Argentina nel 1972.
“Impegnarsi in un dialogo con gli altri sul percorso che li ha portati a Cristo può essere un primo passo prezioso per capire come possiamo essere d’aiuto – e non d’intralcio – nel cammino di molti altri a cui Cristo vuole arrivare”, ha scritto Escobar nel suo libro Evangelizar Hoy (Evangelizzare oggi).
Mentre Escobar parlava e dialogava con gli studenti, il suo Paese era nel bel mezzo di un cambiamento significativo. Il Perù stava attraversando un periodo di disordini politici, con due colpi di Stato nel 1962 e nel 1968.
Il Paese era anche al centro di una significativa migrazione interna. Nel 1950, il 59% di tutti i peruviani viveva sulle montagne delle Ande (oggi la stessa quantità di popolazione vive sulla costa), su terreni in gran parte di proprietà di un piccolo numero di élite. Stanchi della povertà e dell’oppressione, molti contadini cominciarono a trasferirsi nelle città costiere, dove soffrivano nelle baraccopoli, subendo lo sfruttamento a cui avevano cercato di sfuggire.
Escobar e i suoi colleghi latinoamericani – Padilla, Costas e Arana – hanno sviluppato la misión integral, il loro modo di contestualizzare la fede evangelica di fronte alle ingiustizie che vedevano. (I quattro uomini hanno anche fondato la Fraternidad Teológica Latinoamericana, un’organizzazione che continua a promuovere la teologia latinoamericana contestualizzata). Le nuove convinzioni si rifacevano anche alla teologia della liberazione, che il sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez aveva sviluppato come risposta cattolica alle sofferenze che aveva osservato.
Nei loro discorsi a Losanna 1974, Padilla ed Escobar hanno presentato alla Chiesa globale la loro convinzione che evangelizzazione e azione sociale dovessero andare di pari passo. In risposta, molti leader di orientamento evangelico conservatore etichettarono la missione integrale come marxista o di sinistra. Harold Lindsell, uno dei fondatori del Fuller Theological Seminary, scrisse per Christianity Today che “Escobar sembrava dire che il socialismo è preferibile al capitalismo e che molti latinoamericani sposano il marxismo per la sua enfasi sulla giustizia”.
Escobar non ha mai abbracciato il marxismo. Ma la sua decisione di insegnare ai suoi studenti cristiani come combattere le idee marxiste con la Bibbia e la teologia ha dato fastidio anche i suoi colleghi dell’IFES, che non capivano perché fosse aperto al dialogo con questi gruppi.
Escobar si rese anche conto che la sua passione per le discussioni politiche non aveva successo con tutti e che l’ondata di marxismo tra gli studenti non sarebbe durata per sempre. Durante una conferenza in Messico nel 1973, Escobar ascoltò uno studente che diceva che la sua generazione aveva rifiutato di cambiare il mondo attraverso le formule marxiste e si stava invece rivolgendo agli allucinogeni. “Che cosa ha da dire Cristo su questo?”, chiese. Stupito, Escobar condivise la promessa di Gesù di una vita abbondante e gli spiegò la futilità dell’esperienza religiosa senza la fede in Cristo.
Escobar rimase in sintonia con il suo contesto locale, indipendentemente dalla sua posizione geografica. Si trasferì, in tarda età, in Spagna. Dopo aver osservato il declino della Chiesa cattolica e l’ascesa del postmodernismo, ha approvato quando un predicatore locale ha pubblicato un’edizione illustrata del Libro dell’Ecclesiaste come strumento evangelistico.
“Un cambiamento di metodologia non sarà sufficiente. È necessario un cambiamento di spirito che consiste nel recuperare le priorità della persona stessa di Gesù”, ha scritto nel 1999 in Tiempo de Misión: América Latina y la Misión Cristiana Hoy (Tempo di missione: l’America Latina e la missione cristiana oggi). I titoli di alcune sue opere comunicano la sua convinzione della costante necessità di un cambiamento, come il libro del 1995 Evangelizar Hoy (Evangelizzare oggi), l’articolo del 1982 “Qué Significa Ser Evangélico Hoy” (Cosa significa essere evangelici oggi) o quello del 2016 “Campi di missione in movimento“.
“Nel XX secolo la parola missionario in Perù era riservata ai cristiani britannici o americani dai capelli biondi e dagli occhi azzurri che avevano attraversato il mare per portare il Vangelo nella misteriosa terra degli Inca”, ha scritto nel 2003 in A Time for Mission: The Challenge for Global Christianity. “Oggi c’è un numero crescente di meticci peruviani – latinoamericani dagli occhi scuri, dalla pelle scura e di razza mista – inviati come missionari nei vasti altopiani e nelle giungle del Perù, così come in Europa, Africa e Asia”.
Escobar era sempre alla ricerca di “risposte alle realtà politiche, economiche e sociali del suo contesto”, ha detto Ruth Padilla DeBorst, teologa e figlia del caro amico di Escobar, René Padilla.
Tuttavia, le idee di Escobar sulla misión integral continuano a plasmare l’attuale lavoro del Movimento di Losanna e a suscitare discussioni.
“Ha dimostrato che la nostra fede non è una fede che si estranea, che si nasconde, che si rifiuta di parlare”, ha detto Steuernagel. “Al contrario, ha sfruttato ogni opportunità per condividere la sua testimonianza. E lo ha fatto con grazia e fermezza, cosa così importante in questi tempi polarizzati e arrabbiati”.
Escobar è stato presidente onorario dell’IFES e presidente dell’American Society of Missiology e ha vissuto in Perù, Argentina, Brasile, Canada, Stati Uniti e Spagna. In Canada è stato direttore generale dell’InterVarsity Christian Fellowship per quel Paese. Negli Stati Uniti ha insegnato al Calvin College dal 1983 al 1985 e all’Eastern Baptist Theological Seminary di Filadelfia come successore del suo vecchio amico Costas dal 1985 al 2005.
Nel 2001, la sezione missioni delle Chiese battiste americane USA chiese a Escobar di aiutare la denominazione locale in Spagna a sviluppare il suo programma di formazione teologica. Nei quattro anni successivi, Escobar si è diviso tra il Seminario Orientale e Valencia, dove viveva sua figlia, anch’essa di nome Lily.
Nel 2004 a Lily, sua moglie, è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer ed Escobar e sua figlia si sono presi cura di lei fino alla sua morte, avvenuta nel 2015. A Escobar sopravvivono la figlia Lily, il figlio Alejandro e tre nipoti.
La Primera Iglesia Evangélica Bautista de Valencia, dove Escobar frequentava il culto, ha ospitato il suo servizio funebre venerdì 2 maggio.
L’articolo E’ morto Samuel Escobar, che vedeva l’evangelismo e l’azione sociale come inseparabili proviene da DiRS GBU.
source https://dirs.gbu.it/e-morto-samuel-escobar-che-vedeva-levangelismo-e-lazione-sociale-come-inseparabili/
Giorno 5: Sfide dei gruppi: esclusione, pregiudizi, difficoltà a integrarsi
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Giorno 4: Condividere la fede in un contesto ostile
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Giorno 3: Ansia e Futuro
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Giorno 2: Difficoltà dei Rapporti Interpersonali e Isolamento tra gli Studenti Universitari
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E’ morto Samuel Escobar, che vedeva l’evangelismo e l’azione sociale come inseparabili
di Franco Iacomini
Articolo tradotto e pubblicato con il permesso di Christianity Today
Il teologo peruviano non aveva paura di discutere con i marxisti o di sfidare la Chiesa.
Samuel Escobar, pastore e teologo peruviano la cui passione per la giustizia sociale e l’evangelizzazione ha dato vita a un nuovo campo della missiologia, è morto il 29 aprile a Valencia, in Spagna. Aveva 90 anni.
Nel 1970, Escobar e i suoi colleghi teologi latinoamericani René Padilla, Orlando Costas e Pedro Arana coniarono il termine misión integral per indicare una visione teologica che vedeva l’evangelizzazione e la giustizia sociale come componenti inseparabili della vita cristiana. Essi consideravano questo principio come un modo per applicare la fede evangelica alle ingiustizie che erano davanti ai loro occhi, evidenziando che la cura dei poveri era al centro del messaggio di Gesù.
Al Congresso inaugurale di Losanna del 1974, Escobar ha tenuto un discorso plenario a più di 2.000 leader cristiani provenienti da 150 Paesi, sostenendo che la Chiesa ha la responsabilità di affrontare la povertà e le privazioni che colpiscono i suoi membri più vulnerabili.
“La via di Cristo è quella del servizio”, ha detto in un discorso che ha citato Matteo 20:27 (“Chi vuole essere il primo deve essere il vostro schiavo”) e Giovanni 20:21 (“Come il Padre ha mandato me, io mando voi”).
Escobar è nato ad Arequipa, una città del Perù meridionale, nel 1934. I suoi genitori divennero protestanti poco prima della sua nascita, nonostante il Paese fosse quasi interamente cattolico. Il padre di Escobar era un ufficiale di polizia e quando lui e la moglie si separarono, il figlio andò a vivere con lei. Escobar ha frequentato una scuola elementare gestita da missionari e in seguito è stato uno dei due soli protestanti tra i 500 studenti della sua scuola superiore pubblica di Arequipa.
Giovane che “divorava libri e scriveva poesie”, Escobar entrò nella scuola di arti e letteratura dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos di Lima nel 1951. Nello stesso anno, un missionario dei Sothern Baptist, M. David Oates, battezzò Escobar presso la Iglesia Bautista Ebenezer de Miraflores a Lima. In seguito, dal 1979 al 1984, Escobar ha servito come pastore della chiesa. Nel 1958 sposò Lily Artola, che aveva conosciuto in chiesa.
Dopo essersi laureato in pedagogia nel 1957, Escobar iniziò a lavorare come segretario itinerante per l’America Latina presso l’International Fellowship of Evangelical Students (IFES). Nell’ambito di questo lavoro, Escobar coinvolse i giovani che erano stati fortemente influenzati dall’ideologia di sinistra, che si era diffusa in America Latina a partire dalla Rivoluzione russa del 1917 e aveva acquisito nuova forza dopo la Rivoluzione cubana del 1959.
“Il marxismo era un’ideologia potente nei campus e l’estrema povertà, le dittature militari e l’oppressione dei poveri rendevano il suo messaggio rilevante”, ha scritto.
Escobar ha visitato spesso le università latinoamericane, tenendo conferenze sull’evangelizzazione e le missioni dando ampio spazio al dibattito.
“I marxisti venivano non solo per confutarmi, ma anche per sfruttare l’occasione per proclamare il loro messaggio”, ha raccontato. “Gli studenti evangelici erano sorpresi che fosse possibile discutere con i marxisti e presentare il Vangelo come una valida alternativa”.
Nel 1967, Escobar pubblicò Diálogo Entre Cristo y Marx (Dialogo tra Cristo e Marx), una raccolta di saggi che derivavano da queste conferenze. In occasione di una campagna evangelistica svoltasi nello stesso anno, gli organizzatori dell’evento distribuirono 10.000 copie ai partecipanti.
Nonostante la fame di dialogo, “nell’atmosfera evangelica in cui sono cresciuto in Perù negli anni 1950, un segno distintivo di un evangelico in buona fede era che non credeva o praticava il dialogo”, scriveva Escobar.
Ciononostante, Escobar “studiò duramente e si preparò per parlare con gli studenti marxisti in un modo che avesse senso per loro, con una preoccupazione che era sia sociale che evangelistica”, ha detto il teologo brasiliano Valdir Steuernagel, che incontrò Escobar mentre era studente in Argentina nel 1972.
“Impegnarsi in un dialogo con gli altri sul percorso che li ha portati a Cristo può essere un primo passo prezioso per capire come possiamo essere d’aiuto – e non d’intralcio – nel cammino di molti altri a cui Cristo vuole arrivare”, ha scritto Escobar nel suo libro Evangelizar Hoy (Evangelizzare oggi).
Mentre Escobar parlava e dialogava con gli studenti, il suo Paese era nel bel mezzo di un cambiamento significativo. Il Perù stava attraversando un periodo di disordini politici, con due colpi di Stato nel 1962 e nel 1968.
Il Paese era anche al centro di una significativa migrazione interna. Nel 1950, il 59% di tutti i peruviani viveva sulle montagne delle Ande (oggi la stessa quantità di popolazione vive sulla costa), su terreni in gran parte di proprietà di un piccolo numero di élite. Stanchi della povertà e dell’oppressione, molti contadini cominciarono a trasferirsi nelle città costiere, dove soffrivano nelle baraccopoli, subendo lo sfruttamento a cui avevano cercato di sfuggire.
Escobar e i suoi colleghi latinoamericani – Padilla, Costas e Arana – hanno sviluppato la misión integral, il loro modo di contestualizzare la fede evangelica di fronte alle ingiustizie che vedevano. (I quattro uomini hanno anche fondato la Fraternidad Teológica Latinoamericana, un’organizzazione che continua a promuovere la teologia latinoamericana contestualizzata). Le nuove convinzioni si rifacevano anche alla teologia della liberazione, che il sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez aveva sviluppato come risposta cattolica alle sofferenze che aveva osservato.
Nei loro discorsi a Losanna 1974, Padilla ed Escobar hanno presentato alla Chiesa globale la loro convinzione che evangelizzazione e azione sociale dovessero andare di pari passo. In risposta, molti leader di orientamento evangelico conservatore etichettarono la missione integrale come marxista o di sinistra. Harold Lindsell, uno dei fondatori del Fuller Theological Seminary, scrisse per Christianity Today che “Escobar sembrava dire che il socialismo è preferibile al capitalismo e che molti latinoamericani sposano il marxismo per la sua enfasi sulla giustizia”.
Escobar non ha mai abbracciato il marxismo. Ma la sua decisione di insegnare ai suoi studenti cristiani come combattere le idee marxiste con la Bibbia e la teologia ha dato fastidio anche i suoi colleghi dell’IFES, che non capivano perché fosse aperto al dialogo con questi gruppi.
Escobar si rese anche conto che la sua passione per le discussioni politiche non aveva successo con tutti e che l’ondata di marxismo tra gli studenti non sarebbe durata per sempre. Durante una conferenza in Messico nel 1973, Escobar ascoltò uno studente che diceva che la sua generazione aveva rifiutato di cambiare il mondo attraverso le formule marxiste e si stava invece rivolgendo agli allucinogeni. “Che cosa ha da dire Cristo su questo?”, chiese. Stupito, Escobar condivise la promessa di Gesù di una vita abbondante e gli spiegò la futilità dell’esperienza religiosa senza la fede in Cristo.
Escobar rimase in sintonia con il suo contesto locale, indipendentemente dalla sua posizione geografica. Si trasferì, in tarda età, in Spagna. Dopo aver osservato il declino della Chiesa cattolica e l’ascesa del postmodernismo, ha approvato quando un predicatore locale ha pubblicato un’edizione illustrata del Libro dell’Ecclesiaste come strumento evangelistico.
“Un cambiamento di metodologia non sarà sufficiente. È necessario un cambiamento di spirito che consiste nel recuperare le priorità della persona stessa di Gesù”, ha scritto nel 1999 in Tiempo de Misión: América Latina y la Misión Cristiana Hoy (Tempo di missione: l’America Latina e la missione cristiana oggi). I titoli di alcune sue opere comunicano la sua convinzione della costante necessità di un cambiamento, come il libro del 1995 Evangelizar Hoy (Evangelizzare oggi), l’articolo del 1982 “Qué Significa Ser Evangélico Hoy” (Cosa significa essere evangelici oggi) o quello del 2016 “Campi di missione in movimento“.
“Nel XX secolo la parola missionario in Perù era riservata ai cristiani britannici o americani dai capelli biondi e dagli occhi azzurri che avevano attraversato il mare per portare il Vangelo nella misteriosa terra degli Inca”, ha scritto nel 2003 in A Time for Mission: The Challenge for Global Christianity. “Oggi c’è un numero crescente di meticci peruviani – latinoamericani dagli occhi scuri, dalla pelle scura e di razza mista – inviati come missionari nei vasti altopiani e nelle giungle del Perù, così come in Europa, Africa e Asia”.
Escobar era sempre alla ricerca di “risposte alle realtà politiche, economiche e sociali del suo contesto”, ha detto Ruth Padilla DeBorst, teologa e figlia del caro amico di Escobar, René Padilla.
Tuttavia, le idee di Escobar sulla misión integral continuano a plasmare l’attuale lavoro del Movimento di Losanna e a suscitare discussioni.
“Ha dimostrato che la nostra fede non è una fede che si estranea, che si nasconde, che si rifiuta di parlare”, ha detto Steuernagel. “Al contrario, ha sfruttato ogni opportunità per condividere la sua testimonianza. E lo ha fatto con grazia e fermezza, cosa così importante in questi tempi polarizzati e arrabbiati”.
Escobar è stato presidente onorario dell’IFES e presidente dell’American Society of Missiology e ha vissuto in Perù, Argentina, Brasile, Canada, Stati Uniti e Spagna. In Canada è stato direttore generale dell’InterVarsity Christian Fellowship per quel Paese. Negli Stati Uniti ha insegnato al Calvin College dal 1983 al 1985 e all’Eastern Baptist Theological Seminary di Filadelfia come successore del suo vecchio amico Costas dal 1985 al 2005.
Nel 2001, la sezione missioni delle Chiese battiste americane USA chiese a Escobar di aiutare la denominazione locale in Spagna a sviluppare il suo programma di formazione teologica. Nei quattro anni successivi, Escobar si è diviso tra il Seminario Orientale e Valencia, dove viveva sua figlia, anch’essa di nome Lily.
Nel 2004 a Lily, sua moglie, è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer ed Escobar e sua figlia si sono presi cura di lei fino alla sua morte, avvenuta nel 2015. A Escobar sopravvivono la figlia Lily, il figlio Alejandro e tre nipoti.
La Primera Iglesia Evangélica Bautista de Valencia, dove Escobar frequentava il culto, ha ospitato il suo servizio funebre venerdì 2 maggio.
L’articolo E’ morto Samuel Escobar, che vedeva l’evangelismo e l’azione sociale come inseparabili proviene da DiRS GBU.
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Giorno 1: Identità e integrità
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Settimana di Preghiera 2025: Prega insieme a noi!
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Papa Francesco: bilancio provvisorio di un decennio
Nei social, nei blog, su riviste prestigiose, in tutti i media di una parte considerevole del pianeta è balzata la notizia della morte di Papa Francesco, avvenuta anche dopo una crisi di salute che lo aveva fiaccato nel fisico, ma sicuramente non nella mente.
Cosa può dire un evangelico a proposito? Può tentare di tracciare un bilancio, senza farsi prendere da falsi trionfalismi o da facili critiche ad un pontificato che ha delineato la vita della Chiesa cattolica per poco più di un decennio.
Per iniziare bisogna partire dall’inizio: Francesco era un vescovo argentino, dell’ordine della Compagnia di Gesù che ha cercato di stupire sin dalla scelta del suo nome e sicuramente è riuscito in questo. Essere argentino (il primo pontefice che veniva effettivamente dal Sud del mondo) significava tante cose: in primo luogo era parte di una Chiesa che era stata emergente ma, allo stesso tempo, per quanto concerne il Sud America sempre più in concorrenza con un evangelismo sempre più in espansione. La sua appartenenza nazionale gli aveva permesso di comprendere (molto più di altri pontefici) i problemi di ingiustizia, povertà e conflitti (sociali e politici) presenti nel mondo, soprattutto quello dell’emisfero Sud del pianeta che abitiamo. Lo stesso Bergoglio era figlio di migranti e non poteva assolutamente vedere che con grande disapprovazione tutte le politiche sovraniste che i moderni stati occidentali stavano applicando, marginalizzando sempre più coloro che avevano bisogno di aiuto rifugio.
Un’altra caratteristica era la profonda conoscenza del mondo evangelico. Proprio per questo, poco tempo dopo il suo insediamento, è stato il primo pontefice a fare visita ad una chiesa evangelica pentecostale a Caserta, guidata dal pastore Giovanni Traettino che tanto scalpore fece nel 2014 e che era frutto di un’amicizia personale ben raccontata recentemente nel libro intervista di Alessandro Iovino.
Francesco visiterà anche la Chiesa Valdese a Torino ma solo in un secondo momento e sarà in Svezia nel 2016 per la celebrazione del Cinquecentenario della Riforma. Bene fanno, quindi, coloro che ricordano che, nei rapporti ecumenici, Francesco è stato sostanzialmente più vicino alla Chiese Occidentali (quelle protestanti o evangeliche) piuttosto che a quelle ortodosse (cui si avvicinerà solo 2018 a Bari nella speranza anche di una risoluzione pacifica di conflitti soprattutto nel Medio Oriente) e che i suoi rapporti ecumenici sono stati più fatti di gesti simbolici (visite nelle Chiese sorelle) che di avvicinamenti dottrinali. Il suo aver vissuto per buona parte della sua vita lontano dalla Curia lo ha portato sicuramente a gesti importanti che andranno ricordati e valutati nella storia.
Dobbiamo poi ricordare che Francesco è stato il primo Papa proveniente dalla Compagnia di Gesù. Forse bisogna rammentare chi siano i Gesuiti: una Compagnia che, fondata da Ignazio di Loyola e da Francesco Saverio, serviva per far ritornare nella Chiesa gli eretici, per perfezionare l’istruzione dei chierici e dei laici e per evangelizzare i popoli lontani. Per fare questo la Compagnia di Gesù ha, nel corso dei secoli, usato una struttura teologica potente (ripresa dalla teologia medievale cattolica), ha incrementato la devozione popolare ed ha usato un linguaggio di “apertura” ma anche ambiguo e non sempre chiaro ed ha evangelizzato i popoli con tecniche originali e qualche volta di successo che prevedevano l’incontro inclusivo con le culture differenti sin dall’inizio del proprio agire nel mondo (i viaggi di in Cina di Matteo Ricci e le missione nel Guaranì sono esempi storici di tutto questo e lo è anche il fallimento della missione giapponese).
Tutto questo ha portato Francesco a continuare la sua missione, anche ricordando con attenzione quanto concepito dalla Compagnia di Gesù: guardare con attenzione al mondo contemporaneo, “aprirsi” ad esso, senza però assolutamente abbandonare l’essenza della dottrina cattolica e rimanendo fortemente attaccato ad alcuni aspetti tradizionali (la forte devozione mariana o del Sacro Cuore di Gesù fanno parte del recupero della tradizione che è sempre stata cara ai Gesuiti). Tutto questo ha portato Francesco a fare affermazioni talvolta contraddittorie, ma che, se qualche volta hanno potuto creare confusione, servivano come tecnica di avvicinamento a parte dei credenti (e non) che vedevano nella Chiesa un ostacolo ad alcune delle loro richieste.
Queste sono state le basi del suo Pontificato. Un Pontefice autorevole, in un tempo di crisi (anche della Chiesa Cattolica) che ha cercato di guidare la Chiesa da Papa. Francesco ha scritto poche encicliche (solo quattro) che non hanno apportato sostanziali cambiamenti dell’impalcatura dottrinale della Chiesa, anche se si sono interrogate ed hanno delineato un chiaro profilo del Pontefice, aperto verso l’altro, ma, allo stesso tempo custode geloso di alcune idee secolari della Chiesa. Basta esaminare l’ultima enciclica, la Dixit Nos, pubblicata nell’Ottobre 2024 per comprendere appieno il senso del Pontificato di Francesco. Ci si interroga sull’importanza del cuore e dei sentimenti nella vita comune e, allo stesso, si richiama attenzione alla venerazione delle immagini del cuore di Gesù che dovrebbe indirizzare l’umanità verso il meglio. Appare chiaro questo doppio richiamo ad un rinnovamento degli animi nel mondo contemporaneo, sulla base di una delle solide dottrine portate avanti dalla Compagnia di Gesù (la venerazione del Suo Cuore che lascia perplessi alcuni protestanti).
Allo stesso tempo il defunto Papa ha scritto più Motu Proprio di qualsiasi altro Pontefice in questo secolo. Questi scritti mostrano quindi una guida sicura ed assoluta della Chiesa, perché si tratta di iniziative che non prevedono la collegialità, sebbene Francesco spesso la richiamasse.
Il Pontefice era ben conscio di condurre e gestire una Chiesa universale e per questo ha sempre respinto qualsiasi tentativo di cristianesimo di tipo nazionalista e si è sempre prodigato a favore della pace, anche nella difficile situazione in cui ci troviamo oggi, con diversi conflitti aperti. Se le parole sull’Ucraina e su Gaza sono quelle che i media ricordano sempre con maggiore attenzione (e che non sempre hanno fatto vedere un Pontefice lucido nel gioco della geopolitica, ma pur sempre attaccato al valore fondamentale della pace per tutti i popoli), non va dimenticato che Francesco aveva ben presente anche gli altri conflitti che non sempre vengono ricordati dai nostri media. L’universalismo della Chiesa, ben rappresentata da un pontefice colto, ma proveniente veramente dal popolo, che aveva una chiara idea di come il messaggio di Cristo dovesse essere universale e non collegato ad alcuna fazione, era ben manifestato nel compito del Pontefice che è rimasto un fedele figlio della propria Chiesa, sia per l’alto concetto che aveva del suo compito di Vicario di Cristo, sia perché ha cercato di arginare le forze meno positive anche con un certa forza (si vedano i suoi provvedimenti restrittivi nella reintroduzione del Latino negli uffici sacri).
Come ogni Pontefice (più di Benedetto XVI, con la stessa forza, ma in maniera diametralmente opposta rispetto Giovanni Paolo II) e come ogni persona di spessore dell’universo cattolico, i gesti molto spesso hanno contato più delle parole e questo probabilmente è un qualcosa che per un evangelico (così collegato al ministero della Parola) rimane sempre difficile da comprendere e probabilmente ha portato anche a grandi equivoci da parte di noi evangelici.
A conclusione di questo testo ci sentiamo di dire che il Pontificato di Francesco è stato assolutamente significativo con moltissimi gesti distensivi e di apertura, ma che, allo stesso tempo, ha ribadito la struttura gerarchica e forte dell’universo cattolico, con uno sguardo sincero verso i “deboli” del mondo e verso i problemi attuali che affrontiamo. Guardare a questo decennio come periodo su cui cui riflettere con attenzione al Cattolicesimo per coglierne gli aspetti di apertura e di comunanza di intenti continuando a ribadire le differenze dei due universi (quello evangelico e quello cattolico) è quello che a nostro parere rimane e che deve condurre la valutazione di quello che è stato un importante Pontefice, assolutamente sincero nella sua fede e ben conscio di quello che era.
Valerio Bernardi – DIRS GBU
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source https://dirs.gbu.it/papa-francesco-bilancio-provvisorio-di-un-decennio/
Passaggio del Testimone: l’intervista a Francesco Schiano Lomoriello, nuovo Segretario Generale del GBU
Francesco si racconta in questa intervista: la decisione di proporsi come Segretario Generale (SG), le emozioni vissute nell’ultimo anno e i suoi desideri sul futuro del GBU.
Francesco, Il Comitato Direttivo ti ha scelto come nuovo SG. Come hai accolto questa notizia? Che sensazioni hai provato?
È una notizia che mi dà tanti e nuovi stimoli. Sono Staff GBU a Napoli da oltre dieci anni, e ho avuto l’opportunità di servire il Signore sia nel gruppo locale sia in diversi progetti a livello nazionale. Dieci anni molto ricchi e formativi, ma di certo questo è un grande cambiamento che porta con sé tante responsabilità e richiede tanto tempo da dedicare.
Sono stato anche sorpreso e incoraggiato dai tantissimi messaggi che ho ricevuto dopo che la notizia è stata resa pubblica. Mi hanno scritto persone più o meno vicine al mondo GBU, ma sinceramente non mi aspettavo tanto affetto. Pensavo, infatti, che la notizia sarebbe rimasta più interna al GBU, e invece è stato bello sapere che ci sono tante persone che pregano e pregheranno per me, per questo nuovo impegno.
Qual è stata la riflessione che ti ha portato a candidarti come nuovo SG?
La verità è che tra i membri dello Staff più anziani ci sono anche io!
Ero e sono consapevole che non avrei affrontato troppe difficoltà per quanto riguarda l’esperienza e la conoscenza del GBU. Poi c’è stata una ragione più personale, riguardo alla chiamata che sento nel GBU e al percorso che stiamo facendo come famiglia.
Inoltre, dopo più di dieci anni nel GBU sento sempre di più la distanza dagli studenti, nel senso che diventa sempre più complicato partecipare agli studi biblici in facoltà e andare a evangelizzare gli universitari insieme ai ragazzi del GBU. Se fino a pochi anni fa potevo illudermi di sembrare uno studente (molto) fuori corso, oggi che sto per compiere quarant’anni… (ride, ndr).
Desidero comunque essere vicino agli studenti come SG. Ma sarà in modo diverso e più in armonia con il mio nuovo ruolo. È uno dei miei obiettivi nei prossimi anni.
Quindi dovrai lasciare il tuo ruolo di Staff GBU a Napoli?
Sì, ma grazie a Dio a Napoli ci sarà Rebecca Iacone, che si è laureata pochi anni fa, ha terminato il suo percorso da Staff in Formazione e ora vuole rimanere a servire il gruppo GBU Napoli. Questa è una di quelle circostanze favorevoli che il Signore ha preparato e che mi hanno incoraggiato a candidarmi come SG.
Oltre a questo, per essere più vicini alla mia famiglia e alla chiesa locale che frequentiamo, tra non molto ci trasferiremo a Bacoli, allontanandoci un po’ da Napoli e dagli studenti. Anche questo aspetto familiare è più compatibile con un ruolo nazionale rispetto a un impegno con un gruppo GBU locale.
Ottimo allora, potrai dedicarti serenamente al tuo ruolo come SG. Quali sono i tuoi sogni futuri per il GBU?
Ho una serie di desideri e di aspettative per il GBU. Sono maturati in me in modo naturale in questi anni, e prego che possano ispirare e motivare il mio impegno in questo nuovo ruolo, e anche l’impegno di tutto lo Staff GBU.
Alcune di questi desideri sono in piena sintonia con la storia del GBU, e sono da preservare. Altre sono cose su cui dobbiamo lavorare ancora o che dobbiamo esplorare. Vorrei sicuramente che gli studenti mantenessero sempre un ruolo centrale nel GBU e nella condivisione del vangelo nell’università, insieme alla centralità della Parola di Dio in tutto quello che facciamo.
Vorrei anche che la missione rafforzasse la sua dimensione interdenominazionale, riuscendo a interagire con diverse realtà ecclesiali in Italia, per raggiungere quelle chiese che ad oggi non conoscono il GBU. Spero e prego di poter vedere questo risultato nei prossimi anni. Ho appreso molto sulle relazioni con le chiese attraverso il mio coinvolgimento con il “NoiFestival” (un’iniziativa della Billy Graham Ass., ndr). È stata un’esperienza davvero formativa e mi impegnerò per raggiungere un buon risultato nel prossimo futuro.
Questa interazione con le chiese è fondamentale per diversi aspetti, tra cui la possibilità di avere più studenti impegnati nel Condividere Gesù nelle università italiane.
Una delle cose in cui sei stato coinvolto da Staff GBU è stata “Interagire con l’università”. Pensi che il GBU abbia dei margini di crescita sotto questo aspetto?
Sì, mi piacerebbe molto riuscire a dare un contributo affinché il GBU sia più attivo e capace a rispondere alle domande e ai dubbi degli studenti universitari. Mi piacerebbe che gli studenti fossero stimolati e sfidati in questo, ma vorrei coinvolgere pure professori e professionisti, anche internazionali, che possano affrontare temi specifici e rilevanti nell’ambiente universitario.
Ci sono poi tante idee e desideri, ma vedremo strada facendo. Per il momento sto vivendo a pieno questo periodo di transizione, nel quale sono il “SG eletto”, ma non in carica (ride, ndr). Saranno mesi utili per il passaggio di testimone e potrò interagire per bene con Johan che sarà di grande aiuto in questa fase.
A proposito di Johan, hai letto i suoi consigli per te nella sua intervista? Cosa ne pensi?
Sì, ringrazio Johan per il suo affetto, la sua stima, ma soprattutto per il suo esempio. Ha fatto un grande lavoro per dare al GBU una struttura che oggi permette a tutti noi di muoverci con più disinvoltura e sarà così anche per me nel ruolo di SG.
Di certo voglio mantenere e anche rafforzare la struttura che Johan ha creato, in continuità con il suo lavoro e in armonia con tutti i membri dello Staff GBU.
Uno dei motivi per cui ho accettato l’incarico è stata proprio la consapevolezza di avere una squadra forte, formata da persone piene di capacità e doni spirituali. Sarebbe impossibile fare il mio lavoro senza questo team talentuoso. La mia intenzione, ovviamente, è quella di accogliere il consiglio di Johan e di fare affidamento su tutti i membri della famiglia dello Staff GBU, nonché sugli altri membri della fellowship.
Di Domenico Campo, Staff GBU Sicilia
Passaggio del testimone: l’intervista a Johan Soderkvist, Segretario Generale uscente del GBU
Johan (a destra nella foto, insieme al Comitato Direttivo del GBU) si racconta in questa intervista. La sua storia come Segretario Generale (SG), l’evoluzione del GBU, il suo futuro e i consigli per Francesco (a sinistra nella foto), il nuovo Segretario Generale.
Johan, quest’anno lascerai l’incarico di Segretario Generale. Dopo quanti anni?
Sono diventato SG nel 2009/2010, quindi ufficialmente sono 15 anni. In realtà, però, già dal 2005 ero di fatto attivo in questo ruolo, perché ero Presidente dell’Associazione GBU e mi occupavo di alcuni aspetti propri del SG, figura che all’epoca non esisteva. Quindi, sono quindici o venti anni!
Possiamo definire questo un momento di grande cambiamento nella tua vita e nella storia del GBU. Come sei arrivato a prendere questa decisione? Aspetta… non è che ti hanno cacciato?
Sì, finalmente posso dirlo ufficialmente: mi hanno fatto fuori (ride, ndr). In realtà, il mandato di un Segretario Generale, secondo lo statuto, è di cinque anni rinnovabili. Dopo questi cinque anni, si valuta se continuare o meno insieme al Comitato Direttivo, cioè le persone che, tra le altre cose che fanno per il bene del GBU, hanno il compito di affidare il mandato di SG.
Con il Comitato, abbiamo scelto di proseguire per due volte. Dopo i primi cinque anni, sentivo di poter dare ancora molto ed è stato semplice decidere di continuare, insieme al Comitato. Cinque anni fa, invece, era un periodo un po’ particolare, soprattutto dal punto di vista amministrativo e dello sviluppo del GBU, quindi continuare è stata anche una necessità.
Ho amato svolgere il ruolo di Segretario Generale del GBU e ho avuto molte soddisfazioni e benedizioni da Dio in questi venti anni di lavoro di squadra. Oggi, il team dello Staff è ricco di persone capaci e ho sentito che fosse il momento giusto per lasciare spazio a qualcun altro, che potesse esercitare i propri doni in questo ruolo.
Cosa farai ora? Rimarrai coinvolto nel GBU?
Tre anni fa, IFES (il nome del GBU a livello internazionale, ndr) mi ha chiesto se volevo impegnarmi nel loro programma di Governance, che consiste nell’offrire formazione ai Comitati Direttivi dei gruppi GBU nei vari paesi del mondo. Era una proposta in linea con i miei doni e le mie passioni, perché mi occuperò di leadership e struttura. Quindi, ho accettato la proposta, consapevole che non fosse compatibile con il ruolo di Segretario Generale.
Sembra che la tempistica per questo nuovo incarico sia stata perfetta.
Sì, grazie a Dio. Una prospettiva di servizio in IFES, in un momento in cui iniziavo davvero a pensare di lasciare il ruolo di SG a qualcun altro, con piena fiducia nel Signore, nel Comitato che avrebbe scelto il nuovo SG e nella squadra degli Staff. La consapevolezza che stava arrivando il momento di lasciare il ruolo, dopo circa 20 anni, è coinciso quindi con l’arrivo di questa proposta di essere più impegnato in questo programma IFES, in cui ero già coinvolto dal 2019 come Trainer, per aiutare i vari Comitati Direttivi dei gruppi GBU internazionali.
Adesso una domanda per la quale, per rispondere al meglio, potresti dover scrivere un libro (perché non farlo?!)… Pensando a questi vent’anni, com’era il GBU quando hai iniziato come SG e com’è adesso?
Questo è probabilmente l’aspetto più incoraggiante e benedetto di questi anni. Siamo partiti da un GBU molto più piccolo, per quanto riguarda il numero di gruppi nazionali, di studenti coinvolti e di membri dello Staff in Italia, ma anche per quanto concerne donazioni e finanze in generale. Guardando ai numeri, è un GBU completamente diverso.
Guardando invece a ciò che il GBU fa e alla sua missione, le radici sono le stesse. La passione per il vangelo è la stessa, così come la centralità dello studente e, di conseguenza, la visione di condividere Gesù da studente a studente. Tutte queste cose sono rimaste pressoché invariate.
In questi anni, abbiamo aggiunto molta struttura intorno a queste fondamenta. Ad esempio, oggi abbiamo un percorso per formare i Coordinatori, lo stesso per i membri dello Staff in Formazione. Crescendo, era necessario aggiungere struttura, perché il rischio sarebbe stato una crescita isolata e distaccata, mentre così c’è una crescita organizzata e omogenea. Oggi, siamo sempre un movimento studentesco fondato sugli studenti, ma per certi versi siamo un’organizzazione più strutturata e collegata, più capace di relazionarsi con diverse chiese provenienti da diversi contesti, con più studenti coinvolti e più capace di riuscire a mettere insieme una squadra di membri dello Staff più ricca, per essere presenti in più città universitarie.
Cosa succede ora? Rimarrai coinvolto nel GBU? Quale sarà eventualmente il tuo ruolo?
Il mio lavoro in IFES non occuperà tutto il mio tempo. Certamente, rimarrò a disposizione del GBU e del nuovo SG. Ci sarà un periodo di transizione tra me e Francesco, per dare a lui e a tutto lo Staff il tempo di abituarsi al nuovo assetto. Dopodiché, sarò a disposizione del GBU. Ci sono aree in cui continuerò a servire, utilizzando alcuni miei doni specifici, senza conflitti di ruolo con Francesco, considerando anche i suoi doni, molteplici e diversi dai miei.
Francesco sarà il nuovo Segretario Generale del GBU e sicuramente apprezzerà qualche dritta da parte tua! Che consigli vorresti dargli?
In questi mesi, ci ho pensato diverse volte, perché ho analizzato le cose buone e quelle meno buone del mio percorso. Non vorrei fare un elenco a Francesco, ma piuttosto condividere alcune riflessioni.
Credo che Francesco dovrà sentirsi libero di usare i molti doni che Dio gli ha dato e le sue passioni, e guidare il GBU attraverso di essi, verso gli obiettivi che avremo davanti. Nel farlo, spero che vorrà preservare la struttura che siamo riusciti a realizzare in questi anni, o comunque migliorarla o adattarla ai tempi, in modo da rimanere stabili su un fondamento che è necessario, e che permetta a lui di esercitare liberamente i suoi doni e aiutare il GBU a “cambiare” nelle cose che sente che devono essere cambiate, create o implementate. Sono sicuro che saprà trovare il suo spazio e il suo modo personale per svolgere l’incarico di Segretario Generale.
Spero che continui a fare un lavoro collaborativo, dove ogni elemento del GBU si senta parte della famiglia. Questo diventerà sempre più complicato man mano che cresceremo, lo abbiamo visto negli ultimi dieci anni; allo stesso modo, ci sono diversi modi per coinvolgere tutti, soprattutto per quegli aspetti strategici che riguardano il lavoro a lungo termine. Sarà importante che questo venga mantenuto.
Sono certo che il Comitato ha fatto un’ottima scelta, che Francesco saprà donare cose buone e anche diverse rispetto a me e sono sicuro che il Signore continuerà a benedire il GBU e a guidare tutti noi per il lavoro nella condivisione del vangelo nelle università.
di Domenico Campo, Staff GBU Sicilia