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Il santuario di Debre Libanos nel 1934

Quando in una Nazione si cambia Governo dopo diversi anni, quest’ultimo deve riprendere e intrecciare rapporti diplomatici con le altre Nazioni cercando di essere attento a quanto si dice, oltre che a quanto si fa. L’Italia, in questo momento è alle prese con diverse crisi internazionali, da quella del conflitto russo-ucraino a quelle rinvenienti dal continente africano, anche dei Paesi che, nella prima metà del XX secolo erano nostre colonie. 

E’ giusto che il Governo allacci e riallacci rapporti con questi Paesi ed è quello che ha cercato di fare l’attuale Premier con la sua visita in alcuni Paesi africani qualche giorno fa. Quando si va in questi Paesi non bisogna mai dimenticarsi di quello che è accaduto e di come, come tutte le altre nazioni, e forse anche più di esse, l’esercito coloniale italiano e i governi precedenti la Seconda Guerra Mondiale siano stati protagonisti di grandi atrocità e la nostra Nazione dovrebbe provare vergogna e chiedere scusa per tutto quello che è successo. 

Ad una domanda fatta al premier se fosse il caso di chiedere scusa per le atrocità commesse, la risposta è stata piccata e si è quasi voluto ricordare che un tale atteggiamento appartiene più ad un colore politico che ad un’intera Nazione. Va detto che, precedentemente due nostri Presidenti della Repubblica, Scalfaro e Mattarella, avevano riconosciuto che quanto successo nel passato va assolutamente condannato e che l’unico atteggiamento che uno Stato dovrebbe avere è quello di chiedere scusa.

Chiaramente per comprendere gli avvenimenti passati è giusto guardare alla storia ed anche a certe narrazioni di essa che sono passate nel nostro Paese. Dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, l’Italia perse tutte le sue colonie e, dato anche il breve tempo in cui aveva avuto questi territori al di fuori del nostro confine, per diversi decenni non si è riflettuto in maniera critica su quanto accaduto, su come i nostri connazionali si siano macchiati di crimini atroci, dovuti anche al fatto che si ritenevano i territori conquistati abitati da persone culturalmente e razzialmente inferiori. 

E’ passato, per diverso tempo, la “leggenda” che gli italiani, nei loro possedimenti coloniali, si fossero comportati bene, anzi che avessero portato la civiltà, costruendo “le strade” e comportandosi in maniera bonaria, perché gli italiani erano dipinti come “brava gente”, rispetto alla durezza imposta nei loro territorio dai britannici e dai francesi

Questa falsa narrazione (ancora presente oggi) è stata messa in discussione solo a partire dagli anni 1990, grazie anche ad un’attenta ricerca documentaria che ha fatto scoprire a diversi storici cosa fosse accaduto durante il periodo di occupazione coloniale da parte degli italiani. 

Uno dei primi ad occuparsi della dominazione coloniale italiana è stato Angelo del Boca. Del Boca, attraverso i suoi attenti studi delle fonti dell’epoca, ha dimostrato che la brutalità era presente già con i governi liberali che avevano iniziato la conquista dei territori a partire dalla fine del XIX secolo ed aveva raggiunto il suo apice nella campagna per la conquista dell’Etiopia, fortemente voluta da Mussolini. In quella cruenta campagna contro uno Stato che aveva mantenuto la sua indipendenza sin dall’antichità e che era per giunto abitato da una popolazione di antica fede cristiana, l’esercito italiano, supportato dalle camicie nere, non si fece scrupoli di usare le armi chimiche (proibite dalla Società delle Nazioni dopo il primo conflitto mondiale) e di approvare leggi razziali che precedevano quelle del 1938 contro gli Ebrei. La sintesi dei suoi studi si trova oggi nel testo Italiana brava gente, dove lo storico torinese dimostra come anche gli italiani furono malvagi e cruenti come tutte le popolazioni occidentali. 

Se qualcuno pensa che la missione italiana sia stata quella di importare la civiltà e la religione cristiana, dovrebbe informarsi e iniziare a sapere che la prima grande strage di credenti cristiani (di religione copta) fu fatta proprio dagli Italiani. In un clima come quello voluto dal Governo Fascista, che non aveva simpatie per le minoranze religiose e che era sceso a compromesso con la Chiesa Cattolica per cercare di evitare opposizione da essa,  i cristiani copti dell’Etiopia che continuavano a parteggiare per il Negus in esilio, erano di ostacolo ai propri piani e mostravano una resistenza che non si poteva sopportare. Per questo motivo Graziani nel maggio 1937 ordinò quello che è stato il più grande massacro di cristiani della storia del XX secolo.

Il governatore di Etiopia decise di far uccidere quasi tutti i monaci ed i pellegrini che si recavano a Debre Libanos, uno dei principali santuari della religione copta etiope. Ci furono più di 2000 vittime che non stavano opponendo resistenza e non erano in battaglia. La vicenda, “riscoperta” da pochi anni, è stata magistralmente ricostruita da Paolo Borruso nel suo libro Debre Libanos 1937. 

Per chi voglia una sintesi di quanto accaduto nella dominazione coloniale il testo da leggere è quello di Francesco Filippi Noi gli abbiamo fatto le strade, pubblicato un paio di anni fa.

L’A. smonta questa idea ricordando che l’imperialismo italiano è stato simile, in tutto e per tutto, a quello delle altre nazioni. con la differenza che, al contrario di quanto è avvenuto in Francia ed in Gran Bretagna, non abbiamo riflettuto in maniera critica sul nostro passato e, ancora oggi, non riusciamo a comprendere la portata di quanto accaduto durante il nostro periodo coloniale.

Interessante la ricostruzione di come sia iniziato l’imperialismo italiano e di che immagine abbia voluto dare di sé. Basterebbe ricordare l’idea di Pascoli sulla grande proletaria che si muove per comprenderlo: i governi italiani hanno sempre presentato l’occupazione coloniale come un’impresa fatta a beneficio delle classi meno abbienti che avrebbero potuto ricevere “nuove terre” dove formare e proprie fortune. L’idea di formare colonie di popolamento si è sempre infranta con la realtà dei fatti: le prime colonie italiane (Eritrea, Somalia e Libia) erano territori difficili, dove l’insediamento è stato o puramente commerciale o militare, ma dove gli “italiani” non hanno realmente trovato quello che gli era stato promesso.

Anche le motivazioni ulteriori delle occupazioni da parte dell’esercito italiano risultano essere pretestuose: si vanno ad occupare terre che sono “vuote” (come se gli abitanti del territorio fossero “non umani”), si por

ta la modernità in posti dove vigono ancora usanze medievali. Queste idee, secondo Filippi, continuano ancora oggi a dominare la mentalità comune quando si parla di questa parte della nostra storia, cosa che viene fatta sempre in maniera piuttosto superficiale.

Il riguardo per le popolazioni conquistate sono date dalle immagini da cui prende il titolo uno dei paragrafi del libro che narra dei tratti bestiali che venivano dati agli indigeni: selvaggi con l’“anello al naso” e con “la sveglia sul collo”. Manca del tutto, quindi, un qualsiasi sguardo antropologico, neanche quello di un’antropologia evoluzionista che cerchi di fare una distinzione tra le popolazioni. .

Il volume si conclude con un capitolo dedicato a come è stata percepita dagli italiani il possesso di colonie dopo averle perse. L’A. si sofferma sul fatto che l’Italia non è stata capace di una reale ricostruzione della memoria coloniale ed ha continuato a cercare di creare una sorta di diversità rispetto agli altri Paesi o a dimenticare cosa fosse realmente successo. Le stragi, il razzismo (che va ricordato fu prima applicato in Italia alle popolazioni coloniali) sono scarsamente ricordati dalla nostra storia e anche dalla nostra antropologia. 

Rispetto a questo quadro, confermato da diversi storici oggi e documentato dalle accurate ricerche fatte (non va dimenticato anche Nicola Labanca che ha dedicato importanti saggi alla storia delle colonie italiane), che atteggiamento dovremmo chiedere come evangelici rispetto a quanto accaduto nel passato?

Non dimentichiamoci che Cristo è venuto per tutti ed il nostro compito è quello di annunciare il Vangelo a tutto il mondo, perché per Dio non vi è alcuna distinzione tra gli uomini. Proprio per questo motivo volevo concludere con alcune parole dell’Impegno di Città del Capo, voluto dal Movimento di Losanna e che, in una prospettiva missiologica che guarda alla storia afferma: “Riconosciamo con dolore e con vergogna la complicità dei cristiani in alcuni dei più devastanti scenari di violenza e di oppressione etniche e il deplorevole silenzio di un’ampia parte della Chiesa quando si sviluppano tali conflitti. Questi scenari includono la storia e l’eredità del razzismo e della schiavitù della gente di colore, l’Olocausto contro gli ebrei, l’apartheid, la «pulizia etnica», la violenza settaria fra cristiani, la decimazione delle popolazioni indigene, la violenza interreligiosa, etnica e politica, la sofferenza dei palestinesi, l’oppressione di casta e il genocidio tribale. I cristiani, che con la loro azione o con la loro passività contribuiscono alla frammentazione del mondo, minano seriamente la nostra testimonianza al vangelo della pace”.  

Anche il nostro Paese ha partecipato a tutto questo e come Chiesa non possiamo tacere e dobbiamo provare vergogna e dolore. 

                                                                                                                                                    Valerio Bernardi – DIRS GBU

 

L’articolo Riconoscere le proprie colpe come Nazione e come credenti proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/riconoscere-le-proprie-colpe-come-nazione-e-come-credenti/

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Pubblichiamo volentieri questo contributo di Daniele Mangiola su Assasination Classroom, un manga di successo soprattutto tra i più piccoli. Si tratta di un aspetto culturale che sempre più sta affascinando il mondo dei più giovani e le osservazioni qui fatte ci paiono di valore. Buona lettura!

V.B.

Assassination Classroom.

Sogni d’oro, mamma e papà.

Dell’etica, la vita e la scuola che gli anime raccontano di notte ai bambini

 

Capitolo primo

Se, contro ogni evidenza, Dio permetterà all’umanità di abitare questo o qualche altro pianeta tra cent’anni, sarà interessante vedere come si racconterà il tempo nostro.

Il nostro modo di maneggiare l’etica, per dirne una. Ci siamo tanto affaticati, affaccendati a decostruire, smantellare il concetto stesso di fondamento morale, e abbiamo anche creduto di avercela fatta. E ora ci barcameniamo tra il drammatico e il comico, tra un farsesco meditativo e compunto e un tragico giocoso e spensierato. Ma questi sono sproloqui inutili e pomposi.

Per tornare alle piccole cose, c’è l’universo dei manga e degli anime, che se qualcuno lo avesse giudicato negli scorsi decenni trionfante, dovrebbe trovare un vocabolo adatto a descriverne il successo e la diffusione attuali, ancora maggiori di prima.

Assassination Classroom nasce come manga dalla matita del fumettista giapponese Yusei Matsui attorno al 2012, poi, come è la sorte dei fumetti di successo, diventa un anime, una serie televisiva nel 2015, dal 2022 finalmente doppiata e trasmessa per il pubblico italiano.

La trama racconta di un essere mostruoso che un bel giorno fa esplodere la Luna distruggendo il 70% della sua struttura. Tutti i tentativi degli eserciti terrestri di sconfiggerlo e abbatterlo si rivelano inutili. Il mostro chiede di poter essere regolarmente assunto come insegnante della classe 3a della sezione E di una piccola scuola media di provincia, in Giappone, ovviamente. Il patto che propone ai governi della Terra è semplice: durante l’anno scolastico egli stesso addestrerà i suoi studenti ad ucciderlo. Se ci riusciranno, bene, altrimenti, alla fine dell’anno scolastico, egli distruggerà il pianeta Terra così come ha già fatto con la Luna.

Tutto questo, come è giusto che sia, è oggetto di trattative governative segretissime, soltanto i ragazzini della 3E sono a conoscenza del progetto.

Il fatto è che questa mostruosa specie di polpo indistruttibile e dalla velocità supersonica, a cui gli stessi studenti affibbiano il nome di Korosensei, si rivela un insegnante meraviglioso: disponibile oltre ogni immaginazione, empatico, efficacissimo nel valorizzare i talenti individuali, motivatore impareggiabile, simpatico, sempre sorridente oltreché, ça va sans dire, preparatissimo. E dunque tutti, spettatori compresi, si innamorano da subito di questo pericolosissimo essere.

E come si uccide con rispetto qualcuno che si ama e si ammira? Primo paradosso etico.

Il secondo paradosso è dato dal fatto che, come ci si potrebbe attendere se un giorno un tale mostro venisse ad insegnare in una scuola media delle nostre, i servizi segreti dei governi mondiali tentano di eliminarlo, inviando superprofessionisti dell’assassinio. L’obiettivo è salvare la Terra, l’umanità. Lodevolissimo. Eppure tutti questi spietati cecchini appaiono agli studenti, e a tutti noi spettatori che divoriamo le varie puntate, come dei biechi e malvagi assassini. E tutti gioiscono ogni volta che Korosensei neutralizza i vari tentativi di eliminarlo.

La prima stagione della serie gioca magistralmente su questo paradossale piano etico, smantellando dal di dentro ogni certezza morale residua del dodicenne che passa notti insonni a seguire rapito le puntate sullo smartphone: i genitori di là dormono più o meno tranquilli, sta solo guardando dei cartoni animati.

La seconda stagione lentamente scivola verso un contesto etico più convenzionale, a dimostrazione del fatto che, per quanto sia bravo in chiacchiere, l’essere umano non abbia saputo trovare, alla fine, un’alternativa veramente coerente a quella della morale tradizionale, in cui il bene e il male sono quello che sono, e il bene si identifica in qualche modo con cose vecchie e trite quali l’amore, la giustizia, la misericordia; che gira e rigira, non si sia trovata una narrazione veramente alternativa a quella che già avevamo.

 

Capitolo secondo

Dicevamo, dunque, che Korosensei è un insegnante meraviglioso.

La sezione E sta per “End”, la sezione in cui vengono relegati i falliti, gli incapaci, gli scarti del lavorìo di selezione quotidiana della scuola. Questo manipolo di rifiuti umani il polpo giallo alto due metri sceglie come propri allievi e questi gradatamente crescono in autostima e talenti fino a competere con gli studenti più capaci dell’istituto.

E mentre Korosensei rivela tutte le qualità che un insegnante dovrebbe manifestare, la scuola in quanto istituzione mostra tutti i suoi lati oscuri e fallimentari.

Korosensei non coltiva né promuove la propria autorità personale, il rispetto apriori, il rendimento tout court, non pratica una pedagogia sanzionatoria o correttiva, ma, nella migliore arte maieutica, permette a ciascuno di scoprire il proprio tesoro interiore.

E, mentre lo fa, l’istituzione scolastica lo ostacola, perché l’elevazione dei reietti mette in crisi il sistema classista su cui la scuola stessa si fonda: selezionare le future leadership mandando avanti i più adatti al comando, cioè anche i più allineati, è il patto di cobelligeranza tra scuola e società. Questo mostro pretenderebbe far saltare il banco prima ancora che la Terra intera. Lo scontro tra due modi di educare è esplicitamente rappresentato, senza possibilità di fraintendimenti.

Il ragazzino dodicenne che passa notti insonni guardando le puntate della serie assiste alla lotta tra pedagogia maieutica e pedagogia nera. Il giorno dopo, al suono della campanella, si aggira per corridoi e aule della propria scuola media e osserva sfilare davanti a sé i funzionari del sistema scolastico che pretendono di insegnargli e educarlo. Da quale parte li classifica? Come li giudica, a partire dalle nuove conoscenze che durante la notte si è fatto? Come vede il luogo nel quale trascorre la trentina di ore settimanali che gli sono state imposte, alla luce di quello che la notte gli sta raccontando?

Il fatto è che, giusta o sbagliata, eroica o cialtrona, la scuola non ha ancora realizzato quanto profondi e significativi stiano diventando le esperienze, le informazioni, gli input extrascolastici che raggiungono il bambino di questo scorcio del XXI secolo. Si illude e pretende, la scuola, di essere ancora, come in passato, usando i modi del passato, formatrice determinante della percezione del mondo del bambino, tramite fondamentale del suo accesso alla conoscenza o alla cultura.

È convinta ancora della sacralità del lavoro quotidiano, anche domestico. Non ha alcun sospetto che per fare una parafrasi di un componimento qualsiasi sia sufficiente chiederla a ChatGPT e ottenerla in una manciata di secondi. Con tutto lo sforzo di onestà del povero studente, di fronte alla prospettiva di quattro o cinque ore pomeridiane di studio matto e disperatissimo, come non cedere ad una tale tentazione? E qualche insegnante magari se ne accorge e pensa di ovviare aumentando la vigilanza e la coercizione pur di ottenere quanto tradizionalmente si otteneva. Come provare a tenere fuori di casa le zanzare installando un’inferriata…

Senza esagerare con le lodi, Assassination Classrom è un prodotto che riesce nella propria pretesa di offrirsi come trattato di pedagogia e di etica, rispettando fino in fondo lo stile fatto di leggerezza e dinamismo della tradizione anime. Adattissimo alla visione per adulti, come accade per molti dei lavori di animazione giapponese, per i quali, inspiegabilmente, si continua a perseverare col vecchio fraintendimento, che si tratti soltanto di roba per bambini.

 

Daniele Mangiola

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Di Valentina Ferraris, Staff in Formazione 

Siamo in Palestina, all’incirca nell’anno 30 d.C., il venerdì prima della celebrazione della Pasqua. Nella città di Gerusalemme, Gesù, un semplice ebreo di Nazaret, che dichiara di essere il Salvatore tanto atteso dal popolo ebraico, viene condannato a morte e crocifisso. Improvvisamente a mezzogiorno scendono le tenebre su tutto il paese e si avverte un forte terremoto, che squarcia la cortina del tempio. Dopo ore di agonia Gesù è morto. Il suo corpo viene sepolto nella tomba di famiglia di Giuseppe di Arimatea, un uomo giusto che attendeva il Regno di Dio, e che decide di onorare Gesù con una decorosa sepoltura. La vita di un grande uomo, che ha sempre pensato ai più deboli ed è venuto sulla terra per far conoscere Dio Padre, è stata spezzata. Tutte le speranze che i suoi seguaci hanno riposto in Lui sono in un attimo svanite: chi li salverà ora che il Messia è morto? 

Sconforto e nuove certezze

Due giorni dopo, in questo clima di stupore, confusione e rassegnazione, due dei discepoli di Gesù si recano in cammino a Emmaus, una cittadina nei pressi di Gerusalemme. Il Vangelo di Luca (Luca 24: 13-32) ci racconta che i due stanno discutendo, quando a un certo punto si avvicina loro uno sconosciuto, che li accompagna nel tragitto. Vuole sapere di che cosa stiano parlando i due uomini, i quali gli rispondono con queste parole:

«Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni? (…) Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose»

Luca 24: 18-21
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