Gianni Vattimo (1936-2023). Anche lui un ateo devoto?

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(Giacomo Carlo Di Gaetano)

Ascrivere il filosofo torinese scomparso in questi giorni alla categoria di inizio di terzo millennio, definita dall’ossimoro “atei devoti” è operazione che va incontro e deve superare due difficoltà.

La prima consiste nel fatto che proprio il filosofo ha rifiutato per sé l’etichetta di “ateo” («lasciate alle spalle le pretese di oggettività della metafisica, oggi nessuno dovrebbe poter dire che “Dio non esiste”», Credere di credere, p. 66), creando così un interessante spazio interpretativo a cui abbiamo richiamato spesso il pensiero evangelico. Il pensiero evangelico, infatti, si è spesso fatto distrarre dall’ateismo angloamericano segnato dal Perché non sono cristiano (1927) di Bertrand Russell e dalle sue propaggini che giungono fino ai pensatori del new atheism (Dawkins, etc) e si è dedicato quasi esclusivamente alla risposta evangelicals a questo ateismo (tutta l’apologetica degli ultimi vent’anni, incluso nomi cari anche a chi scrive, da John Lennox ad Alister McGrath).

Al contrario, sarebbe stato ed è ancora necessario identificare questo spazio rappresentato da pensatori pregni di teologia (non solo cattolica) che maneggiavano abilmente le risultanze della critica biblica germanica, anche se non aggiornata (Bultmann su tutti) che conoscevano la dialettica barthiana e gli appelli di Bonnhoeffer (letti però solo ed esclusivamente in chiave filosofica e non teologica) e citavano la Bibbia con maestria. Ebbene, di questa schiera di pensatori, soprattutto italiani, Vattimo è stato sicuramente il più illustre, e penso soprattutto al Vattimo dell’ultima fase del suo pensiero, quella che si apre con lo straordinario testamento di Credere di credere (1996).

Lo sforzo interpretativo stava e sta qui nel cogliere la radice incredula di un ritorno al cristianesimo (oggi tutti i necrologi parlano per Vattimo di un ritorno al cattolicesimo), una radice che appare però dopo un faticoso lavoro di sfrondamento di una rigogliosa vegetazione di pensiero cristiano e di interpretazioni evangeliche.

Ma prima di fare qualche altro passo in questo spazio interpretativo (ripetiamo: Vattimo come rappresentante di un pensiero italiano sostanzialmente “ateo” e incredulo), spieghiamo la seconda ragione per la quale l’ascrizione del filosofo torinese agli “atei devoti” apparirebbe complicata e contestabile. Questa ragione sta nell’aggettivo “devoto”, quello che costruisce l’apparente ossimoro (come se non si desse una devozione laica e atea – Russell docet). Ebbene nella temperie che partorì l’idea di una posizione teorica in cui sarebbe possibile “professare” una visione del mondo etsi Deus non daretur, e nello stesso tempo rendere tutto l’omaggio a una confessione cristiana, il cattolicesimo, la devozione era il portato di un’impostazione sostanzialmente politica. E Vattimo non era certo da contare in quella parte politica a cui facevano riferimento Giuliano Ferrara, piuttosto che Marcello Pera, tanto per fare due nomi di atei devoti. Il nichilismo e il pensiero debole, la pluralità dei valori, l’apertura al mondo LGBT e tanto altro ancora portavano Vattimo in tutt’altra direzione rispetto a chi stava preparando allora, quando Vattimo stesso parlava di un ritorno della religione, la strada oggi conclamata del pacchetto “Dio, patria e famiglia”.

Eppure, ed è questa la nostra proposta, entrambi i partiti riconoscevano la necessità di pensare, alla “radice” della realtà sociale e culturale in cui si muovevano, il cristianesimo, inteso come “eredità”: che si trattasse di dire ai liberali che “devono” dirsi cristiani (Pera), oppure di segnalare come dopo l’oblio dell’essere e il superamento della metafisica, il cristianesimo e in esso il cristianesimo cattolico era ciò che la secolarizzazione ci lasciava come spazio in cui continuare a pensare il modo in cui sostituire la morte di Dio annunciata da Nietzsche, per entrambi, a sinistra come a destra, non si poteva fare a meno di non potersi non dire o, necessariamente dirsi, cristiani.

Dietro entrambe le proposte, così divaricate, non si può non scorgere la lezione del Perché non possiamo non dirci cristiani di Benedetto Croce (1942). Sì, Vattimo è stato un devoto, nell’accezione culturale e teorica in cui si pensa al cristianesimo come garanzia della civiltà occidentale, secolarizzata, postmoderna.

Certo c’è una sfumatura che distingue la devozione di destra da quella di sinistra, di Vattimo, per esemplificare. Mentre la prima devozione si estrinseca nel tema dell’identità (Dio patria e famiglia) e, potremmo semplificare, si cristallizza nel “nome” di cristiani (sono X, sono Y, sono cristiana/o), nel secondo caso, quello del ritorno al cristianesimo cattolico di Vattimo, si può parlare di una devozione che prende la strada del fare, un vero rappresentante, il filosofo torinese, di un paradigma tutto da delineare ma ben presente nella cultura italiana, quello dei cristiani di e nei fatti: «l’eredità cristiana che torna nel pensiero debole è anche e soprattutto eredità del precetto cristiano della carità e del suo rifiuto della violenza» (Credere di credere, p. 37). Non è un caso che il risultato ultimo di una secolarizzazione che libera il cristianesimo (e gli stesi Vangeli) da una visione violenta e prepotente della verità è la caritas, quello che resta della kenosis evangelica, l’essenza della rivelazione e quello che viene assegnato come compito a chi vuole vivere da devoto, indipendentemente dal fatto se Dio esista, sia vivo o parli e si faccia sentire!

Cristiani nel nome e cristiani nei fatti sono due categorie con le quali il pensiero evangelico deve confrontarsi. Deve comprendere in che modo il termine cristiano viene ripreso e se questa ripresa riesca in qualche modo a rimuovere la parvenza di incredulità (questo nel caso di Vattimo che, come detto sopra, nega di essere contato tra gli atei) quando ci si dedica a un lavoro interpretativo ed ermeneutico – naturalmente caro a Vattimo ­- delle fonti cristiane. È qui, quando si va a leggere il modo in cui l’essere cristiani di oggi si collega a Colui che dà il nome ai suoi discepoli (come accadde ad Antiochia, Atti 11) che emerge l’ipotesi di posizioni sostanzialmente atee, a destra come a sinistra. Per i cristiani, e per gli evangelici in particolare, di Dio se ne parla nei termini della sua rivelazione in Gesù (figura salvata ma “sfigurata” da tutte le posizioni agnostiche ed atee); della rivelazione di Dio in Gesù se ne parla nei termini dell’attesa ebraica (Bibbia ebraica, vs Croce e … il Girard di Vattimo) e nei termini della testimonianza dei testimoni oculari (i Vangeli). Nel gioco della fusione degli orizzonti, del moltiplicarsi delle interpretazioni possibili da parte del lettore, il ruolo della fonte testimoniale deve essere distinta, valorizzata e tutelata. Se non si fa questo, cioè se non ci si ancora al Gesù della storia, il Cristo della fede diventa una chimera e il Dio che Gesù Cristo avrebbe rivelato, diviene un prodotto dell’ontoteologia di cui si può cantare la morte.

Ecco perché l’ateismo devoto è una forma tout court di ateismo che ha bisogno di ascoltare il vangelo; che si blocchi nel nome ed esalti l’identità, fino al limite dell’esagerazione di voler difendere Dio o che si esalti nella caritas delle azioni solidali in cui Dio non è altro che una chimerica ONG che ci lascia senza la possibilità di chiedere perdono per l’autogiustificazione che rincorriamo nel nostro cristianesimo del nome e dei fatti.

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