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(Daniel K. Williams)
Articolo tradotto e pubblicato con autorizzazione di Christianity Today
Quando Jimmy Carter parlò della sua fede in Cristo, durante la campagna elettorale per la presidenza del 1976, molti evangelici rimasero estasiati.
Nessun candidato aveva mai affermato di essere “nato di nuovo” o parlato così apertamente del suo rapporto con Gesù. Né aveva accolto mai i giornalisti nella sua classe di discepolato per adulti, che Carter continuò a tenere nello stesso periodo in cui si era candidato per la Casa Bianca. D’altronde, nessun altro candidato era mai stato un diacono di una chiesa battista del sud degli Stati Uniti.
Il pastore dell’Oklahoma, Bailey Smith, rivolgendosi alla folla radunata per l’incontro annuale della SBC, nel giugno del 1976, affermò che gli Stati Uniti avevano bisogno di un “uomo nato di nuovo alla Casa Bianca”. Poi aggiunse, nel caso qualcuno non avesse colto l’allusione, “Le iniziali del suo nome sono le stesse di quelle del nostro Signore!” [Jimmy Carter, come Jesus Christ, ndt]
Ma solo poche settimane dopo, la Third Century Publishers, una casa editrice evangelica riconducibile al fondatore di Campus Crusade for Christ, Bill Bright, pubblicò un libro che criticava duramente la bontà della fede evangelica di Carter. Il libro, What about Jimmy Carter? fu scritto da un giovane evangelista di nome Ron Boehme.
Boehme, quando sentì parlare per la prima volta della candidatura di Carter, disse di essersi “emozionato” all’idea che un cristiano nato di nuovo fosse candidato alla Presidenza. Tuttavia, man mano che approfondiva le convinzioni di Carter, la sua opinione sul candidato democratico si inasprirono. Scoprì che Carter aveva abbracciato una visione neo-ortodossa della Bibbia e sosteneva politiche liberali relative all’aborto e ai diritti degli omosessuali.
Boehme concluse che forse Carter non fosse affatto un evangelico o che addirittura non fosse neanche un credente. Scrisse: “Quando qualcuno, nella sua campagna politica e nel suo approccio alla legge, promuove o asseconda immoralità ed empietà allora non è un vero seguace di Gesù”. Prendendo in prestito di una delle affermazioni di Gesù nel Sermone sul Monte, Boehme aggiunse: “Un albero buono non può produrre frutti cattivi”.
Boehme non fu il solo a giungere a questa conclusione. Sebbene Carter nel 1976 avesse preso circa la metà dei voti degli evangelici bianchi, molti evangelici, nelle settimane che precedettero le elezioni, rilanciarono i dubbi di Boehme. L’intervista di Carter alla rivista Playboy turbò molti cristiani conservatori, e lo stesso effetto produssero alcune delle sue posizioni politiche.
Nel 1980, alcuni evangelici che un tempo avevano sostenuto Carter (come il conduttore radiofonico Pat Robertson) furono in prima linea nel movimento per sconfiggerlo alle elezioni di quell’anno. Carter, sostenevano, aveva promosso un “umanesimo secolare” grazie al sostegno di un programma femminista e al suo rifiuto di opporsi ai diritti degli omosessuali. In effetti, nel 1980, fu in gran parte una reazione alle politiche presidenziali di Carter che spinse la mobilitazione politica della destra religiosa e il forte sostegno evangelico a Ronald Reagan.
Dopo che Carter lasciò la Presidenza, la frattura tra lui e la leadership, sempre più conservatrice della Southern Baptist Convention, continuò ad approfondirsi. Alla fine, Carter lasciò la Convention per unirsi alla Cooperative Baptist Fellowship (SBC), una denominazione che ordinava le donne e rifiutava alcune delle posizioni politiche conservatrici della SBC.
Ma Carter continuò a definirsi un cristiano evangelico. Continuò a raccontare di leggere la Bibbia ogni giorno, di pregare costantemente e di tenere lezioni settimanali di scuola domenicale nella sua chiesa battista. Il suo lavoro di volontariato con lo Habitat for Humanity divenne leggendario. E spesso, mentre era ancora Presidente, aveva condiviso la sua fede con gli altri, incluso leader internazionali non cristiani.
Scrisse anche diversi libri sulla sua fede. “Sono convinto che Gesù sia il Figlio di Dio”, affermò nel suo ultimo libro, pubblicato nel 2018. Dichiarò che Gesù era il suo “personale salvatore “, e anche “una guida personale e un esempio per la propria vita e per quella degli altri. … Gli elementi fondamentali del cristianesimo valgono personalmente per me, modellano il mio atteggiamento e le mie azioni e contribuiscono a darmi una vita gioiosa e positiva, una vita che ha uno scopo”.
Dopo aver consultato la descrizione dell’evangelicalismo che aveva rinvenuto in un articolo di Wikipedia, e dopo averla integrata con note tratte da uno dei suoi commentari alla Bibbia, Carter concluse nel suo libro che egli non era solo un cristiano, ma che era un “cristiano evangelico”. Era nato di nuovo; condivideva la sua fede con gli altri e amava Gesù come suo personale Salvatore. Che cosa poteva esserci di più evangelico di questo?
Ma c’era una differenza tra la comprensione della fede che Carter mostrava e le opinioni dei suoi critici evangelici. La sua esperienza di conversione con la nuova nascita avrebbe potuto essere sicuramente simile alla loro, e la sua dedizione alla preghiera e alla lettura della Bibbia altrettanto forte della loro, ma su due questioni Carter era distante dagli evangelici conservatori della fine del XX secolo: l’inerranza biblica e la politica.
Questi erano proprio i temi al centro della crescita dei conservatori della Southern Baptist Convention che ebbe inizio proprio mentre Carter era in carica come Presidente. Per molti evangelici conservatori degli anni ’70, per Harold Lindsell, Francis Schaeffer e i leader della parte conservatrice all’interno della Southern Baptist Convention, il tema dell’inerranza biblica era centrale per l’identità evangelica. Sostenevano che senza una Bibbia infallibile i cristiani protestanti non avrebbero avuto una fonte di autorità che fosse stata stabile e trascendente. Il principio della Riforma del sola scriptura, combinato con una comprensione della perfezione e della sovranità di Dio, esigeva una scrittura infallibile.
Molti di questi evangelici sostenevano anche che il governo americano avesse bisogno di uno standard morale stabile e trascendente, basato sui principi cristiani. La legalizzazione dell’aborto e una nuova glorificazione pubblica dell’immoralità sessuale erano il risultato di politici e giudici che avevano dimenticato la legge di Dio.
La loro visione del cristianesimo che doveva avere un’influenza nella sfera pubblica si esprimeva principalmente nel bisogno di sostenere i principi morali cristiani a fronte della crescente secolarizzazione. Ritenevano la rivoluzione sessuale, insieme alla seconda ondata di femminismo, la più grande minaccia che la famiglia americana avesse mai subito. Ed erano determinati a fermare quella minaccia eleggendo persone devote nelle cariche pubbliche, persone che sarebbero state guidate dalla legge di Dio, non dalle tendenze culturali del tempo.
Carter, però, non condivideva nessuna di queste opinioni. Le sue idee politiche e religiose non erano state plasmate da una reazione alla rivoluzione sessuale, ma dall’esperienza del movimento per i diritti civili. Come altri bianchi del sud della sua generazione, Carter era cresciuto a contatto con la segregazione razziale e la disuguaglianza, e giunse alla conclusione che le chiese evangeliche bianche della sua regione erano per lo più dalla parte sbagliata della lotta per la giustizia degli afroamericani.
La chiesa battista di Carter a Plains, in Georgia, fu ufficialmente segregazionista fino al 1976. La comunità votò negli anni ’60 contro l’accoglienza di persone di colore quali propri membri, e Carter si oppose a quella decisione pur non abbandonando la chiesa. Eppure, come ricordò anni dopo nel suo libro Faith: A Journey for All, venne ispirato dagli esempi di altri cristiani che assunsero una posizione controculturale volta a superare la linea del colore presente nel sud segregazionista. Ad esempio, a poche miglia dalla sua casa di Plains, Millard e Linda Fuller diedero il via a un’impresa agricola cristiana interrazziale, chiamata Koinonia, per poi fondare Habitat for Humanity.
Incontri con persone come i Fuller convinsero Carter che ciò di cui il paese aveva bisogno non era una campagna pubblica per riportare l’America a Dio. Era una concreta imitazione dell’etica di Gesù. Dopotutto, era in questo modo che i sostenitori cristiani afroamericani dei diritti civili avevano ottenuto il sostegno dei cristiani bianchi, che in precedenza erano contro di loro, in quanto furono toccati dall’esempio dell’amore cristiano che avevano visto tra gli attivisti.
Carter fu così colpito da esempi del genere tanto da incorniciare la sua fede intorno a questo principio piuttosto che intorno a specifiche rivendicazioni dottrinali. Ma più leggeva le Scritture, più veniva colpito dall’etica di Cristo e più desiderava avere Gesù come suo “amico” per grazia mediante la fede.
Per Carter, quindi, l’inerranza biblica non era un problema. Giunse a pensare che forse la Bibbia potesse contenere alcune contraddizioni interne che non potevano essere armonizzate, e che parti della Bibbia potessero avere bisogno di essere reinterpretate alla luce della scienza moderna. Ma questo non aveva importanza, poiché il racconto della vita di Gesù era al contrario storicamente corretto.
Similmente, Carter ritenne che le priorità politiche della destra cristiana fossero sbagliate, perché erano incentrate non sull’etica di Gesù ma sull’idea errata che i valori della famiglia potessero essere imposti per legge. In quanto battista arminiano, Carter si opponeva ai credi: credeva nel sacerdozio di tutti i credenti e insisteva fermamente sul fatto che la fede, per essere autentica, dovesse essere liberamente scelta. Non poteva essere dettata dalla legge, sostenne in dei suoi numerosi libri, tra cui Our Endangered Values: America’s Moral Crisis e Faith: A Journey for All.
Seguire Gesù mentre si occupava una carica pubblica non poteva significare allora imporre standard cristiani per legge. Per Carter, doveva significare agire con integrità e con sollecitudine per tutte le persone. E se la nazione si fosse rivolta a Dio, allora il frutto di questa conversione non sarebbe stato necessariamente quello di leggi contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso o contro l’aborto. Sarebbe stato, al contrario, un dedicarsi “alla risoluzione delle controversie con mezzi pacifici” e un impegno per “libertà e per i diritti umani” a favore degli altri, incluso, e in particolar modo, i diritti delle donne che, secondo lui, troppi evangelici conservatori ignoravano.
La fede di Carter appariva più funzionale al protestantesimo storico che non all’evangelicalismo americano di fine XX o di inizio XXI secolo, e gli evangelici non avevano torto quando rilevavano questa differenza. Ma Carter è rimasto un battista per tutta la vita in quanto credeva in una conversione frutto della nuova nascita, in una relazione personale con Gesù e nella necessità di condividere la propria fede con gli altri. Parlava sempre di fede con un accento evangelico e, nonostante le sue differenze rispetto ai cristiani più conservatori, nutriva un amore per lo stesso Salvatore.
Nell’ottica della storia, e grazie al periodo più lungo di una post-presidenza americana, queste somiglianze sono forse più facili da vedere oggi di quanto non lo fossero nel 1980. La determinazione di Carter a estendere l’amore di Gesù è stato il miglior riflesso del Sermone sul Monte di quanto non si rendessero conto i suoi critici evangelici.
Daniel K. Williams insegna American history presso la Ashland University ed è autore di The Politics of the Cross: A Christian Alternative to Partisanship.
L’articolo L’evangelicalismo di Jimmy Carter proviene da DiRS GBU.
source https://dirs.gbu.it/levangelicalismo-di-jimmy-carter/
Quando gli evangelici ammiravano Giuliano (l’apostata)
Lo storico del Cristianesimo Giancarlo Rinaldi introduce così il breve lasso di tempo in cui, nel quarto secolo, giunse a imperare sull’Impero romano un singolare imperatore di nome Giuliano (Flavio Claudio Giuliano), che passò alla storia con l’epiteto di Giuliano l’apostata.
[Giancarlo Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità, Edizioni GBU, 2008, pp. 706–714].
«Il ruolo della Chiesa cristiana durante il secolo quarto subisce, nell’àmbito dell’impero romano, una trasformazione radicale. Essa, infatti, passa dalla iniziale persecuzione promossa dai tetrarchi (Diocleziano, Galerio, Massimino Daia) alla tolleranza sancita da Galerio, nel 311, e da Costantino, nel 313. Da questa tolleranza, inoltre, essa passa rapidamente alla preminenza e poi all’acquisizione dello status di religione di Stato unica e ufficiale, in virtù dell’Editto di Tessalonica promulgato dall’imperatore Teodosio I nel febbraio del 380. Prendendo in considerazione più da vicino gli eventi connessi a questa parabola possiamo senz’altro rilevare che la Chiesa da realtà perseguitata agli inizi del secolo si presentò alla fine dello stesso quale fautrice di persecuzioni a danno di giudei, di pagani e, più ancòra, di cristiani non appartenenti a quella che possiamo definire la “Chiesa imperiale ortodossa”».
La ‘reazione’ di Giuliano imperatore
In questo clima di montante intolleranza antipagana ebbe a trascorrere i suoi anni giovanili Flavio Claudio Giuliano (331–363). Il regno di Giuliano fu di breve durata (361-363) ma di grande significato nell’àmbito della storia religiosa. … Si è parlato a tal proposito di un tentativo di ‘laicizzazione’ dello Stato. Giuliano, sia per storia personale (all’età di sei anni scampò, insieme al fratello Gallo a una strage, il cui mandante fu ritenuto l’imperatore Costantino, che distrusse la sua famiglia) sia per formazione (dal neoplatonismo alla teurgia ai misteri elusini, passando per i culti di Mitra e Cibele) si dedicò non a una persecuzione, nei confronti dei cristiani quanto a un “conflitto culturale”. La politica giulianea, infatti, fu appassionatamente intesa a revocare le situazioni di privilegio a favore dei cristiani che si erano determinate da Costantino al 361.
Giulano definiva i cristiani ‘Galilei’ in ragione del fatto che li riteneva responsabili della trasposizione della divinità ebraica a livello di un principio divino universale. La sua principale opera, di cui possediamo frammenti, portava infatti il titolo di Adversus Galilaeos, (tr. it. di E. Masaracchia, Giuliano Imperatore, Contra Galilaeos, Roma 1990). Giuliano fu celebrato da due grandi scrittori pagani di Antiochia: Libanio e Ammiano Marcellino. Ma fu avversato, soprattutto in risposta alla sua opera principale, da numerosi autori. Tra le confutazioni sopravvive frammentariamente quella di Teodoro di Mopsuestia e quella di Cirillo d’Alessandria, che è la più importante.
I cristiani elevarono grida di gioia alla notizia della morte di Giuliano. La celebrarono come una punizione di Dio.
Fin qui Rinaldi.
La singolarità di questa vicenda, da cui il titolo dell’articolo, sta nel fatto che questo personaggio fu ripreso dagli evangelici dell’800, nel clima infuocato del Risorgimento, e indicato come un campione di un governo che abolisse la Religione di stato (identificata chiaramente con il Cattolicesimo con le implicazioni relative al ruolo del Papa nelle vicende dell’Unità d’Italia).
La pagina che riproponiamo qui è testimonianza di questo singolare approccio all’imperatore pagano ma presenta degli spunti che potrebbero essere estremamente illuminanti per la particolare congiuntura storica che stiamo vivendo, agli albori della nuova era trumpiana. In questa pagina poi emerge tutta la distanza della tradizione evangelica italiana che potremmo definire di “teologia politica” rispetto alle lezioni che provengono da oltre l’Atlantico incluso i ravvedimenti forse tardivi di personaggi come Timothy Keller o di altri ancora che solo negli ultimi tempi, in particolare pensando ad alcuni scritti di Keller, hanno lanciato l’allarme contro la deriva politica dell’evangelismo americano.
La libertà di coscienza proclamata da Giuliano
[Trattasi di stralci del capitolo VI del libretto La religione di Stato, di Teodorico Pietrocola Rossetti, del 1861, pp. 35–41. Pubblicato nell’anno della nascita del Regno d’Italia, lo scritto ha un intento chiaramente propositivo verso i nuovi assetti politici, statuali ma anche sociali e culturali che si andavano delineando in quel cruciale periodo storico].
Costantino non fu, né divenne mai cristiano né mostrò mai di esser rigenerato, né nato di nuovo, né mai camminò secondo Cristo, ma dopo la sua conversione continuò ad essere despota efferato e violento; alcuni della famiglia imperiale, scandalizzati dal suo esempio, rigettarono il nuovo credo nell’intimo del loro cuore, e lo professarono esteriormente per ragione di Stato.
[Giuliano] era stato battezzato quend’era pargolo, fu educato al romanesimo e alla superstizione … ma arguto com’era ed inesorabilmente logico, non trovò Cristo ne’ canoni, nelle tradizioni, e nelle invenzioni degli ambiziosi prelati, e disprezzò il nuovo credo. Potente incentivo a questa sua apostasia fu la corruzione, i vizii e l’empietà de’ romanisti. Quelli della sua parentela, insegnati da Eusebio e da Ario, e non già dall’Evangelo, non aveano sentito il rinnovamento del cuore e continuarono nelle loro ferocie e dissolutezze: ciò ancora scandalizzò Giuliano, per cui credette che la religione pagana valesse meglio della nuova. …
Per questi fatti si può dire che l’apostasia di Giuliano fu opera de’ preti e non sua: – ed essa apostasia perde tutto il colore che le si vuole apporre, quando si pensa che apostatare dall’errore è nulla, mentre è cosa gravissima apostatare dalla Verità. (corsivo nell’or.).
E poi – che razza di religione era quella, se all’annunzio dell’apostasia di Giuliano, i pagani che si spacciavano convertiti al Romanesimo riapersero i loro templi? Era una religione di Stato – convenzionale – imposta con la forza, e che dura fin che vi son tiranni, ma poi cade al primo bagliore del sole della libertà. …
Giuliano fu il solo che concepì in tutta la sua pienezza l’idea della libertà di coscienza. Ma non gli giovò a nulla, perché egli aveva una Religione di Stato [il paganesimo, ndc], impedimento gravissimo all’attuazione di quell’idea. La sua filosofia e la sua moderazione non bastarono a metterla in esecuzione, perciocché un Credo di Stato è un lacciuolo che ritiene la preziosissima libertà dell’anima e le impedisce ogni manifestazione di volontà morale.
Tutti gli atti del suo regno aveano per mira la libertà di coscienza, – ed incredibilia sed vera, – con essi egli insegnava ai Romanisti ad esser cristiani.
«Ho deliberato, egli disse [cit. della fonte], usare tale umanità con tutti i Galilei, che nessun d’essi, in qualunque luogo sia, soffra violenza, né sia strascinato al tempio, né trattato male contro la sua religione. Ma gli Ariani, gonfi per le loro ricchezze, hanno assaliti i Valentiniani, e hanno commesso in Edessa misfatti, che in città ben ordinate non debbono accadere. Adunque per dar loro aiuto a praticare la loro ammirabile legge, e agevolare la via d’entrar nel regno de’ cieli, abbiamo ordinato che siano tolte loro tutte le facoltà della chiesa d’Edessa: i denari sieno dati ai soldati, i terreni sieno uniti al nostro patrimonio, acciocché, divenendo poveri, sieno più saggi, e non sia loro tolto il regno de’ cieli che sperano »
La tolleranza e il perdono delle offese erano praticati dall’apostata! Dio giudicava quegli inesorabili settarii per la bocca di un empio. «Per gl’iddii, ordinava Giuliano [cit. della fonte], non voglio che i Galilei sieno uccisi, né battuti ingiustamente, né offesi in veruna forma» … Lezione ai feroci uccisori degli Albigesi, de’ Valdesi, degli Ugonotti, e degli Americani! Ed altrove: «Giuliano ai Bostriani: Io credeva che i capi de’ galilei conoscessero che hanno maggior obbligo a me che al mio predecessore [Costante], poiché per la maggior parte sotto di lui sono stati cacciati, imprigionati, perseguitati e assai ne furono ancora uccisi di quelli che vengono detti eretici … Sotto il mio regno, all’incontro, gli sbandati sono stati richiamati, i beni confiscati sono stati restituiti; e tuttavia a tal segno è giunto il loro furore, che fanno ogni opera di sconvolgere i popoli, perché non è più permesso loro usar tirannia sopra gli altri …»
E agli abitanti di Bostra:
«Le ragioni hanno a vincer gli uomini, non le ingiurie, né i tormenti nelle membra. E lo dico e ridico più volte, non sia malmenato il popolo de’ Galilei; perciocché coloro che in grandi cose s’ingannano sono più degni di pietà che d’odio» (neretto mio).
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Lunedì Letterario. Israele verso il suicidio?
Il conflitto israeliano palestinese nell’ultimo periodo ha suscitato grande interesse non solo nel mondo evangelico, ma sicuramente in tutto l’Occidente. Bisogna aggiungere, inoltre, che l’atteggiamento che, in alcuni casi, ha avuto il governo israeliano nei confronti dei civili palestinesi non ha avuto il consenso di una parte dell’opinione pubblica occidentale ed ha suscitato non pochi dibattiti che sono anche confluiti, come avevamo detto ad inizio di anno, anche nelle discussioni e indagini che si sono tenute nelle corti internazionali di Giustizia, chiamate a pronunciarsi su un eventuale genocidio o eventuali crimini di guerra.
Per comprendere ciò che sta accadendo e che tipo di atteggiamento un credente dovrebbe avere, conviene leggere anche qualcosa che vada al di là del testo biblico e di testi che parlino di teologia della restituzione o che echeggino differenti posizioni teologiche. Come apparso anche a Seul, al quarto Congresso di Losanna, i credenti devono guardare alla situazione con preghiera, attenzione ed apprensione, senza confondere l’Israele profetico con l’attuale stato di Israele e con l’attuale governo di questo Stato che è fatto da uomini.
In Italia non mancano le pubblicazioni uscite negli ultimi mesi a tal proposito, ma ci sentiamo di segnalare un piccolo libro pubblicato per i tipi di Laterza e scritto da Anna Foa che si intitola Il suicidio di Israele e che oggi è tra i primi in classifica in Italia nella saggistica (a dimostrazione dell’interesse per l’argomento) e che ho avuto il piacere di presentare in dialogo con l’A. l’altro ieri nella scuola dove insegno.
Anna Foa è stata docente di Storia Moderna alla Sapienza di Roma ed è stata sempre impegnata nella ricerca sul mondo ebraico in Italia, essendo anche lei ebrea della diaspora come ama definirsi. Diversi suoi libri hanno anche parlato della Shoah e di quanto successo agli Ebrei nel XX secolo ed anche prima soprattutto in Italia.
La Foa in quattro rapidi capitoli analizza quale sia la situazione oggi a partire dalla storia: come accade da parte di molti storici la data da cui si parte non è quella biblica ma quella della nascita del sionismo o, per dirla meglio, dei sionismi. Nel testo infatti si precisa la pluralità del movimento sionista e lo si paragona (come è giusto che sia) con il movimento risorgimentale italiano, un movimento di identità nazionale che è stato, di fatto il fondatore dell’odierno Israele nel 1948 e dove sono confluiti pensieri politici che vanno dal socialismo al conservatorismo religioso e laico, rappresentato dall’attuale premier. Israele, infatti, è stato governato per quasi trent’anni dai laburisti che sono coloro che hanno avuto anche le maggiori vittorie nelle guerre arabo-israeliane ed hanno iniziato le trattative con i Paesi Arabi e, in seguito, con i Palestinesi che, purtroppo, non hanno portato ad una soluzione.
Nel capitolo dedicato all’identità la Foa ricorda che i rapporti tra arabi ed israeliani non sono stati sempre tesi e lo sono diventati dopo la fondazione di Israele. Sino a quando gli ebrei si sono insediati dalla fine del XIX secolo in Palestina non vi sono stati particolari contrasti che si sono invece ampliati dopo la fondazione dello Stato e durante la presenza degli Inglesi dopo la prima guerra mondiale. Il problema che vede la Foa, che dice di parlare come ebrea della diaspora, laica ma che ama il suo popolo e che la fondazione delle identità delle due nazioni è avvenuta a seguito due due eventi ritenuti tragici: la Shoah perpetrata dai nazisti e la Nakba (la catastrofe) che i Palestinesi ritengono di aver vissuto dopo la fondazione dello Stato di Israele. Senza discutere della diversa portata dei due eventi, nel testo si ritiene che tutto ciò ha portato all’assunzione da parte dei due popoli di un paradigma vittimario che difficilmente può portare ad una riconciliazione.
Il terzo capitolo del testo ricostruisce in poche pagine i fallimenti ed i tentativi di fare pace tra i due popoli che erano culminati con gli accordi di Oslo che sono miseramente falliti, sia a causa dei palestinesi che anche dei governi israeliani conservatori che non volevano dare veramente indipendenza ai territori che sarebbero dovuti essere della Palestina. La questione di Gerusalemme poi ha spesso travolto i processi di pace e non li ha fatti arrivare alla conclusione.
Questo pessimismo (che permane nel libro) ci porta all’ultimo capitolo che porta il titolo del testo e dove la storica di origine ebraica non mostra grande ottimismo per ciò che è accaduto dal 7 ottobre di un anno fa e pensa che le scelte dell’attuale governo israeliano che ha di fatto anche annichilito l’opposizione interna dopo le numerose manifestazioni che avevano preceduto gli eventi, non portano a nulla di buono. Sia l’attuale governo israeliano che Hamas vorrebbero per sé tutta la Palestina e non sono disposti a cedere su nulla rischiano la distruzione del proprio popolo e di sé stessi.
Seppur con un finale non speranzoso la Foa ha voluto cercare di dare una visione il più possibile serena di quanto sta accadendo leggendo con gli occhi della storica ebrea della diaspora. Infatti, agli ebrei fuori di Israele rimprovera il poco attivismo nell’aiutare gli israeliani a trovare una soluzione pacifica. Il suo è un accorato appello soprattutto verso il suo popolo che vede sbagliare, piuttosto che una condanna contro il terrorismo palestinese (che pure nel testo c’è).
Si tratta di un testo appassionato, scritto da una persona veramente esperta del problema perché se ne sente coinvolta ma che è in grado anche di farsi spazio all’interno di una politica sempre più polarizzata in tutto il mondo e che cerca di esprimere una voce moderata ed anche preoccupata per quanto sta accadendo. Da un punto di vista evangelico è un testo che va letto con interessa perché, pur nella sua brevità, dà una documentazione notevole per comprendere quanto accaduto ed una prospettiva che mostra che non tutti gli Ebrei (neanche all’interno di Israele) sono d’accordo con l’attuale governo. Per quanto ci riguarda, oltre le condanne che condividiamo quando vengono attaccati innocenti, il nostro compito è pregare per la pace ed agire per la riconciliazione.
Valerio Bernardi – DIRS GBU
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ALLA RICERCA DEL VERO GESÙ
Di Francesco Schiano Lomoriello, Staff GBU Napoli.
L’espressione “ricerca del Gesù storico” fa riferimento allo sforzo di ricostruire un ritratto di Gesù di Nazareth che scavalchi quello offerto dai vangeli, per giungere più vicino possibile alla verità storica.
L’assunto di partenza è che gli autori dei Vangeli non siano stati motivati dal desiderio di riportare la verità oggettiva, ma da intenti teologici e dottrinali. Pertanto, li si accusa di avere inserito nei loro racconti fatti non accaduti realmente, o almeno non nelle modalità descritte, per sostenere le posizioni delle comunità cristiane di cui erano espressione.
Tre fasi della ricerca
Oggi si riconoscono tre fasi della ricerca:
– La prima si è sviluppata tra il XVIII e la prima parte del XX secolo. Il Razionalismo di derivazione illuiminista spinse studiosi come Hermann Reimarus a suggerire la differenza tra il “Cristo della Fede” e il “Gesù della Storia”. Vennero scritte biografie di Gesù che erano soprattutto il tentativo di razionalizzare e naturalizzare i vangeli, epurandoli di tutti gli elementi sovrannaturali. Rudolf Bultmann è stato l’ultimo protagonista di questa fase e colui che vi ha posto fine. Egli suggeriva che il Gesù della Storia fosse inaccessibile alla ricerca. Tale conclusione era stata motivata dalla constatazione che ogni biografia di Gesù pubblicata nei precedenti 2 secoli aveva offerto un ritratto diverso dalle altre, alimentato non tanto dagli auspicati criteri di oggettività, quanto dall’orientamento e dai pregiudizi di chi l’aveva proposto.
– Proprio un discepolo di Bultmann, Ernst Kasemann, è stato l’iniziatore della seconda ondata di studi sul Gesù storico. Convinto, a differenza del suo maestro, della possibilità di colmare il gap tra il Cristo della Fede e il Gesù della Storia attraverso lo studio critico dei testi del Nuovo Testamento. Era la metà del XX secolo e questa stagione durò poco perché importanti scoperte archeologiche imposero un nuovo approccio alla ricerca.
– Studi basati su scoperte come la biblioteca di Nag Hammadi e i rotoli di Qumran permisero agli storici di giungere a una conoscenza più profonda della società e della cultura del Medio Oriente antico. Tale conoscenza è il fondamento dell’approccio della terza fase della ricerca sul Gesù storico. A partire dagli anni ‘60 del secolo scorso, sempre più studiosi si sono interessanti alla possibilità di distillare la verità storica dai testi del Nuovo Testamento. Questo non solo attraverso un lavoro filologico e letterario, ma attraverso l’analisi dei resoconti biblici alla luce delle conoscenze acquisite sulla società nella quale Gesù visse e i vangeli furono scritti. Una caratteristica importante di questa terza fase è la presenza tra i suoi animatori di studiosi atei e agnostici, che in alcuni casi sono cristiani deconvertiti.
Come affrontare la questione
Confrontarsi con le opere di studiosi, passati e presenti, che mettono fortemente in discussione l’affidabilità dei racconti evangelici può rappresentare una sfida di non poco conto per i credenti. Tuttavia abbiamo gli strumenti per affrontare tale sfida e trasformarla in un’opportunità evangelistica.
1. I testimoni oculari e il vero Gesù
L’assunto di partenza a cui abbiamo fatto riferimento, cioè la convinzione che i Vangeli canonici non rappresentino resoconti storici ma ricostruzioni teologiche della figura di Gesù, non è assolutamente dimostrato. Le prove interne sembrano suggerire tutt’altro. Se si pensa alla presenza di tanti particolari non necessari alla narrazione (il numero di pesci pescato alla seconda pesca miracolosa, il giovane coperto da un lenzuolo presente all’aresto di Gesù, il fatto che Giovanni arrivò al sepolcro prima di Pietro, ecc.), alle storie che mettono in cattiva luce i discepoli, o alla dichirazione d’intenti che Luca offre all’inizio del suo Vangelo (…è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine, di scrivertene per ordine…), si può sostenere ragionevolmente che gli evangelisti abbiano riportato testimonianze oculari con lo scopo di presentarci il vero Gesù.
Proprio la categoria della testimonianza è quella che suggerisce lo studioso Richard Bauckham nel suo Gesù e i testimoni oculari1 per comprendere correttamente il genere letterario Vangeli. Estremamente soggettivo, ma non per questo non attendibile.
D’altra parte, la data di pubblicazione degli scritti del Nuovo Testamento, collocabile al più tardi tra il 60 e il 95 d.C., rende piuttosto difficile sostenere che essi contengano miti e leggende, visto che i testimoni oculari dei fatti narrati erano ancora in circolazione in quegli anni.
2. Incontrare il Cristo con la ricerca del Gesù storico
Oggi la maggior parte degli studenti è convinta che la Bibbia non sia un testo affidabile; parlare di Gesù a partire da ciò che affermano i Vangeli spesso vuol dire scontrarsi con questo pregiudizio. In un contesto simile, la ricerca del Gesù storico rappresenta un punto di incontro tra il credente e lo scettico. In altre parole, ci si può avvicinare ai testi del Nuovo Testamento da scettici e analizzarli con gli strumenti della storiografia moderna. Si può cercare di capire chi sia stato Gesù di Nazareth, senza dover prima accettare la dottrina dell’ispirazione della Bibbia, e incontrare il Cristo.
Non mancano le testimonianze di persone comuni e studiosi2 che, analizzando i Vangeli da non credenti, sono finite per riconoscere Gesù come loro Dio e Signore, proprio come accadde al primo scettico, il discepolo Tommaso.
5 anni dal Covid-19: tempo di bilanci numerici… e non solo
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di Nicola Berretta
Sono trascorsi oramai quasi 5 anni da quel lontano febbraio 2020 quando in Italia scoppiò la pandemia da Covid-19, e il dramma collettivo che abbiamo tutti quanti attraversato sembra oramai solo un ricordo lontano. Un ricordo, però, che lascia ancora strascichi con conseguenze fisiche in alcuni di coloro che ne sono stati colpiti più violentemente, ma anche conseguenze emotive in chi ha perduto persone care, o psicologiche in chi ha subito con maggiore difficoltà il lungo periodo di isolamento sociale, soprattutto bambini e adolescenti. Prima però che quella brutta esperienza cada completamente nell’oblio, confinata nei soli manuali di microbiologia ed epidemiologia, penso che sia giunto il tempo per fare qualche bilancio, guardando all’esperienza vissuta con maggiore lucidità potendola adesso osservare dall’esterno, senza essere più travolti dall’accavallarsi di notizie allarmanti se non addirittura evocatrici di complotti costruiti a tavolino. Non va infatti dimenticato il clima di sospetto e demonizzazione che ha accompagnato gli anni della pandemia, che ha coinvolto anche realtà ecclesiali. Fare un bilancio a posteriori può essere dunque utile per valutare con spirito critico l’esperienza attraversata, nella speranza di farne tesoro per il futuro.
I dati che seguono sono per la maggior parte frutto di una mia elaborazione a partire da informazioni fornite dal Ministero della Salute e accessibili in rete[1]. Inoltre farò riferimento a elaborazioni dell’Istituto europeo EuroMOMO, che raccoglie dati sulla mortalità della popolazione della maggior parte dei Paesi europei, inclusa l’Italia, accessibili anch’essi in rete[2].
Una critica metodologica che potrebbe essere mossa prima ancora di illustrare i dati che seguono potrebbe sorgere per un dubbio sollevato fin dall’inizio della pandemia, circa l’affidabilità del numero di morti certificati dalle agenzie preposte, se cioè si sia trattato davvero di decessi dovuti al Covid-19 oppure quei numeri siano stati intenzionalmente gonfiati, se non addirittura inventati di sana pianta. Forse ricorderemo la polemica se si trattasse di morti per Covid oppure di morti con Covid, se cioè si trattasse di persone decedute a causa del virus Sars-Cov-2 oppure di persone morte per tutt’altro motivo, ma che incidentalmente erano state infettate da quel virus. È utile allora avvalersi di una comparazione tra i dati ufficiali sui decessi da Covid-19 comunicati dal Ministero della Salute e quelli relativi al numero assoluto di morti documentato dall’agenzia EuroMOMO. Questi ultimi infatti sono analisi statistiche su quante persone siano morte in un determinato periodo, al di là della causa del loro decesso, sia esso dovuto a malattie di qualsiasi tipo oppure anche accidentale.
Il Grafico 1 presenta in alto i decessi che si sono verificati Italia dalla fine del 2018 ad oggi (novembre ’24) per qualsiasi causa[3]. La linea orizzontale rossa indica la soglia oltre la quale i morti sono sostanzialmente superiori all’atteso, in base alle statistiche degli anni precedenti. Nota che il numero di decessi presenta sempre un’eccedenza più o meno marcata nei mesi di dicembre e gennaio, a causa dell’influenza stagionale, come si può notare ad esempio all’inizio del 2019, tuttavia è evidente l’aumento drammatico nell’incidenza dei morti per qualsiasi causa poco dopo l’inizio del 2020, quando per l’appunto scoppia in Italia la pandemia da Covid-19, e che continua in ondate successive anche in periodi dell’anno di norma non soggetti a variazioni sostanziali nel numero di decessi. Quello che però è ancora più importante sottolineare è la comparazione tra il grafico in alto di EuroMOMO e quello grigio sottostante, relativo al numero di morti ufficialmente riconosciuti per causa di Covid-19. Una semplice analisi visiva mostra un andamento pressoché parallelo dei due grafici. Anche un’analisi dei numeri crudi, che qui non presento, indica che il numero di morti dichiarati ufficialmente come dovuti a Covid-19 rispecchia l’eccedenza di decessi rispetto ad anni precedenti, anzi, sembrerebbe addirittura inferiore. Cosa ci dice questo? Ci dice che i numeri comunicati dalle agenzie governative sui decessi dovuti al Covid-19 sono affidabili. Se può essere accaduto che qualcuno sia stato erroneamente incluso tra i deceduti per Covid-19, ce ne sono stati altrettanti (se non di più) che sono morti per Covid-19 ma non sono stati documentati come tali.
Dopo questa premessa metodologica è utile ricordare di che numeri stiamo parlando. Da febbraio 2020 ad oggi il virus Sars-Cov-2 ha colpito quasi 27 milioni di italiani[4], provocando un totale di 198.155 morti (al 30 ottobre 2024). Sono tanti? Sono pochi? Beh, se è vero che in Italia il numero di civili morti durante la IIa guerra mondiale sono stati poco più di 150 mila (fonte Wikipedia[5]), direi che in questi ultimi 5 anni in Italia si è verificata una vera e propria tragedia. Altro che influenza! È utile e doveroso sottolineare questa realtà, per avere maggiore sobrietà e comprensione nel valutare oggi, col senno di poi, decisioni operative che sono state prese per rispondere a un’emergenza di estrema gravità e per di più del tutto inedita nella nostra storia recente.
Torniamo ancora ai dati di EuroMOMO (Grafico 2), questa volta però guardando ai decessi avvenuti per qualsiasi causa da fine 2018 a oggi in tutta Europa, sia totali (grafico in alto) sia suddivise per fasce di età (grafici successivi). Di nuovo, l’eccedenza numerica rispetto alle attese è segnalata dal superamento della linea rossa tratteggiata. Nota che questa volta l’andamento è tendenzialmente sinusoidale e non rettilineo come nel grafico precedente, perché questo grafico riporta numeri assoluti e non il parametro statistico “z-score”. Al di là di questi dettagli tecnici, sono ancora evidenti le chiare eccedenze nel numero di decessi corrispondenti alle varie ondate di pandemia da Covid-19 successive a febbraio 2020. L’informazione in più che ci fornisce questo grafico è l’incidenza dei decessi in rapporto all’età. Se da una parte è chiarissimo l’aumento di decessi in persone di oltre 65 anni (grafico in basso), per i più giovani (0-14 e 15-44 anni) il numero dei morti in Europa è rimasto sostanzialmente all’interno dei parametri attesi. Questo dato conferma l’evidenza ampiamente riportata secondo cui gli effetti più gravi del Covid-19 si sono verificati in larga parte nella fascia di età oltre i 60 anni, mentre i più giovani ne sono stati sostanzialmente risparmiati.
C’è però un altro dato importante che ci viene fornito da questo grafico, alla luce delle polemiche che tuttora circolano circa i pericoli del vaccino anti-Covid somministrato in massa in Europa a tutte le fasce di età dalla seconda metà del 2021 a tutto il 2022. Se da una parte è vero che nei più giovani non si è verificato alcun aumento sostanziale nel numero dei decessi da virus Sars-Cov-2, è altrettanto vero che non si è verificato alcun aumento significativo di decessi nei giovani a seguito della campagna vaccinale. Se cioè fosse vero, come taluni continuano ad affermare, che vi sarebbero state e vi sarebbero tuttora tantissimi decessi di giovani che hanno ricevuto il vaccino, ma sottaciuta dalle fonti governative, questi grafici dovrebbero renderle esplicite. Mi rendo conto che, chi è convinto che vi sia in atto una cospirazione per coprire il pericolo di questi vaccini, continuerà a ritenere che anche questi numeri siano stati manipolati, ma mi auguro che possano convincere quella fascia più ampia di persone che magari sono rimaste nel dubbio perché impressionate da informazioni circa episodi singoli e circostanziati.
Continuando sul tema della campagna vaccinale, andiamo ora all’ultimo Grafico 3, ottenuto dai dati ufficiali diramati dal Ministero della Salute. Il grafico in alto (colore blu) mostra il numero di italiani risultati positivi al virus Sars-Cov-2 dall’inizio della pandemia a oggi, mentre quello sottostante (colore rosso) riporta il numero di morti giornalieri nello stesso arco temporale. Si nota un picco di decessi avvenuto con la 1a ondata iniziata nel febbraio 2020. Fu in risposta a quell’esplosione di morti da Covid-19 che il Governo italiano impose restrizioni alla libera circolazione per tutta la primavera 2020 (lockdown). A quella 1a ondata di decessi ha fatto seguito una 2a ondata dopo l’estate 2020 fino alla primavera del 2021. Questa è stata la fase che ha visto complessivamente il maggior numero di decessi per Covid-19, ma comunque, in rapporto, è stata più contenuta della precedente, se si considera il numero di positivi notevolmente maggiore che si verificò in quel periodo rispetto alla prima ondata (grafico blu). Si assiste poi a una 3a ondata di decessi a partire dalla seconda metà del 2021, che continua in modo irregolare per tutto il 2022. Anche in questa 3a fase c’è un considerevole numero di decessi, ma occorre notare che questi decessi si verificano in concomitanza col periodo in cui si registra il maggior numero di persone positive (nota la serie di picchi nel grafico blu, che raggiungono valori fino a più di 200.000 positivi al giorno).
Questa osservazione ci introduce al grafico in basso (colore bianco). Si tratta di un grafico che misura la letalità del virus, valutata guardando a quanti decessi si sono verificati in un determinato periodo, in rapporto al numero di persone che sono risultate positive al virus in quello stesso periodo[6]. I valori di letalità dalla seconda metà del 2020 si assestano tra l’1 e il 3%[7]. Il che vuol dire che in quel periodo, di 1000 persone che venivano diagnosticate positive al virus Sars-Cov-2, ne sarebbero poi decedute da 10 a 30. Osservando con attenzione il grafico, si nota che a partire dagli ultimi mesi del 2021 si assiste a un drastico calo nel tasso di letalità, che resta costante per tutto il 2022 a livelli attorno allo 0.3%, per poi risalire. Tornando all’esempio di prima, tra la fine del 2021 a tutto il 2022, su 1000 persone che venivano diagnosticate positive al virus Sars-Cov-2, ne decedevano 3, cioè fino a un decimo della situazione precedente. Cosa è successo in Italia dall’autunno del 2021 a tutto il 2022? La risposta è semplice: c’è stata un’estesa campagna vaccinale contro il virus Sars-Cov-2.
Facciamo allora qualche semplice calcolo numerico. Durante l’intero anno 2022 è stato riportato ufficialmente un totale di circa 50.000 morti per Covid-19. Un numero sicuramente alto, ma di fatto relativamente contenuto se si rapporta all’altissimo numero di contagi che si sono verificati in quel periodo (3a ondata nel grafico blu). Se infatti il tasso di letalità fosse stato pari a quello dell’anno precedente, prima della campagna vaccinale, quel numero di positivi avrebbe dato luogo a più o meno 300.000 morti. Questi numeri ci dicono che la campagna vaccinale ha salvato (solo in Italia!) un numero pari a circa 250.000 vite umane, cioè, più del totale di morti per Covid-19 che si sono verificati fino a oggi in Italia! Per inciso, dopo la campagna vaccinale il tasso di letalità è risalito per raggiungere valori simili al periodo precedente, ma tutt’oggi il numero assoluto di decessi rimane contenuto perché il numero di positivi al virus è calato drasticamente[8].
Questi sono numeri, non sono opinioni. Sono numeri che dovrebbero sollecitarci qualche riflessione. La prima cosa che mi viene in mente è l’intervento mio e di due stimati colleghi (Emanuele Negri e Graziano Riccioni) nel maggio del 2022, in occasione del 15° Convegno nazionale delle Edizioni GBU[9], in cui ci esponemmo a favore della campagna vaccinale allora in atto, all’interno di una polemica a tratti molto aspra sollevata da chi invece ne paventava i pericoli collegati a malvagie cospirazioni internazionali. Ricordo molto bene i commenti successivi in risposta a quell’intervento, e i moniti sulla grave responsabilità che ci eravamo assunti (davanti a Dio!) nell’esporre al rischio di morire tante ignare persone, senza che essi stessi fornissero poi alcuna evidenza oggettiva, documentata, a sostegno di quegli anatemi. La mia coscienza era pulita allora e lo è tanto più adesso, alla luce di quanto documentato sopra. Ma mi domando se coloro che si sono spesi per diffondere notizie infondate su complotti internazionali in atto, finalizzati a imporre una vaccinazione dannosa per la salute umana, non dovrebbero oggi valutare l’opportunità di riflettere sul proprio comportamento. Di fatto, almeno 250.000 persone (solo in Italia!) non sarebbero oggi in mezzo a noi se si fosse dato ascolto ai loro interventi minacciosi sui rischi dei vaccini. Sottolineo, non mi sto riferendo a chi, per motivi personali, ha deciso di non vaccinarsi. Sto parlando di chi si è fatto promotore della diffusione di notizie infondate su inesistenti pericoli dei vaccini, per dissuadere e scongiurare che altri si vaccinassero.
La speranza è che questi anni tribolati divengano solo un ricordo lontano che i giovani d’oggi potranno narrare ai loro nipotini, vantandosi di aver vissuto quell’esperienza riportata nei libri di storia. Tuttavia non sarebbe male se facessimo tutti quanti tesoro di ciò che è accaduto, magari anche solo per riflettere sugli enormi danni di cui possiamo divenire responsabili diffondendo notizie di cui non siamo certi circa l’origine e la correttezza. E su questo, non è utile rifugiarsi dietro l’alibi di averlo fatto innocentemente, solo “a titolo di informazione”, come spesso mi capita di sentire. Nel momento stesso in cui diffondiamo una notizia infondata, si diviene corresponsabili dei danni che essa provoca.
Inoltre, non sarebbe male riflettere sul clima di diffuso sospetto e scetticismo nei confronti della scienza, che si è tristemente radicato in gran parte del nostro mondo evangelico nel corso dell’ultimo secolo. Ci siamo dimenticati che il metodo scientifico affonda le sue radici nella cultura biblica, come illustri scienziati del passato (e anche del presente) mettono bene in chiaro. È triste constatare che il dilagante pensiero ateo scientista si sia appropriato della paternità di una disciplina che invece è nostra, ma gliel’abbiamo noi stessi consegnata in mano, guardando al mondo scientifico come a un nemico della fede. Un pensiero che consolidiamo ulteriormente nell’accostarci alle tante teorie cospirazioniste antiscientifiche oramai sempre più diffuse in rete. Se questa esperienza ci porterà perlomeno a iniziare un cambiamento nel nostro atteggiamento sospettoso nei riguardi dei risultati scientifici, allora il Covid-19 sarà stato una vera benedizione.
[1] https://ift.tt/L87skcA
[2] https://ift.tt/8ev2yiC
[3] Nota che i dati non sono numeri assoluti, ma il parametro statistico “z-score”, che è comunque direttamente correlato alla quantità di decessi.
[4] Questo dato non tiene conto delle persone che hanno contratto più volte il virus nel corso di questi anni, per cui questa cifra è verosimilmente una sovrastima.
[5] https://ift.tt/f5wyrAx
[6] Più precisamente, ogni giorno è stata calcolata la media dei decessi avvenuti quel giorno stesso e nei 6 giorni precedenti. Questo valore è stato rapportato (x100) alla media dei nuovi positivi riportati nella seconda settimana antecedente. Questa scelta è stata fatta assumendo un periodo di degenza di 2 settimane, da quando una persona era stata riconosciuta positiva al virus fino al suo decesso.
[7] Nota che nei primi mesi di pandemia il valore di letalità è talmente alto da andare fuori scala. Si tratta di valori che raggiungono anche l’80-90%, ma si tratta sicuramente di cifre non verosimili perché con tutta probabilità il numero di decessi era rapportato a un numero di positivi inferiore al dato reale, vista la scarsa diffusione di tamponi.
[8] Circa i motivi di questo calo nella diffusione del virus, lascio la parola ai virologi che spiegherebbero molto meglio di me questo fenomeno, non nuovo, di ondate di diffusione dei virus finché poi di fatto si estinguono. Detto questo, la risalita del tasso di letalità indica che il virus continua ad essere potenzialmente pericoloso, ed è per questo motivo che ne viene tutt’ora attentamente monitorata la diffusione.
[9] https://www.youtube.com/watch?v=2r5nJA6oPGY
L’articolo 5 anni dal Covid-19: tempo di bilanci numerici… e non solo proviene da DiRS GBU.
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Convegno Studi GBU – Impressioni
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di Maria Gil Orefice, laureanda in Filologia Moderna
“Vivere e confrontarsi con l’Islam” è il tema su cui si è incentrato il diciassettesimo Convegno di Studi GBU: tre giorni densi di seminari e approfondimenti estremamente interessanti ma soprattutto utili per conoscere meglio il mondo musulmano e comprendere i metodi migliori per instaurare un dialogo nella Verità con chi ne fa parte. L’oratore, insieme ai professori incaricati dei diversi seminari, ha accompagnato noi partecipanti nella scoperta dell’Islam, delle sue origini e di come si è evoluta la sua percezione nel corso dei secoli.
Due interventi che ho molto apprezzato personalmente sono stati quelli del professor Claudio Monopoli e della professoressa Aoife Beville. Il primo ha tracciato l’evoluzione della percezione del mondo musulmano nella letteratura italiana, da Dante che pone Maometto tra i seminatori di discordia (non tra gli eretici!) a Tasso che nella sua Gerusalemme liberata dipinge i musulmani come esseri completamente malvagi, con forze demoniache dalla loro. La professoressa Beville ha invece approfondito Il cavallo e il ragazzo di C.S. Lewis e il modo in cui l’autore ha descritto i Calormeniani al suo interno, sviluppando una riflessione molto interessante su come qualcosa che noi potremmo non notare neanche (in questo caso, la rappresentazione dei Calormeniani come uomini dalla pelle scura e la barba lunga e sporca che indossano turbanti) possa invece apparire evidente e dissuadere dalla lettura un musulmano che dovesse trovarsi a leggere. Collegandomi a questo, riporto uno dei punti fondamentali emersi durante il Convegno: per creare un dialogo con qualcuno altro da noi, è necessario approcciarsi con dignità a ciò in cui crede. Per quanto noi siamo giustamente convinti della Verità della Bibbia, non dobbiamo commettere l’errore di sminuire le persone musulmane con cui ci confrontiamo; non se vogliamo avere una possibilità di instaurare un dialogo sincero e utile a portarli a Dio.
Questo Convegno mi ha fornito vari spunti e tattiche utili a comprendere ed evangelizzare i musulmani, ma ciò che mi ha più colpita è senza dubbio come lo strumento più efficace nel portare i musulmani a Cristo sia il Corano stesso. Questo non ci è stato solo spiegato dall’oratore, Emil Shehadeh, ma anche testimoniato da un ragazzo cristiano di origini musulmane che ha raccontato come proprio leggendo il Corano abbia iniziato a porsi domande: perché l’Islam ritiene Maometto come massimo profeta, se nel loro libro sacro è evidente che Gesù sia il più glorioso tra tutti i profeti? Perché molti musulmani accusano i cristiani di aver modificato la Bibbia, se il Corano afferma che Allah non permette a nessuno di modificare la sua parola?
Conoscere il contenuto del Corano, quindi, rappresenta un vantaggio se si vuole instaurare un dialogo con persone musulmane. Emil Shehadeh ci ha fornito delle ottime basi di partenza; sta a noi, ora, continuare a studiare e approfondire il tema, se sentiamo la chiamata in questa direzione.
Questi tre giorni di Convegno sono stati un’esperienza intensa e davvero utile per la mia crescita spirituale, sono grata di aver partecipato e averne ricavato spunti utili per come evangelizzare o dialogare con persone di altre fedi in generale, oltre che musulmane nello specifico.
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L’evangelicalismo di Jimmy Carter
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(Daniel K. Williams)
Articolo tradotto e pubblicato con autorizzazione di Christianity Today
Quando Jimmy Carter parlò della sua fede in Cristo, durante la campagna elettorale per la presidenza del 1976, molti evangelici rimasero estasiati.
Nessun candidato aveva mai affermato di essere “nato di nuovo” o parlato così apertamente del suo rapporto con Gesù. Né aveva accolto mai i giornalisti nella sua classe di discepolato per adulti, che Carter continuò a tenere nello stesso periodo in cui si era candidato per la Casa Bianca. D’altronde, nessun altro candidato era mai stato un diacono di una chiesa battista del sud degli Stati Uniti.
Il pastore dell’Oklahoma, Bailey Smith, rivolgendosi alla folla radunata per l’incontro annuale della SBC, nel giugno del 1976, affermò che gli Stati Uniti avevano bisogno di un “uomo nato di nuovo alla Casa Bianca”. Poi aggiunse, nel caso qualcuno non avesse colto l’allusione, “Le iniziali del suo nome sono le stesse di quelle del nostro Signore!” [Jimmy Carter, come Jesus Christ, ndt]
Ma solo poche settimane dopo, la Third Century Publishers, una casa editrice evangelica riconducibile al fondatore di Campus Crusade for Christ, Bill Bright, pubblicò un libro che criticava duramente la bontà della fede evangelica di Carter. Il libro, What about Jimmy Carter? fu scritto da un giovane evangelista di nome Ron Boehme.
Boehme, quando sentì parlare per la prima volta della candidatura di Carter, disse di essersi “emozionato” all’idea che un cristiano nato di nuovo fosse candidato alla Presidenza. Tuttavia, man mano che approfondiva le convinzioni di Carter, la sua opinione sul candidato democratico si inasprirono. Scoprì che Carter aveva abbracciato una visione neo-ortodossa della Bibbia e sosteneva politiche liberali relative all’aborto e ai diritti degli omosessuali.
Boehme concluse che forse Carter non fosse affatto un evangelico o che addirittura non fosse neanche un credente. Scrisse: “Quando qualcuno, nella sua campagna politica e nel suo approccio alla legge, promuove o asseconda immoralità ed empietà allora non è un vero seguace di Gesù”. Prendendo in prestito di una delle affermazioni di Gesù nel Sermone sul Monte, Boehme aggiunse: “Un albero buono non può produrre frutti cattivi”.
Boehme non fu il solo a giungere a questa conclusione. Sebbene Carter nel 1976 avesse preso circa la metà dei voti degli evangelici bianchi, molti evangelici, nelle settimane che precedettero le elezioni, rilanciarono i dubbi di Boehme. L’intervista di Carter alla rivista Playboy turbò molti cristiani conservatori, e lo stesso effetto produssero alcune delle sue posizioni politiche.
Nel 1980, alcuni evangelici che un tempo avevano sostenuto Carter (come il conduttore radiofonico Pat Robertson) furono in prima linea nel movimento per sconfiggerlo alle elezioni di quell’anno. Carter, sostenevano, aveva promosso un “umanesimo secolare” grazie al sostegno di un programma femminista e al suo rifiuto di opporsi ai diritti degli omosessuali. In effetti, nel 1980, fu in gran parte una reazione alle politiche presidenziali di Carter che spinse la mobilitazione politica della destra religiosa e il forte sostegno evangelico a Ronald Reagan.
Dopo che Carter lasciò la Presidenza, la frattura tra lui e la leadership, sempre più conservatrice della Southern Baptist Convention, continuò ad approfondirsi. Alla fine, Carter lasciò la Convention per unirsi alla Cooperative Baptist Fellowship (SBC), una denominazione che ordinava le donne e rifiutava alcune delle posizioni politiche conservatrici della SBC.
Ma Carter continuò a definirsi un cristiano evangelico. Continuò a raccontare di leggere la Bibbia ogni giorno, di pregare costantemente e di tenere lezioni settimanali di scuola domenicale nella sua chiesa battista. Il suo lavoro di volontariato con lo Habitat for Humanity divenne leggendario. E spesso, mentre era ancora Presidente, aveva condiviso la sua fede con gli altri, incluso leader internazionali non cristiani.
Scrisse anche diversi libri sulla sua fede. “Sono convinto che Gesù sia il Figlio di Dio”, affermò nel suo ultimo libro, pubblicato nel 2018. Dichiarò che Gesù era il suo “personale salvatore “, e anche “una guida personale e un esempio per la propria vita e per quella degli altri. … Gli elementi fondamentali del cristianesimo valgono personalmente per me, modellano il mio atteggiamento e le mie azioni e contribuiscono a darmi una vita gioiosa e positiva, una vita che ha uno scopo”.
Dopo aver consultato la descrizione dell’evangelicalismo che aveva rinvenuto in un articolo di Wikipedia, e dopo averla integrata con note tratte da uno dei suoi commentari alla Bibbia, Carter concluse nel suo libro che egli non era solo un cristiano, ma che era un “cristiano evangelico”. Era nato di nuovo; condivideva la sua fede con gli altri e amava Gesù come suo personale Salvatore. Che cosa poteva esserci di più evangelico di questo?
Ma c’era una differenza tra la comprensione della fede che Carter mostrava e le opinioni dei suoi critici evangelici. La sua esperienza di conversione con la nuova nascita avrebbe potuto essere sicuramente simile alla loro, e la sua dedizione alla preghiera e alla lettura della Bibbia altrettanto forte della loro, ma su due questioni Carter era distante dagli evangelici conservatori della fine del XX secolo: l’inerranza biblica e la politica.
Questi erano proprio i temi al centro della crescita dei conservatori della Southern Baptist Convention che ebbe inizio proprio mentre Carter era in carica come Presidente. Per molti evangelici conservatori degli anni ’70, per Harold Lindsell, Francis Schaeffer e i leader della parte conservatrice all’interno della Southern Baptist Convention, il tema dell’inerranza biblica era centrale per l’identità evangelica. Sostenevano che senza una Bibbia infallibile i cristiani protestanti non avrebbero avuto una fonte di autorità che fosse stata stabile e trascendente. Il principio della Riforma del sola scriptura, combinato con una comprensione della perfezione e della sovranità di Dio, esigeva una scrittura infallibile.
Molti di questi evangelici sostenevano anche che il governo americano avesse bisogno di uno standard morale stabile e trascendente, basato sui principi cristiani. La legalizzazione dell’aborto e una nuova glorificazione pubblica dell’immoralità sessuale erano il risultato di politici e giudici che avevano dimenticato la legge di Dio.
La loro visione del cristianesimo che doveva avere un’influenza nella sfera pubblica si esprimeva principalmente nel bisogno di sostenere i principi morali cristiani a fronte della crescente secolarizzazione. Ritenevano la rivoluzione sessuale, insieme alla seconda ondata di femminismo, la più grande minaccia che la famiglia americana avesse mai subito. Ed erano determinati a fermare quella minaccia eleggendo persone devote nelle cariche pubbliche, persone che sarebbero state guidate dalla legge di Dio, non dalle tendenze culturali del tempo.
Carter, però, non condivideva nessuna di queste opinioni. Le sue idee politiche e religiose non erano state plasmate da una reazione alla rivoluzione sessuale, ma dall’esperienza del movimento per i diritti civili. Come altri bianchi del sud della sua generazione, Carter era cresciuto a contatto con la segregazione razziale e la disuguaglianza, e giunse alla conclusione che le chiese evangeliche bianche della sua regione erano per lo più dalla parte sbagliata della lotta per la giustizia degli afroamericani.
La chiesa battista di Carter a Plains, in Georgia, fu ufficialmente segregazionista fino al 1976. La comunità votò negli anni ’60 contro l’accoglienza di persone di colore quali propri membri, e Carter si oppose a quella decisione pur non abbandonando la chiesa. Eppure, come ricordò anni dopo nel suo libro Faith: A Journey for All, venne ispirato dagli esempi di altri cristiani che assunsero una posizione controculturale volta a superare la linea del colore presente nel sud segregazionista. Ad esempio, a poche miglia dalla sua casa di Plains, Millard e Linda Fuller diedero il via a un’impresa agricola cristiana interrazziale, chiamata Koinonia, per poi fondare Habitat for Humanity.
Incontri con persone come i Fuller convinsero Carter che ciò di cui il paese aveva bisogno non era una campagna pubblica per riportare l’America a Dio. Era una concreta imitazione dell’etica di Gesù. Dopotutto, era in questo modo che i sostenitori cristiani afroamericani dei diritti civili avevano ottenuto il sostegno dei cristiani bianchi, che in precedenza erano contro di loro, in quanto furono toccati dall’esempio dell’amore cristiano che avevano visto tra gli attivisti.
Carter fu così colpito da esempi del genere tanto da incorniciare la sua fede intorno a questo principio piuttosto che intorno a specifiche rivendicazioni dottrinali. Ma più leggeva le Scritture, più veniva colpito dall’etica di Cristo e più desiderava avere Gesù come suo “amico” per grazia mediante la fede.
Per Carter, quindi, l’inerranza biblica non era un problema. Giunse a pensare che forse la Bibbia potesse contenere alcune contraddizioni interne che non potevano essere armonizzate, e che parti della Bibbia potessero avere bisogno di essere reinterpretate alla luce della scienza moderna. Ma questo non aveva importanza, poiché il racconto della vita di Gesù era al contrario storicamente corretto.
Similmente, Carter ritenne che le priorità politiche della destra cristiana fossero sbagliate, perché erano incentrate non sull’etica di Gesù ma sull’idea errata che i valori della famiglia potessero essere imposti per legge. In quanto battista arminiano, Carter si opponeva ai credi: credeva nel sacerdozio di tutti i credenti e insisteva fermamente sul fatto che la fede, per essere autentica, dovesse essere liberamente scelta. Non poteva essere dettata dalla legge, sostenne in dei suoi numerosi libri, tra cui Our Endangered Values: America’s Moral Crisis e Faith: A Journey for All.
Seguire Gesù mentre si occupava una carica pubblica non poteva significare allora imporre standard cristiani per legge. Per Carter, doveva significare agire con integrità e con sollecitudine per tutte le persone. E se la nazione si fosse rivolta a Dio, allora il frutto di questa conversione non sarebbe stato necessariamente quello di leggi contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso o contro l’aborto. Sarebbe stato, al contrario, un dedicarsi “alla risoluzione delle controversie con mezzi pacifici” e un impegno per “libertà e per i diritti umani” a favore degli altri, incluso, e in particolar modo, i diritti delle donne che, secondo lui, troppi evangelici conservatori ignoravano.
La fede di Carter appariva più funzionale al protestantesimo storico che non all’evangelicalismo americano di fine XX o di inizio XXI secolo, e gli evangelici non avevano torto quando rilevavano questa differenza. Ma Carter è rimasto un battista per tutta la vita in quanto credeva in una conversione frutto della nuova nascita, in una relazione personale con Gesù e nella necessità di condividere la propria fede con gli altri. Parlava sempre di fede con un accento evangelico e, nonostante le sue differenze rispetto ai cristiani più conservatori, nutriva un amore per lo stesso Salvatore.
Nell’ottica della storia, e grazie al periodo più lungo di una post-presidenza americana, queste somiglianze sono forse più facili da vedere oggi di quanto non lo fossero nel 1980. La determinazione di Carter a estendere l’amore di Gesù è stato il miglior riflesso del Sermone sul Monte di quanto non si rendessero conto i suoi critici evangelici.
Daniel K. Williams insegna American history presso la Ashland University ed è autore di The Politics of the Cross: A Christian Alternative to Partisanship.
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10 considerazioni per un dialogo all’insegna del vivere e confrontarsi con …
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(di Giacomo Carlo Di Gaetano)
Manifesta virtù cristiane (ascolto e attenzione) e non è espressione della mollezza o della debolezza postmoderna né tanto meno di uno scivolamento verso forme di religionismo o ecumenismo (Col. 4:6; Gc 1:19; Rom 12:18)
È impensabile un dialogo in cui il cristiano rinunci alle verità proclamate da Gesù o rinunci alla testimonianza cristiana in quanto ciò significherebbe rinunciare al proprio essere cristiani (Gv 14:6; Rom 1:16–17, 2:16; 2 Tm 3:16–17; Eb 4:12–13; Gv 17:17).
«I cristiani che hanno una posizione dottrinale chiara hanno buone opportunità nel dialogo [p.es. con i musulmani], poiché un convinto fedele musulmano parlerebbe di buon grado più con un cristiano convinto che con un cristiano cosiddetto “liberale” che non conosce la sua fede o con un ateo» (Schirmacher, p. 75).
Le verità fondamentali del cristiano devono essere ricondotte in ultima analisi alla persona e all’opera di Gesù. Nel dialogo i nostri interlocutori non incontrano Gesù ma semplici testimoni. Per questo le verità fondamentali non coincidono con il fondamentalismo, termine utile più a fotografare forme e comportamenti degli individui piuttosto che verità da comunicare.
Il dialogo ha due facce: da un lato c’è l’approccio critico verso le posizioni altrui (Paolo e i suoi sentimenti ad Atene) dall’altro c’è il desiderio di condurre lo stesso dialogo con mansuetudine e rispetto (At 17:16 e 22; 1 Pt 3:15–16)
La verità e l’amore nel dialogo sono possibili solo presupponendo la pari dignità degli interlocutori. A tal fine il cristiano si impegna a non nascondere o camuffare ciò in cui crede ma anche a non disdegnare la condizione di “credente” dell’interlocutore.«Nel dialogo ci facciamo reciprocamente partecipi della nostra umanità, con la sua dignità e la sua degradazione, ed esprimiamo la nostra comune sollecitudine per questa umanità» (Stott, p. 86)
Nel dialogo il nostro interlocutore non sta interagendo direttamente con Dio ma con altri esseri umani che hanno fatto una particolare esperienza di e con Dio.
«I cristiani desiderano che le persone trovino pace con Dio, ricevano il perdono e credano che solo in Dio c’è la verità. Ma queste stesse persone non hanno peccato contro di noi e non devono inginocchiarsi davanti a noi per essere giustificate. Noi stessi non siamo coloro che hanno la verità in tutto e che in ogni cosa che dicono professano sempre la verità. I cristiani non sono onnisapienti» (Schirmacher, p. 74)
«Il mio interesse non è mai diretto al buddismo ma a una persona vivente e al suo buddismo; non stabilisco mai un contatto con l’Islam, ma con un musulmano e il suo maomettismo» (J.H. Bavink, in Stott, p. 85)
Nel cristianesimo i diritti non derivano dal fatto di essere cristiani ma dal fatto che siamo creati a immagine di Dio. Ci sono religioni che accordano diritti unicamente ai propri fedeli. Solo nel cristianesimo si concepisce l’idea di operare e implementare i diritti di tutti, incluso di coloro che sono contro il cristianesimo.
Il dialogo per i cristiani non discende dal fatto che siamo chiamati a proclamare l’amore di Dio (mandato evangelistico) ma dal fatto di sapere che siamo dei peccatori perdonati.
I nostri interlocutori devono riconciliarsi con Dio e non con noi. Dunque, è importante che nel dialogo non si dia l’impressione di voler conquistare qualcuno alla nostra causa, enfatizzando la nostra identità religiosa (cristiani vs musulmani; evangelici vs cattolici, etc.).
Le identità devono essere ridimensionate a causa dell’eccellenza di Gesù Cristo (Fil 3).
Dall’insegnamento delle Scritture possiamo estrapolare diversi modelli. Due in particolare possono rivelarsi utili.
Il primo modello ci impone una scelta: le preghiere del pubblicano e del peccatore (Lc 18:1–13).
Il secondo ci suggerisce una strategia: il dialogo di Gesù con la donna “samaritana” (Gv 4). Dove bisogna adorare, a Gerusalemme o a Samaria? La risposta di Gesù rileva il fatto che sebbene si possa pensare a una preminenza di una località (la salvezza viene da Sion) tuttavia ora si adora in modo diverso.
Il dialogo (p.es. con i musulmani) verterà sulle somiglianze tra le due fedi. Allorquando le somiglianze saranno esplorate e condivise, in quel momento, accadrà che un musulmano avrà esaurito i propri argomenti.
Un cristiano invece inizierà proprio da lì, dalle somiglianze, per rendere la sua testimonianza:«I cristiani non credono semplicemente in un creatore che desidera che facciamo la sua volontà. Piuttosto, credono in un Dio trino la cui seconda persona, Gesù Cristo, ha compiuto la salvezza per il mondo: egli ha conseguito la salvezza per il mondo in quanto l’umanità non è capace di liberarsi dalla colpa dell’ingiustizia. Sono proprio queste le cose indispensabili per i cristiani e queste non appaiono nella lista delle somiglianze tra l’Islam e il Cristianesimo» (Schirmacher, p. 76).
Breve bibliografia
L’articolo 10 considerazioni per un dialogo all’insegna del vivere e confrontarsi con … proviene da DiRS GBU.
source https://dirs.gbu.it/10-considerazioni-per-un-dialogo-allinsegna-del-vivere-e-confrontarsi-con/
La fede è dannosa (?)
Di Cristiano Meregaglia, Staff GBU Milano.
L’articolo è la sintesi del seminario che lo stesso Cristiano ha proposto ai coordinatori durante la Formazione GBU (ndr)
Così cantava John Lennon nel 1971, auspicando un tempo in cui le persone potessero vivere, finalmente, solo per l’oggi, senza essere oppresse dal pensiero di un paradiso o un inferno che si schiudessero loro davanti al momento del trapasso. Un mondo in cui non ci fossero nazioni e religioni, contrapposte le une alle altre, ad impedire una pace altrimenti possibile.
Certo, seppur a distanza di più di 50 anni, queste parole e questi auspici sono ancora presenti, e forti, nella società in cui viviamo. Parole che sembrano suggerire che la fede è non solo razionalmente insostenibile, ma anche moralmente dannosa. Pertanto, la società risulterebbe molto più funzionale se, da essa, si sradicasse ogni radice religiosa.
Il “nuovo” ateismo
Tutto ciò è stato sostenuto, in modo esplicito, dai principali esponenti del cosiddetto movimento del New Atheism. Questi hanno dedicato lunghe pagine a descrivere, senza mezzi termini, i grandi mali che la religione ha prodotto nella storia. Dalle crociate alla Jihad, dalle guerre di religione ai regimi teocratici contemporanei, questi intellettuali hanno messo bene in evidenza come la soluzione per un mondo migliore sembri essere proprio quella prospettata dal cantante dei Beatles.
È interessante notare, però, che, sebbene questi autori vengano appellati come nuovi atei, le tesi che sostengono sono tutt’altro che nuove. Esse sono infatte desunte, a tutti gli effetti, dalle riflessioni di pensatori del passato. Tra questi pensatori del passato è impossibile ignorare Bertrand Russell. Con la raccolta di saggi confluiti nel testo Perché non sono cristiano, Russell rappresenta, a tutti gli effetti, un riferimento normativo per buona parte della letteratura prodotta in seno al nuovo ateismo.
La religione: una malattia da estirpare
In uno di quei saggi, intitolato “La religione ha contribuito alla civiltà?”, infatti, Russell espone proprio quelle tesi che, decadi dopo, Dawkins, Hitchens, Harris, Odifreddi, Augias e altri intellettuali contemporanei continuano a proporre per sostenere il danno prodotto dalla religione. Nella fattispecie, Russell sostiene che la religione sia «una specie di malattia, frutto della paura e fonte di indicibile sofferenza per l’umanità». Questo sostanzialmente per due motivi che hanno a che fare con la sfera intellettuale e con quella morale. Infatti, da un lato la religione impedisce il libero pensiero e la libera indagine razionale; dall’altro imponendo una morale, ritenuta assoluta e ancorata a concetti arcaici, produce i conflitti alla base dell’infelicità umana. Così, infatti, si esprime a conclusione del suddetto saggio:
Ora, per quanto mordenti siano tali critiche, è utile sottolineare che è lecito, e forse doveroso, essere d’accordo con alcune delle istanze presenti nel saggio. È indubbio, infatti che diverse persone, reclamanti il nome di cristiani (o di altre religioni), nel corso della storia, abbiano compiuto azioni effettivamente riprovevoli, spesso abusando della posizione sociale fornita loro dalla religione; ed è altrettanto condivisibile l’insistenza sulla necessità di rifiutare una fede acritica, che non sia consapevole di ciò che crede e del perché lo creda.
Stante ciò, però, è anche necessario indicare come tali critiche, in verità, si espongano a delle forti contro-obiezioni, le quali possono essere articolate secondo tre linee di risposta.
1. Ciò che Cristo predicava e l’impatto sulla società
Innanzitutto è facilmente dimostrabile come il cristianesimo vero, quello incarnato e predicato da Gesù Cristo stesso, sia radicalmente diverso dalle altre religioni e, in molti casi, dalla rappresentazione che di esso ne hanno fatto i cristiani. Il vero cristianesimo, infatti, lungi dall’essere fonte di violenza, ha alla propria radice la persuasione attraverso la contrizione interiore, piuttosto che la costrizione esteriore tramite l’uso della forza. Non è un caso, perciò, che, quando Gesù, a poche ore dalla sua condanna a morte, si trovò nel Getsemani e Pietro provò a difenderlo con le armi dai suoi nemici, non solo ordinò al suo discepolo di riporre la spada nel fodero, ma guarì anche il servo del sommo sacerdote che era stato ferito proprio da quella spada (Mt 26:51-52; Lc 22:51)
È facile mostrare, inoltre, che il vero cristianesimo non solo non è causa di male per la società, ma che, piuttosto, la società intera ha beneficiato dell’influsso del cristianesimo, il quale ha generato ospedali, croce rossa, orfanatrofi, università… al punto che un giornalista ateo ha potuto scrivere, su The Times, che, in Africa, il contributo che l’evangelismo ha dato per il progresso della società è stato di gran lunga superiore a quello fornito da qualunque altra organizzazione, governativa o meno che fosse (M.Parris, The Times, 27.12.2008).
2. Una società che vuole liberarsi di Dio
In secondo luogo, si può, altrettanto facilmente, mostrare come una società in cui Dio sia rimosso si apra alla possibilità di qualunque violazione e sopruso da parte dei più potenti, proprio perché si rimuove il presupposto secondo cui si debba rendere conto delle proprie azioni davanti ad un Dio giusto. Di tali situazioni il XX secolo abbonda di esempi, dalla Russia di Stalin, alla Cina di Mao, alla Cambogia di Pol Pot. Il premio Nobel per la letteratura Solzhenitsyn, a riguardo, affermava che «se si chiedesse oggi di formulare nella maniera più conscia possibile la causa principale della rovinosa Rivoluzione che ha inghiottito 60 milioni di persone del nostro popolo, non potrei essere più accurato nel dire: gli uomini hanno dimenticato Dio; ecco perché è accaduto tutto ciò» (A. Solzhenitsyn, Templeton Prize Address, 1983).
3. Fallacia argomentativa
Si può, infine, evidenziare come proprio i principi in base ai quali oggi si critica la religione sono principi cristiani, principi che non ci sarebbero se non ci fosse stata la rivoluzione culturale prodotta da Gesù e dal conseguente cristianesimo. La libertà, l’uguaglianza, il progresso, la scienza, la pace che sembrano essere messi in dubbio, nella società, dalla religione, sono, in verità, nient’altro che il prodotto del cristianesimo, e noi ne siamo così immersi che sono come l’aria che respiriamo (cfr. G. Scrivener, The air we breath, Introduzione).
La Riforma del “pensare” storico
Tempo di lettura: 5 minuti
di Giacomo Carlo Di Gaetano
È uso ormai da qualche decennio, in Italia, che il 31 ottobre sia una data in cui la ricorrenza, convenzionale, dell’inizio della Riforma protestante (1517) venga segnalata da una serie di iniziative. Le iniziative sono in crescita, sotto la rubrica di vari slogan che coinvolgono la memoria ma anche l’attualizzazione e la realtà del senso della Riforma protestante.
Un clima del genere, sebbene attenga, per il momento, all’enclave evangelico e protestante, non può che essere positivo per un contesto storico e ideale come quello italiano dove abbiamo nell’archivio dell’identità nazionale il passaggio sulla “Riforma mancata” di Piero Gobetti (1901–1926).
Alla precarietà ed esiguità del recupero della memoria (che è comunque un fatto positivo, lo ribadiamo) si aggiunge anche la constatazione che un tale recupero risente delle varie anime del mondo evangelico che mettono in campo sguardi retrospettivi diversi sulla Riforma. Agli estremi abbiamo lo sguardo quasi agiografico di chi “inventa” una Riforma fatta di eroi a quello più ponderato dell’analisi storica (che è quello a cui ci sentiamo più vicini).
Ma questa pluralità degli approcci al fenomeno riformistico del 1500 e a ciò che significa nell’oggi, fa emergere un tema suggestivo che cercherei di esplicitare in questo modo: in che modo il “pensare” storico (che è memoria, rievocazione, ricordo, etc.) può e deve beneficiare esso stesso di alcuni principi che la Riforma ha introdotto nella storia e nella sensibilità dell’Occidente? Se la Riforma è stato quell’evento che ha riproposto la centralità della Bibbia per tutte le aree dell’esistenza, in che modo questa centralità condiziona lo stesso approccio alla storia?
Ci sarebbero diversi percorsi che potrebbero intraprendersi e questa riflessione non è altro che uno spunto. L’area coperta dalle riflessioni storiografiche è amplissima e abitata da tanti luminari che hanno segnato la stessa coscienza occidentale.
Proviamo però a fare questo esercizio.
La prima proposta concerne l’evento storico della Riforma in sé e per sé. Dobbiamo fale nostra la constatazione, che orami è acclarata, che forse sarebbe più corretto parlare di vari rivoli della Riforma, di “riforme”, non sempre sovrapponibili. Personalmente metterei tra parentesi, in questa piccola riflessione “evangelica”, l’interrogativo se la Controriforma sia essa stessa una Riforma.
Quando parliamo di Riforma “protestante”, infatti, abbiamo tra le mani un materiale estremamente variegato e plurale per dinamiche temporali (basti pensare alle differenze tra l’Europa del 1517 e quella della Notte di San Bartolomeo, 1572), per fenomeni sociali (da Enrico VIII alla rivolta dei contadini), per sensibilità culturali e teologiche, e così via.
Forse, il segno più forte, più marcato della pluralità e perfino dell’eterogeneità della Riforma è dato dalla distinzione che si va sempre più affermando e chiarificando tra Riforma Magisteriale (che si affida al magistrato – leggi Lutero e Calvino) e Riforma Radicale.
Se si vuole capire che cosa ha realmente prodotto la stessa riscoperta riformistica di Lutero (la giustificazione per fede), la pedagogia catechistica di Calvino e gli esperimenti ecclesiastici di Zwingli non bisogna solo guardare alla lunga e orribile sequela della repressione controriformistica. Bisogna guardare al coraggio che ebbero gli Anabattisti di portare la Riforma agli estremi, con il gesto eclatante del battesimo degli adulti. La Riforma non doveva fermarsi all’ambito della teologia e divenire poi scolastica e poi ancora guerra di religione, doveva toccare il cuore dell’esperienza cristiana: il modo di essere chiesa secondo il Nuovo Testamento e l’impatto che questo doveva avere nella società, nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra cultura e fede.
La Riforma del pensiero storico (e delle celebrazioni) che guarda alla Riforma passa dal riequilibrio e dalla riscoperta della Riforma radicale. Il 1525 (anno in cui si registrarono i primi battesimi degli adulti) deve essere affiancato al 1517, con buona pace di Lutero, e Calvino, che avevano in orrore il coraggio degli Anabattisti fino al punto di perseguitarli!
C’è un secondo punto, ideale, in questa «riforma del pensare storico». Esso concerne l’epicentro da cui tutto si propagò. Sicuramente si trattò della Bibbia, del sola Scriptura – a questa proposito, e a beneficio di questa riforma del pensare storico, dobbiamo ricordare che i cinque “SOLA” non vennero dalla scrivania di Lutero o di Calvino, così tutto di un botto, ma furono il frutto anch’essi di una riflessione, guarda caso, storica!
Ma dietro e dentro il sola Scriptura agiva il principio umanistico del ritorno alle fonti (ad fontes). Lo scrive molto semplicemente Giancarlo Rinaldi nel suo Breve profilo di storia del cristianesimo. Dalla Riforma a oggi: «La parola d’ordine circolante tra gli umanisti era “tornare alle fonti”; questa stessa formula la ritroveremo anche tra i riformatori desiderosi di tornare alla Bibbia quale fonte, unica, della verità per il cristiano» (p. 19).
Una «riforma del pensare storico» deve dunque preoccuparsi di guardare alla Riforma con l’acribia dell’umanista del ‘500.
Non deve accontentarsi delle tradizioni che incapsulano il passato. Queste tradizioni, che possono essere di ordine confessionale (p.es. luteranesimo, calvinismo, anabattismo, etc.) appaiono, soprattutto oggi, di ordine puramente ideologico e hanno un evidente risvolto di politica ecclesiale. Almeno in due direzioni: accentuare, sul piano della memoria – perché è di questo che parliamo – il solco della contrapposizione tra i cosiddetti “evangelicali” e cosiddetti “liberali”; in secondo luogo, affermare una leadership intellettuale nei confronti di un evangelismo che per il fatto di concepirsi (o essere etichettato) come “fondamentalista” e “pentecostale”, di per sé ha bisogno di una educazione teologica che includa anche la formattazione della memoria.
Se vogliamo essere fedeli allo spirito riformistico, dobbiamo tornare alle “fonti” della Riforma. L’umiltà e l’entusiasmo umanistico che si immerge nel mare delle fonti storiche può essere una panacea per chi da un lato vuole leggere nella Riforma le dinamiche contemporanee ma anche per chi vuole costruire un’età dell’oro da contrapporre al dominio del Cattolicesimo. Ma anche per chi potrebbe erroneamente sentirsi senza un album di famiglia.
Su tutti noi evangelici italiani incombe l’intuizione ottocentesca: nel mentre si accumulavano “fonti” relative ai fatti di religione della penisola, incluso quelle sulla diffusione della Riforma in Italia, si interpretava lo stesso spirito riformistico con un sonoro quanto sorprendente: “non siamo né protestanti né cattolici”.
Il terzo elemento di una riforma del pensare storico deve riguardare il racconto della storia nel presente. Perché celebriamo il 31 ottobre? Che cosa ci muove veramente? Qui la «riforma del pensare storico» deve per forza di cose prendere una strada “biblica”. Possiamo imparare da Ebrei 13:7–9
7 Ricordatevi dei vostri conduttori, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio, e, considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede.
8 Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno. 9 Non vi lasciate trasportare qua e là da diversi e strani insegnamenti; perché è bene che il cuore sia reso saldo dalla grazia
Una straordinaria sintesi di un’autentica riforma della memoria.
Il ricordo, la celebrazione sono in funzione dell’esaltazione (soli Deo gloria) dell’unica realtà che trascende il tempo, anche il tempo della storia, vale a dire Gesù Cristo, il Risorto, il Vivente (solus Christus).
Ed è solo questa esaltazione, nel fluire delle generazioni, e delle epoche storiche, che ci permetterà da un lato di stare fermi nella grazia (sola gratia) e dall’altro lato di ringraziare per gli esempi del passato che vanno considerati nella loro umanità (considerando la loro fine – incluso i loro errori?) e di prendere ciò che ci lasciano, la fede, che è la cosa che possiamo manifestare qui, oggi, anche il 31 ottobre del 2024, poiché è la nostra fede, non quella di Lutero e Calvino (sola fide)!
L’articolo La Riforma del “pensare” storico proviene da DiRS GBU.
source https://dirs.gbu.it/la-riforma-del-pensare-storico/
La vera grandezza!
di Sharon Fichera, coordinatrice GBU Bologna
Ciao a tutti! Mi chiamo Sharon, ho 20 anni e sono siciliana. Sono anche bolognese di adozione, da quando mi sono trasferita nella capitale dei tortellini per studiare Lettere Classiche. Amo Gesù e amo parlare di Lui, e proprio per questo, quando ho conosciuto il GBU me ne sono innamorata e mi sono unita al gruppo di studenti a Bologna.
Quest’anno ho partecipato alla Formazione per coordinatori, che si è tenuta a Rimini a inizio ottobre. Brevemente, la Formazione prepara giovani leader per essere un supporto al GBU a livello locale. Inutile dire che Dio ha lavorato in me più di quanto mi potessi aspettare, e per questo voglio raccontarvi la mia esperienza.
Il programma si è sviluppato seguendo tre filoni:
Bibbia e Preghiera
Abbiamo approfondito la conoscenza delle Scritture e il nostro rapporto con Dio tramite studi biblici induttivi (SBI), preghiera, lode e prediche. In questo track abbiamo studiato i capitoli 8-10 di Marco. Ciò che mi ha colpito è stato vedere il continuo gioco di potere intrinseco nell’animo umano. Gesù cercava di insegnare ai discepoli che dovevano sacrificare sé stessi ogni giorno, amare e servire gli altri con disinteresse, smetterla di cercare di guadagnarsi la vita eterna con i propri sforzi e accettare l’amore di Dio. Loro invece si comportavano con arroganza, non capivano gli insegnamenti di Gesù e credevano di essere superiori agli altri, oltre che a fare a gara tra loro stessi su chi fosse il maggiore. Gesù cercava di insegnare loro cosa fosse la vera grandezza, ma loro (e spesso anche noi) avevano un cuore duro.
Coordinatori
Questo track era pensato per farci apprendere chi un coordinatore deve essere e cosa deve fare per dare il giusto apporto al GBU locale e alla missione nell’università. È stato bello concentrarci anche sulle nostre potenzialità e quelle dei nostri gruppi GBU. Ciò che mi ha colpito di più è stato imparare cosa voglia dire essere coordinatori maturi. La definizione che abbiamo dato di maturità spirituale è “Crescita costante, coerente e consapevole in Cristo”. Per camminare in questa crescita è necessario morire a sé stessi, accettare la sofferenza, abbracciare il sacrificio e la croce, consapevoli che tutto ciò lo si attraversa per una gioia e una gloria più grandi, ovvero la proclamazione del vangelo e l’avanzamento del Regno di Dio.
Evangelizzazione
Con questo track ci siamo concentrati su condividere Gesù da studente a studente, sia individualmente che come gruppo locale. Mi è piaciuto molto un seminario dal titolo “La fede è dannosa (?)”, in cui abbiamo letto alcune delle critiche mosse al cristianesimo nel corso della Storia e della Filosofia. Ho trovato utile e stimolante ricevere degli strumenti per controbattere a queste critiche. Inoltre, è stato molto interessante notare come molte persone non siano indignate o in collera a causa di Dio, ma a causa di ciò che la Chiesa ha fatto in nome di Dio. Questo mi ha sfidato ad essere un buon esempio per chi mi circonda e a onorare Cristo in ogni cosa che faccio.
Ma la Formazione, a livello pratico, a cosa è servita?
Personalmente, la formazione mi ha incoraggiata e sfidata ad avere consapevolezza del mio ruolo come coordinatrice, a servire gli altri, a sacrificare me stessa per Cristo, a vivere una vita di preghiera, a cercare il volto di Dio, e a diffondere il vangelo senza vergogna. Sono sicura che tutti noi presenti lì abbiamo ricevuto una grande spinta a lavorare nei nostri GBU, per i nostri GBU e con i nostri GBU, per condividere Gesù da studente a studente.
A questo punto rimane una sola domanda, implicita, a cui rispondere: “Qual è la vera grandezza?”
Per scoprirlo basta guardare a Gesù, il più grande Re che abbia calpestato la Terra, il servo che lavò i piedi ai suoi discepoli.