Senza Umanesimo niente Riforma
di Alister E. McGrath
Il termine “Umanesimo” è facilmente soggetto a fraintendimenti. Nel ventunesimo secolo questa parola è spesso utilizzata per indicare una sorta di “ateismo” o di “secolarismo” e per definire una concezione del mondo che esclude (o almeno evita di farvi riferimento) la fede nel soprannaturale. In età rinascimentale il termine presentava delle connotazioni decisamente diverse. Il Rinascimento fu un importante periodo di rigenerazione culturale che ebbe inizio in Italia nel quattordicesimo secolo e gradualmente si diffuse in gran parte d’Europa, raggiungendo l’apice della sua influenza nei primi anni del XVI secolo. La sua tesi centrale era che la cultura del tempo poteva essere rinnovata grazie a un confronto creativo con l’eredità culturale del passato, soprattutto con l’eredità dell’antica Grecia e di Roma.
L’Umanesimo può essere visto come la filosofia che sta dietro il Rinascimento. La cosa migliore è intenderlo come il perseguimento di un’eloquenza e di un’eccellenza culturale che affonda le sue radici nella convinzione che i modelli più alti si trovino nelle civiltà classiche di Roma e di Atene. Il suo metodo di fondo può essere sintetizzato nello slogan latino ad fontes, parafrasabile con «ritorno alle fonti»! Un fiume è nel suo stato di maggior purezza alla sua fonte. L’Umanesimo promuoveva il superamento del «Medioevo» (espressione che, non per nulla, è una creazione umanistica, volta a minimizzare questo disprezzato intermezzo storico fra le glorie del
mondo antico e il loro rinnovamento nel Rinascimento) così da poter consentire al presente di essere rinnovato e rinvigorito, attingendo in profondità alla sorgente dell’antichità. Gli effetti di questo programma sono osservabili su una sorprendente molteplicità di piani. Gli stili architettonici classici vennero a essere preferiti all’imperversante gotico. L’elegante stile di Cicerone rimpiazzò la forma piuttosto ridondante e imbarbarita di latino utilizzata dagli scrittori scolastici. Nelle università si metteva una grande passione nello studio del diritto romano e della filosofia greca. In tutti i casi si può vedere in azione lo stesso principio di base: ora che la cultura occidentale era diventata stanca, spenta e priva di direzione, la sua sorgente aveva la capacità di conferirle nuova vita e nuovo vigore.
La maggior parte degli umanisti dell’epoca, come il grande Erasmo da Rotterdam, erano cristiani interessati al rinnovamento e alla riforma della chiesa. Perché allora non applicare lo stesso metodo di rigenerazione al cristianesimo? Perché non tornare ad fontes, alle fonti originali della fede, e non consentire loro di conferire nuovo vigore a una chiesa che ormai si era bruciata e aveva perso credibilità? Era possibile riconquistare la vitalità e la semplicità dell’età apostolica? Nel quindicesimo e agli inizi del sedicesimo secolo questa era una visione potente, motivante, capace di catturare l’immaginazione di tanti laici.
Come fare, però? Qual era il corrispettivo religioso della cultura del mondo classico? Qual era la sorgente del cristianesimo? Gli umanisti cristiani avevano pochi dubbi: la Bibbia, soprattutto il Nuovo Testamento. Era questa la fonte ultima della fede. Gli scritti dei teologi medievali si potevano mettere da parte senza nessun problema, in modo da consentire un confronto diretto con le idee del Nuovo Testamento. Le interpretazioni ecclesiasticamente rassicuranti e familiari della Bibbia, riscontrabili nella teologia scolastica, dovevano essere accantonate in favore di una lettura diretta del testo. Per gli ecclesiastici conservatori si trattava di un passaggio pericoloso e minaccioso che aveva il potenziale di destabilizzare l’equilibrio teologico, frutto di delicati compromessi, raggiunti nel corso di tanti secoli. L’istanza umanistica di tornare alla Bibbia risultò un appello decisamente più radicale di quanto tanti alti prelati non fossero disposti a digerire.
Gli umanisti erano per lo più studiosi, uomini di lettere che sottolineavano che questo ritorno sistematico alla Bibbia dovesse realizzarsi sulla base del meglio che l’erudizione accademica potesse offrire. L’effettivo messaggio della Bibbia, che andava letta nelle sue lingue originali, doveva essere stabilito sulla base della più affidabile metodologia testuale. Immediatamente l’autorità della traduzione latina della Vulgata si trovò a essere minacciata. Quando gli studiosi umanistici si posero a esaminare nei particolari la storia del testo, incominciarono a emergere problemi. Domande difficili pressavano con forza crescente sulla sua integrità testuale e sulla sua attendibilità filologica. Quando la Vulgata fu spassionatamente comparata con i migliori manoscritti greci, si iniziarono a notare degli errori. Furono identificate delle varianti testuali. Nel 1516 Erasmo stesso licenziò un’edizione del testo greco del Nuovo Testamento che provocò una specie di ciclone. Pur contenendo molti errori, produsse un cambiamento epocale di mentalità, mettendo in dubbio in diversi punti il vigente testo biblico della Vulgata. Per mettere la cosa nei termini più crudi possibili: se Erasmo aveva ragione, c’era il caso che alcune enunciazioni, accettate come “bibliche” dalle precedenti generazioni, non facessero neppure parte del testo originale del Nuovo Testamento. Che implicazioni aveva questo, si chiesero allora in molti, per quelle dottrine della chiesa che
erano basate su tali enunciazioni?
Uno dei testi spesso utilizzati dai teologi medievali per difendere la dottrina della trinità è di particolare interesse: «Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza nel cielo: il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue; e questi tre sono d’accordo come uno» (1 Gv 5:7–8, ND).
Erasmo sottolineò che le parole «il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra» non si trovano in nessun manoscritto greco. Furono aggiunte successivamente alla Vulgata latina, probabilmente dopo l’800, pur non essendo note in nessuna antica versione greca. La spiegazione più verosimile è che queste parole siano state inizialmente aggiunte come “glossa” (un breve commento posto accanto o sotto il testo) e che un successivo scriba abbia presunto che facessero parte del testo stesso e ve le abbia quindi incluse nei successivi testi latini, senza sapere che non facevano parte del testo greco originale del Nuovo Testamento32. Se un tale brano doveva essere dichiarato «non biblico» questa, la più difficile delle dottrine cristiane, sarebbe potuta diventare pericolosamente vulnerabile.
L’esigenza di una lettura della Bibbia nelle sue lingue originali incontrò un ampio consenso in tutta l’Europa occidentale. Chi voleva promuovere gli ideali del Rinascimento aspirava a essere trium linguarum gnarus, vale a dire competente in greco, ebraico e latino. Tutto ciò portò alla fondazione di collegi per lo studio delle tre lingue o in alcuni casi di una cattedra per ciascuna delle lingue come avvenne, per esempio, nelle università di Alcalá in Spagna (1499), Wittenberg in Germania (1502), Oxford in Inghilterra (il Corpus Christi College, 1517), Lovanio nell’odierno Belgio (1517) e presso il Collège royal de France a Parigi (1530)33.
Non passò molto tempo perché la possibilità di seri errori di traduzione scoperti nella Vulgata minacciasse di imporre una revisione degli insegnamenti ecclesiastici in essere. Erasmo ne evidenziò alcuni nel 1516. Un ottimo esempio si trova nella traduzione della Vulgata delle parole con cui si apre il ministero di Gesù in Galilea (Mt 4:17): «Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino». Questa traduzione istituisce un collegamento diretto fra la venuta del regno di Dio e il sacramento della confessione. Erasmo evidenziò che il testo originale greco si doveva tradurre: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino». Laddove la Vulgata sembrava fare riferimento a una pratica esteriore (il sacramento della penitenza), Erasmo sottolineò che il riferimento era a un atteggiamento psicologico interiore, quello del “ravvedersi”.
Nella concezione umanistica della ricerca biblica, però, risultò esservi più dell’esigenza di migliori traduzioni. La nascita del «new learning» promosse, nel secondo decennio del XVI secolo, una visione alternativa dell’autorità interpretativa, di spettanza non più della chiesa ma della comunità scientifica. Il mondo accademico aveva già la chiave per la ricostruzione del testo biblico e della sua traduzione in volgare. Sarebbe stato solo un piccolo passo quello della rivendicazione del diritto di interpretare il testo utilizzando le nuove metodologie ermeneutiche del Rinascimento che si stavano allora sviluppando34.
«Senza Umanesimo non ci sarebbe stata nessuna Riforma». Questo slogan, ripetuto spesso, sottolinea il punto cruciale dell’imposizione di un programma più radicale di riforma della chiesa di quello che chiunque avrebbe potuto prevedere, grazie alla nascita dell’Umanesimo. È vero che erano in tanti a essere convinti che vi fosse un urgente bisogno di eliminare gli abusi, semplificare le strutture e incrementare i livelli d’istruzione all’interno della chiesa; ora però altri iniziavano a suggerire che fosse necessaria una revisione di altro livello. Era possibile che almeno alcuni degli insegnamenti della chiesa poggiassero su basi bibliche non del tutto adeguate. Le persone erano bene avvezze a lamentarsi dei tanti difetti morali e spirituali della chiesa; questo però era qualche cosa di nuovo e minacciava di innescare dei dibattiti profondamente imbarazzanti e degli sviluppi che, nel cristianesimo occidentale,
sarebbero stati senza precedenti.
A un certo punto quest’appello alla riforma della chiesa si legò con la nuova idea di umanità che si stava affermando più o meno in questo periodo. La miscela che ne risultò fu esplosiva.
Alister E. McGrath, La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo, Edizioni GBU, 2017.
L’articolo Senza Umanesimo niente Riforma proviene da DiRS GBU.