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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Così cantava Vasco Rossi nel lontano 1981:

Siamo solo noi, Quelli che ormai non credono più a niente E vi fregano sempre

Siamo solo noi Che tra demonio e santità è lo stesso Basta che ci sia posto.

La canzone mi è venuta in mente leggendo la Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede, Fiducia Supplicans (18/12/23) in cui la Chiesa Cattolica apre alle benedizioni delle coppie di fatto e delle coppie dello stesso sesso (in situazioni irregolari).
Il “noi” dell’orgoglio di Vasco Rossi naturalmente siano “noi evangelici”, quelli duri e puri, quelli che recitano i testi ufficiali delle chiese della Riforma, i cinque sola, gli evangelicali! Tutto il mondo ormai apre ai diversi stili di vita e di relazioni rispetto al dettato della creazione, anche la millenaria Chiesa di Roma … ormai, siamo rimasti solo noi!

Veramente? E Putin e Kirill dove li metti? E gli ayatollah iraniani dove li metti?

Che bella compagnia! C’è qualcosa che non funziona. Se la tribuna di chi punta il dito contro la deriva denunciata già da Paolo in Romani 1 si è così notevolmente ridotta e alla fine sul pulpito ci ritroviamo con così simpatici co–belligeranti, allora qualche cosa è andato storto, non funziona. Se permettete, l’amore per il vangelo, la sottomissione alla Bibbia e la compagnia di tutti i Riformatori messi insieme, almeno a leggere le loro opere – un po’, meno a seguire il loro esempio (sic!) – mi impongono di abbandonare immediatamente quel pulpito e non essere contato, per denunciare una distorsione del disegno di Dio, in compagnia di assassini, autocrati e tagliagole di ogni risma. Vade retro Satana!

Ma dove andiamo? Per il momento cerchiamo di capire il documento vaticano.

Come sempre si fa con ogni cosa che si scrive, a qualsiasi latitudine, va letto senza pregiudizi del tipo «ma quello è un gesuita furbo». In genere questo tipo di documenti parla a due mondi: a quello interno, e la cosa è evidente nella stessa struttura della Fiducia Supplicans. E parla anche al mondo più ampio in ragione del ruolo storico e sociale dei soggetti coinvolti. Non mi sento particolarmente toccato in quanto protestante (Approccio Identitario al Cattolicesimo) ma leggo e rifletto in ragione della testimonianza al vangelo. Questa deve essere sempre la stella polare dell’approccio al cattolicesimo: la terzietà del vangelo rispetto a cattolici … ed evangelici!

Fatta questa premessa, il documento, è vero, ha lo scopo di inquadrare un approccio spirituale e teologico (il concetto di benedizione) nei confronti delle «coppie dello stesso sesso» o in condizioni irregolari. In buona sostanza, questa possibilità viene posta all’insegna di quelli che il Catechismo definisce “sacramentali” (art. 1677–1679) tra i quali occupano un posto importante le “benedizioni”. Ed è questo il cuore del documento, lo sforzo di articolare e ricondurre al ruolo che la Chiesa vede per se stessa lo straordinario e ricco mondo biblico del concetto di “benedizione”. Benedizione in senso discendente da Dio agli uomini (si parte da Nm 6) e benedizione in senso ascendente (dalla terra al cielo nel senso di lodare e benedire Dio).

«Dio comunica alla chiesa il potere di benedire» attraverso Cristo. La chiesa è il sacramento dell’amore infinito di Dio (par. IV). E poi si finisce con Maria. Questo, in sintesi, il problema teologico tra cattolici ed evangelici che anche in questo caso ruota intorno alla concezione che la Chiesa di Roma ha di se stessa. Non che tra evangelici e protestanti sia chiaro che cosa significhi una chiesa che “benedice”. Però, questo è sempre e solamente il nucleo della distanza.

Non ci dedichiamo a questa distanza ma guardiamo al tema biblico della “benedizione”. Il documento distingue tra il piano liturgico, quello sul quale «la benedizione richiede che quello che si benedice sia conforme alla volontà di Dio espressa negli insegnamenti della Chiesa», più avanti si afferma «sia in grado di corrispondere ai disegni di Dio iscritti nella Creazione …». E questo è il caso del matrimonio tra un uomo e una donna che il documento cerca di mettere al riparo e distinguere rispetto ad altre situazioni.

«Proprio per evitare qualsiasi forma di confusione o di scandalo, quando la preghiera di benedizione, benché espressa al di fuori dei riti previsti dai libri liturgici, sia chiesta da una coppia in una situazione irregolare, questa benedizione mai verrà svolta contestualmente ai riti civili di unione e nemmeno in relazione a essi. Neanche con degli abiti, gesti o parole propri di un matrimonio. Lo stesso vale quando la benedizione è richiesta da una coppia dello stesso sesso» (39)

E c’è l’altro piano in cui le benedizioni, in tutte e due le forme, discendente e ascendente, si ritrova, ed è quello pastorale: «quando si chiede una benedizione si sta esprimendo una richiesta di aiuto a Dio» ed è questa circostanza, che si può incontrare per strada, in un pellegrinaggio, nei gangli della vita, che deve essere valorizzata. È il piano della ricchezza della pietà popolare nel quale le benedizioni sono una risorsa pastorale piuttosto che un rischio.

«In questi casi, si impartisce una benedizione che non solo ha valore ascendente ma che è anche l’invocazione di una benedizione discendente da parte di Dio stesso su coloro che, riconoscendosi indigenti e bisognosi del suo aiuto, non rivendicano la legittimazione di un proprio status, ma mendicano che tutto ciò che di vero di buono e di umanamente valido è presente nella loro vita e relazioni, sia investito, sanato ed elevato dalla presenza dello Spirito Santo. Queste forme di benedizione esprimono una supplica a Dio perché conceda quegli aiuti che provengono dagli impulsi del suo Spirito – che la teologia classica chiama “grazie attuali” – affinché le umane relazioni possano maturare e crescere nella fedeltà al messaggio del Vangelo, liberarsi dalle loro imperfezioni e fragilità ed esprimersi nella dimensione sempre più grande dell’amore divino» (31, corsivo mio).

 Nell’articolo 32 si parla poi di “grazia”, una grazia che opera nella vita di coloro che non si ritengono giusti e una grazia in grado di orientare ogni cosa secondo i misteriosi ed imprevedibili disegni di Dio.

In tutto questo documento si rileva un tema che tocca da vicino ogni cristiano, ogni organizzazione, ogni chiesa, quale che sia la sua autocomprensione. È il rapporto che insiste, e deve essere pensato alla luce della contemporaneità, tra uno spazio delineato dalla grazia, una grazia che noi definiremmo salvifica e che nella teologia cattolica si esprime nel concetto di sacramento, e tutto ciò che sta intorno. Ci riferiamo a quello che continua a essere il mondo di Dio, pur se un mondo che “giace nel maligno” e che manifesta la sua lontananza da Dio anche nella distorsione del disegno di creazione. Come, per esempio, nel caso dell’aggettivo “irregolare” che si aggiunge al sostantivo “coppie”.

Se volessimo dare all’articolazione di questi due spazi un’immagine che riprende il vocabolario evangelico, dei vangeli, possiamo riprendere le parole di Gesù nel Sermone sul monte. Posto che Dio faccia piovere sui giusti e sugli ingiusti, che faccia levare il sole sui buoni e sugli empi (Mt 5) viene da chiedersi: in che modo i discepoli di Gesù Cristo, dopo aver mostrato a tutti l’ombrello della grazia salvifica rappresentato da Gesù, dalla sua opera compiuta sulla croce – egli sarebbe anche il parasole nei confronti dei raggi infuocati della santità e della giustizia di Dio che giudica il peccato, e il peccatore – in che modo, dunque, organizzare la compresenza e la convivenza nello stesso mondo di Dio? In che modo confrontarsi e vivere con, insieme, alle coppie irregolari? Lanciamo loro addosso, ogni volta che li incontriamo, il sermone di Jonathan Edwards, Peccatori nelle mani di un Dio adirato? Manifestiamo tutto il nostro disprezzo per cose che non si possono neanche raccontare? Ci lamenteremo di un mondo sottosopra e ci iscriveremo a un partito che vuole raddrizzarlo? Nel documento si legge: «quando le persone invocano una benedizione non dovrebbe essere posta un’esaustiva analisi morale come precondizione per poterla conferire. Non si deve richiedere loro una previa perfezione morale.» Più avanti si fa l’esempio di benedizioni impartite in un carcere, ai carcerati (27).

La richiesta di una benedizione esprime ed alimenta infatti «l’apertura alla trascendenza, la pietà, la vicinanza a Dio in mille circostanze concrete della vita, e questo non è cosa da poco nel mondo in cui viviamo. È un seme dello Spirito Santo che va curato, non ostacolato».

Ciò che il documento ispirato da Francesco tenta di fare, riflettendo sul senso biblico di “benedizione”, è ciò che altre tradizioni cercano di articolare quando distinguono, per esempio, tra la grazia salvifica e la grazia comune. Ecco alcuni indizi:

  • «Desiderare e ricevere una benedizione può essere il bene possibile in alcune situazioni».
  • «Qualsiasi benedizione sarà l’occasione per un rinnovato annuncio del kerygma, un invito ad avvicinarsi sempre di più all’amore di Cristo».
  • «Questo mondo ha bisogno di benedizione e noi possiamo dare la benedizione e ricevere la benedizione».

Questo il documento. Questo il mio sforzo di comprensione. Non si tratta di una ciliegina sulla torta, come è stato definito. Continuo a pensare che bisogna parlare con grande rispetto soprattutto delle tradizioni che non si condividono, in ragione del vangelo prima di tutto e per rispetto dei milioni di miei concittadini che le condividono.

Resta allora il tema: come confrontarsi e vivere con … ? Da evangelico e in ragione della visione della chiesa che trovo nel Nuovo Testamento (sarà anche un po’ confusa ma non mi pare arrivi al sacramentalismo della Chiesa di Roma) e posto che c’è un solo evento in cui la chiesa apre e chiude, vale a dire l’atto della predicazione del vangelo e della Parola di Dio, non credo che si debba arrivare a formule di benedizione per cogliere e valorizzare, tra l’altro, l’apertura alla trascendenza.

Non bisogna incontrare le distorsioni del disegno di creazione di Dio in quanto appartenenti a una categoria socio–teologica come quella di “cristiani”: cristiani liberali, cristiani cattolici, cristiani evangelicali, etc. Il termine cristiani rimanda a Cristo ed è un termine che segnala un evento semiotico, che rimanda ad altro, a Cristo appunto. Questo evento è fatto di testimonianza e riconoscenza e può essere incarnato solo da un uomo, in carne ed ossa, nella sua umanità (ad Antiochia i discepoli furono chiamati cristiani per la prima volta). Non furono i cristiani a essere riconosciuti come discepoli!

Questo significa che le irregolarità vano incontrate da uomo a uomo, da uomo peccatore a uomo peccatore. Nel mentre segnala che le coppie dello stesso sesso non sono secondo il piano di Dio, un cristiano deve confessare di essere peccatore ance lui. Le liste di vizi che troviamo nel NT associano l’omosessualità all’avarizia, per esempio. Per non parlare dell’adulterio e della fornicazione, vero deposito di ipocrisie maschiliste e brodo di coltura di tutte le distorsioni che arrivano anche al femminicidio. Attraverso la rivoluzione sessuale degli anni sessanta del secolo scorso giunge di rimando al cristianesimo un potente richiamo a saper articolare adeguatamente una predicazione del peccato: non solo come preambolo alla predicazione della grazia e del perdono ma anche come costruzione dell’unico piano in cui la fede di chi proclama il vangelo potrebbe incontrare la fede di chi non conosce ancora il vangelo e il perdono che offre, che ha concesso anche alla fede di chi predica.

Se in Fiducia Supplicans si può intravedere una parvenza di una tale ansia, allora essa potrebbe essere fatta propria da chiunque, senza avere bisogno di arrivare a un sacramentale.

Concretamente, in che modo l’idea che lì si esprime nel concetto di benedizione, potrebbe essere trasposto in ambiti in cui si ritiene che la “chiesa” non benedice un bel niente? Due macro–aree in cui ciò che si esprime in chi chiede benedizione e in chi vuole accordarla.

La prima è quella del riconoscimento pieno dei diritti delle persone e delle situazioni che, personalmente, sul piano della predicazione, definirei situazioni di disordine e di peccato. Il peccatore deve poter peccare, senza che gli sia impedito per legge; posti naturalmente tutti i limiti propri del consorzio civile. Come evangelici, nel mentre ci si appella al piano della creazione (uomo e donna nel matrimonio) ci si dovrebbe schierare apertamente per i pieni diritti civili di chi sceglie un’altra strada, una strada, ripetiamolo, che considereremmo peccaminosa.

La seconda macro–area la definirei linguistica e ha a che fare con la valorizzazione delle sfumature. Qualche tempo fa qualcuno mi ha ricordato che a un Convegno Studi GBU abbiamo inviato un relatore gay. Ho fatto presente che Ed Shaw fa parte di un gruppo di pastori e uomini di chiesa che è venuto fuori confessando non la propria omosessualità ma la lotta contro l’attrazione sessuale per lo stesso sesso. Il coraggio di questi fratelli e di queste sorelle deve essere valorizzato, riconoscendo in esso lo stesso coraggio che dovremmo avere noi quando dovremmo confessare pubblicamente la lotta che ci caratterizza nei confronti di un peccato particolare. L’attrazione verso lo stesso sesso non è omosessualità ma è l’onesta condizione di un peccatore che desidera definire la sua identità non in ragione del suo orientamento sessuale ma in ragione di come questo orientamento venga appagato da una relazione intima con Gesù Cristo.

Sono solo due spunti, ma se da evangelici ci impegnassimo in essi saremmo una benedizione, anche senza sacramentali e continuando a predicale il vangelo in cui c’è il perdono e la liberazione.

A questo punto è probabile che si realizzerebbe la condizione di Vasco Rossi: siamo solo noi!

 

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Abbiamo appreso proprio ieri della morte di uno dei maggiori e più controversi intellettuali italiani della seconda metà del XX secolo: Antonio Negri. Negri era un pensatore assolutamente originale di cui, tra l’altro, abbiamo parlato nell’ultimo libro pubblicato dalle edizioni GBU, I discepoli furono chiamati cristiani.

Riflettendo sulla sua dipartita terrena ed a pochi giorni dal termine del nostro Convegno di studi dedicato all’ateismo vogliamo tracciare un breve ritratto e fare alcune riflessioni su questo pensatore. 

Antonio Negri è stato un filosofo protagonista tra fine anni 1960 e inizi 1970 dei movimenti di protesta giovanile di stampo marxista ed extraparlamentare in Italia. Mentre diventa uno dei dirigenti di Potere Operaio, scriveva alcuni dei saggi che lo hanno reso famoso, uno dedicato al filosofo Spinoza (L’anomalia selvaggia) e l’altro al pensiero di Cartesio (Descartes politico). E’ stato un raffinato analista del pensiero di Marx e lo ha cercato di reinterpretare il suo pensiero in chiave più contemporanea. Coinvolto anche attivamente nella nei cosiddetti anni di piombo nel terrorismo rosso, sino ad essere accusato di essere capo della Brigate Rosse (accusa rivelatasi infondata) sarà comunque condannato per altri reati e, dopo essere scappato in Francia, ritornerà in Italia a scontare la sua pensa. Agli inizi del XXI secolo tornerà alla ribalta (all’inizio non in Italia)  con la pubblicazione di Impero con Michael Hardt, testo che avrà un grande successo globale e che riporterà il pensatore italiano alla ribalta del panorama culturale mondiale. 

Negri si è sempre professato ateo ed i due suoi autori classici preferiti, Spinoza e Marx lo sono di fatto stati, anche se consideriamo Spinoza un panteista moderno che ha cercato, da ebreo, di racchiudere la realtà del mondo e del divino in un’unica sostanza. Che interesse potrebbe avere pertanto per il mondo evangelico?

Ci sono diverse piste che si possono percorrere e qui ne proporremo alcune. Negri ha sempre mostrato interesse per i movimenti religiosi. Partendo dall’analisi di alcuni passi di Marx ha sempre pensato che i movimenti religiosi, soprattutto quelli che partono dal basso e che sono poco istituzionali possono essere la premessa di una liberazione effettiva dell’uomo. Lettore avido dal marxista Ernst Bloch che aveva analizzato qualche decennio prima il pensiero di T. Müntzer, visto come un proto-rivoluzionario, ha guardato con attenzione ai movimenti della teologia della liberazione che, a suo parere, sono espressione di quella Moltitudine che potrebbe rovesciare lo stesso Impero o capovolgerne le sorti.. Ovviamente per il pensatore padovano il movimento religioso può essere visto come un inizio e non come il coronamento di un traguardo raggiunto che può essere solo supportato da un movimento politico. 

Nel 2008 una serie di evangelici americani sono entrati in dialogo con Negri e Hardt per analizzare la nozione di impero. Per Wolterstorff ed altri pensatori evangelici Negri aveva colto nel suo testo il fatto che, ormai, l’Impero non potesse più identificarsi con una particolare nazione (nonostante la supremazia statunitense) e che questo avrebbe potuto dare l’occasione soprattutto ai movimenti evangelici che stavano avendo successo nel Sud del mondo di creare spazi di apertura verso il Regno di Dio e una società più giusta e versata alla pace nel mondo. Il libro, che si intitola Christian Alternatives to the Political Status Quo (Alternative cristiane allo status quo politico) si conclude con una replica di Negri che, insieme ad Hardt, ringrazia dell’interesse per i suoi studi ma, allo stesso tempo, ribadisce anche che la sua idea di speranza di pace è qui sulla terra e che rifiuta qualsiasi possibilità che ci sia una trascendenza (un Dio) che possa essere risolutore per ciò che accade nel mondo. Quindi una grande attenzione per i movimenti religiosi informali che possono far parte di quella Moltitudine (altro titolo di un saggio di Negri) che può far cambiare l’Impero ma che, alla fine, non possono essere risolutiva per il costante richiamo che fanno al Divino.

Negri è anche stato un attento lettore del testo biblico. Ho sentito anche diverse sue interviste dove dimostrava la sua capacità di fare esegesi di un testo che trovava assolutamente interessante ma su cui voleva andare oltre. Questo suo interesse, oltre che da una originaria formazione cattolica (comune a molti teorici della sinistra extraparlamentare degli anni 1960/70) derivava anche dalla sua attenzione per il pensiero dell’ebreo Spinoza che, pur essendo stato uno degli iniziatori del cosiddetto metodo storico-critico, da buon ebreo dava grande spazio all’esegesi delle Scritture (si veda i numerosi riferimenti ed anche i tentativi di una esegesi “umana” che sono presenti nel Trattato Teologico-politico). Negri negli anni Novanta, proprio durante gli anni della prigionia, ha elaborato un testo di difficile lettura dedicato al libro di Giobbe ed intitolato il Lavoro di Giobbe. Ciò che affascinava il pensatore padovano era la figura del personaggio biblico che deve faticare per farsi ascoltare da Dio. Non si tratta del rapporto con il trascendente, quanto del continuo dissidio e lotta che attraverso anche il proprio corpo e la sua presenza. Una lettura interessante, ma anche questa priva di una trascendenza (l’entrata di Dio sembra una messa in scena) e che se ci dà pagine assolutamente interessanti nella descrizione del personaggio, allo stesso tempo ci fa capire come si possa leggere un testo biblico in parte non capendone totalmente il senso o dandone uno alternativo a quella di molta esegesi.

Negri non è assolutamente facile da leggere ed i testi citati da me sono di difficile lettura (fa eccezione proprio Impero in cui Hard ha funzionato a mio parere da facilitatore, anche perché il testo è stato pubblicato originariamente in inglese, una lingua che non sempre riesce a tenere conto delle ardite capriole linguistiche dei filosofi continentali), ma allo stesso tempo rimane una figura paradigmatica del panorama culturale italiano. Sicuramente gli evangelici farebbero bene a tenerne conto non per la sua “ateologia” (in cui è rimasto coerente), quanto per le sue riflessioni sul potere, sulla crisi degli Stati e sull’interpretazione del tempo presente, tenendo conto che, come ogni marxista occidentale (pur appellandosi a Lenin talvolta, ma, a nostro parere essendo distante) cerca di costruire un’utopia ed una speranza che può trovare proprio nel testo biblico una risposta ed è una figura che ci permette di confrontarci con quell’ateismo dialogante differente dai modelli scientisti che oggi vanno più di moda.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’articolo Il rifiuto della trascendenza. Alcuni pensieri sparsi su Toni Negri. proviene da DiRS GBU.

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[Redazione: in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne e in concomitanza con il sentire generale della nazione dopo i gravi fatti riportati dalle cronache e relativi ai tanti femminicidi, ascoltiamo molte riflessioni sulla cultura “patriarcale” che sarebbe tra le cause di ciò che sta accadendo. E non sono poche le occasioni in cui dietro la cultura patriarcale si prende di mira la narrazione biblica in cui sarebbe espressa una tale cultura, addirittura racocmandata da Dio stesso. Questo breve contributo che qui pubblichiamo vuole segnalare come tutta la rivelazione ebraico–cristiana ha un punto focale nella persona di Gesù. In lui troviamo un approccio rivoluzionario alla condizione della donna dei suoi tempi. La sua figura e il suo agire emergono dal tessuto dei racconti biblici, rivelando un intento divino diverso dalle vicende che pure sono narrate senza infingimenti nel corso della progressione della rivelazione]

 

di Derek e Dianne Tidball
(tratto da Bibbia e quote rosa, Edizioni GBU, 2021)

 

Nella vita e nel ministero di Gesù le donne sono tutt’altro che invisibili. Sono testimoni di prim’ordine degli eventi della sua vita, discepole fedeli fino alla fine, destinatarie della sua gra­zia, protagoniste partecipi del suo insegnamento e beneficia­rie della sua giustizia. Diciassette donne sono ricordate per nome ma una schiera di altre, che pure restano nell’anonima­to, non sono certo meno apprezzate1. Incoraggiate da Gesù, non si appostano ai margini, anche se in un primo momento alcune, per la pressione della loro cultura, si rifugiano timo­rosamente nell’ombra; diventano però persone la cui presenza si nota, la cui voce è ascoltata e le cui vite sono rese complete. Le tratta con un rispetto e un apprezzamento che non han­no precedenti e ribalta il giudizio negativo cui di solito erano soggette nel resto della società.

Diverse donne giocano un ruolo importante negli eventi della vita di Cristo. Godono di una particolare visibilità alla sua nascita, nonché alla sua crocifissione e risurrezione. In corrispondenza di entrambi questi momenti cruciali, gli uo­mini devono accontentarsi di cercare di tenere il passo con loro. Elisabetta e Anna, oltre a Maria, sua madre, sono pre­senze importanti nei racconti relativi alla sua nascita. Maria Maddalena, Giovanna, Salome e Maria madre di Giacomo furono le prime improbabili ma veritiere testimoni della ri­surrezione. Fra questi due estremi le donne prendono parte ad alcuni dei più memorabili episodi della sua vita e costi­tuiscono per noi dei modelli esemplari di discepolato.

Le donne negli incontri di Gesù
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio riassunse succintamente l’atteggiamento generale da parte degli Ebrei verso le donne ai tempi di Gesù, quando scrisse che «la donna … è in tutte le cose inferiore all’uomo»1. Quasi tutti gli Ebrei di sesso ma­schile guardavano con disprezzo le donne. Avere un figlio era motivo di ringraziamento, avere una figlia era motivo di ram­marico. Gli uomini erano creature razionali, mentre le don­ne erano creature sensuali2. Si reputava che le donne contas­sero poco e la loro posizione era sempre in bilico fra quella di figlie e quella di schiave. Il loro posto era per lo più in casa, dove restavano segregate, essendo «più adatte», per dirla con Filone, «a vivere dentro le mura domestiche e a non allonta­narsene mai»3. Anche lì erano soggette all’autorità patriarcale e quando fossero cadute in disgrazia con i loro mariti, si po­teva divorziare senza preoccuparsi del loro futuro benessere. L’idea assolutamente dominante era che non valesse la pena istruirle e per lo più si pensava che non fosse possibile inse­gnare loro niente. Gli uomini le accusavano di tutta una serie di malattie e non da ultimo di essere fonte di tentazione ses­suale. Dal momento che questo andava evitato a tutti i costi, era considerato sconveniente parlare a una donna per strada, anche se la donna in questione era la propria moglie. Un’at­tenzione ancora maggiore si doveva prestare quando ci s’in­contrava con loro in privato.

Gesù si mostra del tutto incurante di tali limitazioni e prende una posizione rivoluzionaria nel suo modo di relazio­narsi con le donne. I Vangeli riferiscono di numerosi incon­tri che ha con loro, sia in pubblico sia in privato, incluso alcu­ne allusioni al fatto che fra i suoi discepoli itineranti ci sono delle donne5. Non pare affatto a disagio in loro compagnia e le tratta con dignità e rispetto. Non le accusa di essere fon­te di tentazione sessuale; prende anzi le difese di una donna sorpresa in adulterio, contro le accuse degli uomini6 e fa ri­cadere sugli questi l’onere di disciplinare la propria concupi­scenza (Mt 5:27–30)7. Arreca loro salvezza e guarigione pro­prio come agli uomini, così, se fanno la volontà di Dio, di­ventano preziose sorelle o madri in quella che è la sua vera fa­miglia, che è una cosa diversa dalla sua famiglia naturale (Mc 3:34–35). Sono in grado e meritano di ricevere istruzione (Lc 10:38–42). Inoltre, decisamente in polemica con la costuma­ta cultura dei maestri d’Israele, può anche affermare audace­mente che «i pubblicani e le prostitute entrano … nel regno di Dio» prima dei sacerdoti e degli anziani d’Israele8.

Spesso una cosa è quello che si afferma, altra cosa è il modo con cui lo si mette in pratica; in Gesù, invece, trovia­mo una perfetta armonia. L’importanza da lui attribuita alla loro dignità fu più che teorica, come si può vedere dai vari in­contri riportati da Vangeli, dove si prende liberamente e amo­revolmente cura delle donne.
Bibbia e quote rosa, Derek e Dianne Tidball
Collana Il duplice ascolto
p. 424 | € 20,00
ISBN: 9788832049060
Edizioni GBU, 2021
Disponibile anche in ebook

Vedi il Lunedì Letterario

L’articolo Le donne nella vita di Gesù proviene da DiRS GBU.

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Di Aoife Beville, ricercatrice universitaria ed ex studentessa GBU

Ahoj!

Ahoj! – così dicono “ciao” in Slovacchia, dove sono stata ad inizio ottobre. Io sono Aoife (si legge Ifa), ho fatto tappe in diversi gruppi GBU: Cork (Irlanda), di dove sono originaria e dove sono stata co-coordinatrice del Christian Union (GBU) durante la triennale; Bologna, dove ho fatto due anni di InterAction, un programma di volontariato internazionale IFES dove affiancavo gli studenti del gruppo locale; Napoli, dove sono stata co-coordinatrice del gruppo durante la magistrale. Ora sono di nuovo a Napoli e sempre all’università, però dall’altro lato della cattedra! Faccio ricerca e insegno nell’ambito della linguistica inglese. Forse ti stai chiedendo ‘cosa c’entra la Slovacchia?’ Ottima domanda!

Buona notizia per l’università

L’anno scorso ad una conferenza IFES ho conosciuto Sara, staff VBH (GBU) in Slovacchia. Abbiamo cominciato a parlare dell’utilità di avere accademici cristiani coinvolti nel lavoro dei movimenti nazionali. Io credo che il vangelo sia la buona notizia per l’università e vorrei poter sostenere e servire gli studenti del GBU mentre svolgo il mio lavoro. Ho raccontato a Sara una mia ricerca sull’ironia come strategia persuasiva ne Le Lettere di Berlicche di C.S. Lewis. È uno studio linguistico e letterario che, per la natura del testo, tocca varie tematiche interessanti (apologetica, ateismo, etc.). Sara mi ha invitato a venire in Slovacchia a tenere delle lezioni all’università sull’argomento di questa ricerca.

“Il problema dell’argomentazione”

Aoife e Sara a pranzo a Prešov
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di Stefan Gustavsson

Che aspetto ha una cultura apologetica nell’ambito di una comunità? Ha almeno cinque caratteristiche.
La prima è l’apertura. Una cultura apologetica non significa costruire un’atmosfera autoritaria in cui qualcuno ti dice come stanno le cose. Al contrario, si tratta di creare apertura e dare alle persone la libertà di pensare e di riflettere al cospetto di Dio e tirare le proprie conclusioni. Come scrive Paolo:

«abbiamo rifiutato gli intrighi vergognosi
e non ci comportiamo con astuzia
né falsifichiamo la parola di Dio,
ma rendendo pubblica la verità,
raccomandiamo noi stessi
alla coscienza di ogni uomo davanti a Dio» (2 Cor 4:2).

La seconda caratteristica è l’umiltà. Avevo un buon amico che ironicamente mi diceva: «Pensa che strano, proprio noi abbiamo ragione in tutte le questioni teologiche!» Il punto è che tutti abbiamo motivo di testare le nostre posizioni ed essere pronti a riconsiderare cose che si rivelano infondate o errate. Qui bisogna dare alle persone lo spazio per cercare la verità e ottenerla dando loro tempo di arrivare a delle convinzioni. La comunità deve essere un luogo che accoglie sia il credente sia il dubbioso. Come scrive Giuda nella sua lettera: «Abbiate pietà di quelli che sono nel dubbio» (Gd v. 22). Fondamentalmente non c’è una contraddizione tra una chiesa e le sue guide che hanno un profilo chiaro, con un chiaro insegnamento biblico e che allo stesso tempo creano un clima aperto in cui le domande oneste ricevono risposte oneste e le persone vengono prese sul serio nella loro ricerca.

La terza caratteristica è la veridicità. Non si tratta di difendere tradizioni o stabilire un sistema di opinioni: si tratta della verità. Riguarda ciò che è sempre vero, su come stanno veramente le cose, indipendentemente da noi, e prima ancora che esistessimo e dopo che saremo morti. Dobbiamo concentrarci sulla verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, il che significa che dobbiamo essere pronti a ravvederci per tutto ciò è falso ed erroneo.

La quarta caratteristica è la sete di conoscenza. Per poter raggiungere ciò che è vero, dobbiamo imparare a pensare meglio e dotarci di strumenti per cercare la conoscenza. La comunità cristiana deve diventare un luogo in cui crescere anche in conoscenza e competenza. Un luogo in cui diventiamo tutti più abili a comprendere il mondo creato da Dio e il nostro posto in esso, e sempre più reattivi verso la Parola rivelata di Dio e ciò a cui essa ci chiama. La fiducia nella Parola di Dio e il suo studio sono assolutamente cruciali, perché insieme a Gesù nella sua posizione di sommo sacerdote, confessiamo: «la tua parola è verità» (Gv 7;17).
Vale la pena notare l’atteggiamento di Martin Lutero quando riformò l’istruzione universitaria a Wittenberg, all’inizio del XVI secolo. Scelse deliberatamente di mantenere il libro di testo della logica di Aristotele, perché era importante che il cristiano imparasse a pensare con chiarezza4. La fiducia nella Parola di Dio e l’enfasi su un pensiero chiaro stanno nelle fondamenta, non l’uno contro l’altro! (Ernest George Schwiebert, Luther and His Times, Concordia Publishing House, St. Louis, 1950, p. 299.)

La quinta caratteristica è la prospettiva. Il numero di domande è grande, ma non tutte le questioni sono ugualmente importanti e ugualmente fondamentali. Dobbiamo quindi aiutarci a vicenda a vedere cosa è centrale e cosa è periferico, cosa è fondamentale per la fede cristiana e cosa è meno decisivo. Il punto in cui come cristiani possiamo convivere senza problemi con diverse interpretazioni delle singole parti della Bibbia e dove invece si trovano i pilastri. Allo stesso modo, dobbiamo acquisire una prospettiva relativa alla cultura che ci circonda e vedere dove siamo sotto attacco e dove, a un certo punto, registriamo una tregua.

Oggi sono i fondamenti della fede a essere sotto attacco, non il modo in cui formuliamo la nostra visione del battesimo o cosa pensiamo del millennio. Dio esiste davvero o è tutta immaginazione e suggestione, una forma di autoinganno religioso? Se Dio esiste, come possiamo sapere chi egli è? Come possiamo metterci in contatto con lui? Possono avvenire miracoli in un mondo in cui possiamo descrivere tutto  utilizzando le leggi della natura? I testi biblici sono attendibili? Sono parole venute da Dio? Gesù è esistito e, se è esisto, chi era? Cosa è successo dopo la sua morte e sepoltura? È vivo oggi – e dove si trova? Perché una persona non si può relazionare direttamente con Dio senza la “mediazione” di Gesù? Come possono le nostre mancanze, i nostri errori e i passi falsi – il nostro “peccato” – essere qualcosa di così grave da separarci da Dio? E come può la morte di Gesù sulla croce cambiare la situazione? È ragionevole considerare le altre religioni come vicoli ciechi? L’uomo è influenzato dall’ereditarietà e dall’ambiente, dalla biologia e dalla sociologia, è davvero libero e responsabile? E non è umiliante sottomettersi a Dio rinunciando al proprio diritto all’autodeterminazione? In poche parole, si tratta dello scontro frontale tra la fede cristiana e la visione laica della vita, indipendentemente dal fatto che essa arrivi a noi sotto forma di culto della ragione dell’umanesimo illuminista o del relativismo postmoderno.

L’apologetica deve tornare a essere una parte centrale del compito di una comunità locale. Perché? Perché l’apologetica è biblica e perché l’apologetica è necessaria! Per alcuni l’apologetica ha un ruolo importante nel processo di avvicinamento alla fede, per altri l’apologetica gioca un ruolo importante nel processo di crescita nella fede. L’apologetica può arrivare prima o dopo la conversione, può portare le persone alla fede e può approfondire la fede. Ma senza apologetica rimaniamo – senza motivo – indifesi e senza armi.

Glover, storico dell’Università di Cambridge, descrive il successo del cristianesimo nell’Impero Romano in modo affascinante, evidenziando tre peculiari aspetti che si trovavano alla base. I cristiani vivevano una vita nuova (amore), avevano un pensiero migliore (verità) e avevano trovato una via di fuga dalla morte (speranza). Nelle parole di Glover: «Il cristianesimo fu vittorioso perché i primi cristiani superarono il mondo che li circondava nel suo modo di vivere, nel pensiero, e superarono la sua fine»5. Oggi abbiamo la stessa chiamata, incluso l’impegno “a “superare nel pensiero” il nostro tempo (T.R. Glover, The Jesus of History, Association Press, New York, 1917, p. 213.).

Stefan Gustavsson,
Vivere e confrontatsi con l’ateismo,
7-10 Dicembre Montesilvano,
16° Convegno Studi GBU

L’articolo Una cultura apologetica proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/una-cultura-apologetica/

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di Simona Squitieri, GBU Parma

Nel principio Dio creò. Se dovessi riassumere questo fine settimana di Formazione GBU, ecco, sarebbe così.  

Ma andiamo con ordine. Una sessantina di persone dal Trentino alla Sicilia, dopo aver superato viaggi più o meno lunghi, treni, bus, macchine, sono arrivate in Umbria, in una casetta con vista Lago Trasimeno, per partecipare alla Formazione Coordinatori GBU 2023. 

Nel principio 

Come l’acronimo GBU suggerisce (Gruppi Biblici Universitari), anche quest’anno abbiamo guardato alla Bibbia, per affrontare le sfide che quest’anno dovremmo affrontare. Sfide organizzative, sfide pratiche e teoriche, intellettuali e sociali, alle quali ci siamo preparati osservando, interpretando e applicando i primi tre capitoli della Parola di Dio. Partendo, quindi, proprio “dal principio”! 

Momenti di lode al Signore e preghiera ci hanno ristorati e accompagnati durante l’intenso  programma giornaliero, fatto di seminari, lettura e studio della Parola. Gli Staff si sono impegnati per fornirci gli strumenti per servire al meglio gli studenti dei nostri gruppi locali, ma soprattutto gli studenti ancora non raggiunti all’interno delle nostre università. Attraverso gli studi biblici, poi, abbiamo notato come nel principio Dio avesse pensato a tutto, senza trascurare nessun dettaglio, pianificando e disponendo ogni cosa in modo perfetto, compresi noi, discendenti di Adamo e prìncipi dal princìpio.  

Dio creò 

Queste due parole mettono in evidenza il rapporto che proprio noi siamo chiamati ad avere con Dio, prima ancora di prendere qualsiasi impegno con Lui e con gli altri: il rapporto di Creatore e creatura. È essenziale riconoscere Dio il Signore come creatore dell’universo e delle nostre vite; e che prima che tutto fosse, Lui era già.  

Ma le parole “Dio creò” mettono in luce anche la creatività di Dio. Tutto ciò che noi studiamo, dalla fisica all’arte, dalla letteratura alla medicina, ha la stessa origine creativa qui, in queste due piccole parole.  

Dopo aver creato, nel principio ogni cosa, la luce, le acque, gli astri luminosi, gli animali e le piante,  dopo la creazione dell’uomo a sua immagine, Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era  molto buono. 

Un piano perfetto per noi

Quindi, sono riuscita a comprendere che posto ho io in tutto questo? In tutto questo “buono”? Coordinatori di tutta Italia, abbiamo capito che posto abbiamo, insieme agli studenti e ai nostri gruppi locali? 

Adamo ed Eva vivevano alla presenza di Dio e avevano uno scopo, rubato e rovinato dal peccato.  

Ma nel principio Dio creò un piano perfetto per noi oggi: salvarci attraverso il suo figliolo Gesù e chiederci di condividere con gli altri questo Grande Creatore, che vuole tornare a riconciliarsi con noi attraverso Gesù. Di condividerlo da studente a studente. 

Pronti, via!

Delegazione italiana alla World Assembly
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di Marco Piovesan, studente GBU

«… voi, che prima non eravate un popolo, ma ora siete il popolo di Dio» (1Pietro 2:10a)

Avreste mai immaginato che in un solo regno potessero convivere 168 culture diverse? Ebbene, nel regno di Dio funziona così. Sì, a volte ripensiamo al fatto che in Cristo siamo stati chiamati da ogni popolo e nazione, ma spesso non riusciamo veramente a concepire l’entità di questa realtà. Con la World Assembly di IFES, invece, possiamo toccare con mano il significato autentico di essere un solo popolo, membra dell’unico corpo di Cristo.

La World Assembly è un evento che si tiene ogni quattro anni. Ha lo scopo di riunire delegazioni da tutti i movimenti nazionali che hanno il testimoniare Cristo all’università come ministero (per esempio il GBU in Italia) per prendere decisioni per la fellowship globale. L’aspetto burocratico, però, è poco più di un pretesto per vivere una settimana di condivisione ed edificazione tra fratelli e sorelle che condividono la stessa missione.

Quest’anno, l’appuntamento era fissato per i primi di agosto a Jakarta, in Indonesia. Partecipare a questo evento come studente del GBU è stato qualcosa di cui Dio si è servito in modo incredibile. Un articolo non potrebbe mai contenere tutta la ricchezza spirituale che Dio ha saputo provvedere, tuttavia non posso non condividere alcuni insegnamenti fondamentali.

Non siamo soli nello zelo

Come studenti del GBU, penso che diverse volte ci siamo ritrovati davanti agli occhi l’immensa missione di condividere Gesù agli studenti delle nostre università, Tuttavia, siamo stati scoraggiati dal vedere qualcosa che va oltre la nostra portata. Alla luce di questo scoraggiamento, troviamo una sorta di equilibrio in cui adagiarci.

Conoscere altri studenti e vedere lo zelo per Dio di cui sono ripieni ha cambiato completamente il mio modo di vedere queste difficoltà. Sì, anche loro vedono questa missione come qualcosa di immenso, ma hanno Dio al centro del loro cuore al punto che pensano ogni secondo come un’opportunità per parlare del vangelo.

Questo naturalmente richiede spesso di impegnare le proprie serate con eventi, studi biblici, riunioni organizzative e incontri a tu per tu, ma il desiderio di vedere Cristo glorificato supera il desiderio personale di avere tempo per se stessi. Insomma, ho visto in questi studenti la piena consapevolezza che vale la pena di sacrificarsi per Dio e che il vero modo di ragionare è quello di ragionare con una prospettiva eterna.

«Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.» (1Corinzi 15:58)

Non siamo soli nel servizio

Una battaglia che come studente ho vissuto negli ultimi due anni è stata quella di voler organizzare qualche evento all’università, ma di trovare sempre troppo poche persone nel gruppo GBU per poterlo realizzare.

Alla World Assembly una sera ho condiviso questa battaglia con le persone con cui ero seduto a tavola e la risposta che ho ricevuto è stata subito: “Invitaci, possiamo venire come aiuto dall’estero per partecipare e organizzare una settimana di eventi.” Sono stato spiazzato dalla semplicità di questa frase, ma mi ha fatto comprendere che essere un unico popolo in Cristo non significa solo salutarsi e raccontarsi belle esperienze una volta ogni quattro anni: possiamo usare questo immenso privilegio per lavorare in stretta collaborazione, venirci incontro nei bisogni reciproci e affaticarci insieme per veder avanzare il regno di Dio.

A questo punto mi sento caricato della responsabilità di fare un uso opportuno del dono così prezioso di avere veri collaboratori in Cristo con la stessa prospettiva.

Non siamo soli nelle sofferenze

Senza dubbio in ogni angolo della Terra si stanno affrontando sfide diverse, e la World Assembly è stata inevitabilmente un’occasione per ascoltare storie di lotte e sofferenze specifiche delle diverse nazioni. Abbiamo discusso di problemi di giustizia sociale, di salute mentale e di stress dato dal contesto universitario.

Penso, però, che quello che più deve far riflettere è la persecuzione (non solo psicologica) a cui tanti cristiani sono sottoposti. Ritrovarmi a mangiare a tavola con credenti che letteralmente ogni giorno espongono la loro vita alla morte per amore di Cristo, ha fatto nascere in me molte domande. L’unico modo in cui loro possono vivere è quello di incarnare il vangelo nelle loro vite con il loro comportamento, al punto che questo possa far nascere nelle persone attorno il desiderio di porre domande sulla fede cristiana.

Mi chiedo se, nel contesto italiano in cui siamo ben lontani dal rischiare la vita, ho lo stesso desiderio di impersonare Cristo in ogni ambito della mia vita. Sono veramente disposto allo stesso sacrificio per Dio a cui questi fratelli sono esposti ogni giorno? Anche per me, come per loro, «il vivere è Cristo e il morire guadagno» (Filippesi 1:21)?

C’è, però, qualcosa di estremamente incredibile in questi esempi: Cristo è talmente prezioso che vale la pena di dare la nostra stessa vita pur di restare insieme a Lui.

Non siamo soli perché Dio è con noi

Certamente la World Assembly non solo è stata ricca di tutti questi insegnamenti di carattere generale, ma è stata anche un’occasione per riflettere dal punto di vista personale. A proposito di questo c’è un concetto che è stato ribadito tantissime volte e di cui non posso più fare a meno: prendere consapevolezza della presenza di Dio nella nostra vita.

Tantissime volte nella Bibbia compare la promessa di Dio “Io sarò con te”, ma spesso ci capita di non considerare questo nella quotidianità. Ho avuto modo di parlare con diverse persone che hanno servito in IFES per decenni. Un aspetto su cui ciascuno di loro insisteva dopo così tanti anni di ministero è che la relazione personale con Dio è la base di tutto quello che facciamo. Non possiamo pensare di servire Dio senza essere in comunione con Lui. Abbiamo bisogno di ricercare Lui e la Sua presenza: essere consapevoli che Lui è con noi può trasformare radicalmente il nostro modo di vivere per Lui.

«O uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te il SIGNORE, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?» (Michea 6:8)

La vita cristiana e anche il servizio cristiano sono un continuo camminare fianco a fianco con Dio.

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(Giacomo Carlo Di Gaetano)

Ascrivere il filosofo torinese scomparso in questi giorni alla categoria di inizio di terzo millennio, definita dall’ossimoro “atei devoti” è operazione che va incontro e deve superare due difficoltà.

La prima consiste nel fatto che proprio il filosofo ha rifiutato per sé l’etichetta di “ateo” («lasciate alle spalle le pretese di oggettività della metafisica, oggi nessuno dovrebbe poter dire che “Dio non esiste”», Credere di credere, p. 66), creando così un interessante spazio interpretativo a cui abbiamo richiamato spesso il pensiero evangelico. Il pensiero evangelico, infatti, si è spesso fatto distrarre dall’ateismo angloamericano segnato dal Perché non sono cristiano (1927) di Bertrand Russell e dalle sue propaggini che giungono fino ai pensatori del new atheism (Dawkins, etc) e si è dedicato quasi esclusivamente alla risposta evangelicals a questo ateismo (tutta l’apologetica degli ultimi vent’anni, incluso nomi cari anche a chi scrive, da John Lennox ad Alister McGrath).

Al contrario, sarebbe stato ed è ancora necessario identificare questo spazio rappresentato da pensatori pregni di teologia (non solo cattolica) che maneggiavano abilmente le risultanze della critica biblica germanica, anche se non aggiornata (Bultmann su tutti) che conoscevano la dialettica barthiana e gli appelli di Bonnhoeffer (letti però solo ed esclusivamente in chiave filosofica e non teologica) e citavano la Bibbia con maestria. Ebbene, di questa schiera di pensatori, soprattutto italiani, Vattimo è stato sicuramente il più illustre, e penso soprattutto al Vattimo dell’ultima fase del suo pensiero, quella che si apre con lo straordinario testamento di Credere di credere (1996).

Lo sforzo interpretativo stava e sta qui nel cogliere la radice incredula di un ritorno al cristianesimo (oggi tutti i necrologi parlano per Vattimo di un ritorno al cattolicesimo), una radice che appare però dopo un faticoso lavoro di sfrondamento di una rigogliosa vegetazione di pensiero cristiano e di interpretazioni evangeliche.

Ma prima di fare qualche altro passo in questo spazio interpretativo (ripetiamo: Vattimo come rappresentante di un pensiero italiano sostanzialmente “ateo” e incredulo), spieghiamo la seconda ragione per la quale l’ascrizione del filosofo torinese agli “atei devoti” apparirebbe complicata e contestabile. Questa ragione sta nell’aggettivo “devoto”, quello che costruisce l’apparente ossimoro (come se non si desse una devozione laica e atea – Russell docet). Ebbene nella temperie che partorì l’idea di una posizione teorica in cui sarebbe possibile “professare” una visione del mondo etsi Deus non daretur, e nello stesso tempo rendere tutto l’omaggio a una confessione cristiana, il cattolicesimo, la devozione era il portato di un’impostazione sostanzialmente politica. E Vattimo non era certo da contare in quella parte politica a cui facevano riferimento Giuliano Ferrara, piuttosto che Marcello Pera, tanto per fare due nomi di atei devoti. Il nichilismo e il pensiero debole, la pluralità dei valori, l’apertura al mondo LGBT e tanto altro ancora portavano Vattimo in tutt’altra direzione rispetto a chi stava preparando allora, quando Vattimo stesso parlava di un ritorno della religione, la strada oggi conclamata del pacchetto “Dio, patria e famiglia”.

Eppure, ed è questa la nostra proposta, entrambi i partiti riconoscevano la necessità di pensare, alla “radice” della realtà sociale e culturale in cui si muovevano, il cristianesimo, inteso come “eredità”: che si trattasse di dire ai liberali che “devono” dirsi cristiani (Pera), oppure di segnalare come dopo l’oblio dell’essere e il superamento della metafisica, il cristianesimo e in esso il cristianesimo cattolico era ciò che la secolarizzazione ci lasciava come spazio in cui continuare a pensare il modo in cui sostituire la morte di Dio annunciata da Nietzsche, per entrambi, a sinistra come a destra, non si poteva fare a meno di non potersi non dire o, necessariamente dirsi, cristiani.

Dietro entrambe le proposte, così divaricate, non si può non scorgere la lezione del Perché non possiamo non dirci cristiani di Benedetto Croce (1942). Sì, Vattimo è stato un devoto, nell’accezione culturale e teorica in cui si pensa al cristianesimo come garanzia della civiltà occidentale, secolarizzata, postmoderna.

Certo c’è una sfumatura che distingue la devozione di destra da quella di sinistra, di Vattimo, per esemplificare. Mentre la prima devozione si estrinseca nel tema dell’identità (Dio patria e famiglia) e, potremmo semplificare, si cristallizza nel “nome” di cristiani (sono X, sono Y, sono cristiana/o), nel secondo caso, quello del ritorno al cristianesimo cattolico di Vattimo, si può parlare di una devozione che prende la strada del fare, un vero rappresentante, il filosofo torinese, di un paradigma tutto da delineare ma ben presente nella cultura italiana, quello dei cristiani di e nei fatti: «l’eredità cristiana che torna nel pensiero debole è anche e soprattutto eredità del precetto cristiano della carità e del suo rifiuto della violenza» (Credere di credere, p. 37). Non è un caso che il risultato ultimo di una secolarizzazione che libera il cristianesimo (e gli stesi Vangeli) da una visione violenta e prepotente della verità è la caritas, quello che resta della kenosis evangelica, l’essenza della rivelazione e quello che viene assegnato come compito a chi vuole vivere da devoto, indipendentemente dal fatto se Dio esista, sia vivo o parli e si faccia sentire!

Cristiani nel nome e cristiani nei fatti sono due categorie con le quali il pensiero evangelico deve confrontarsi. Deve comprendere in che modo il termine cristiano viene ripreso e se questa ripresa riesca in qualche modo a rimuovere la parvenza di incredulità (questo nel caso di Vattimo che, come detto sopra, nega di essere contato tra gli atei) quando ci si dedica a un lavoro interpretativo ed ermeneutico – naturalmente caro a Vattimo ­- delle fonti cristiane. È qui, quando si va a leggere il modo in cui l’essere cristiani di oggi si collega a Colui che dà il nome ai suoi discepoli (come accadde ad Antiochia, Atti 11) che emerge l’ipotesi di posizioni sostanzialmente atee, a destra come a sinistra. Per i cristiani, e per gli evangelici in particolare, di Dio se ne parla nei termini della sua rivelazione in Gesù (figura salvata ma “sfigurata” da tutte le posizioni agnostiche ed atee); della rivelazione di Dio in Gesù se ne parla nei termini dell’attesa ebraica (Bibbia ebraica, vs Croce e … il Girard di Vattimo) e nei termini della testimonianza dei testimoni oculari (i Vangeli). Nel gioco della fusione degli orizzonti, del moltiplicarsi delle interpretazioni possibili da parte del lettore, il ruolo della fonte testimoniale deve essere distinta, valorizzata e tutelata. Se non si fa questo, cioè se non ci si ancora al Gesù della storia, il Cristo della fede diventa una chimera e il Dio che Gesù Cristo avrebbe rivelato, diviene un prodotto dell’ontoteologia di cui si può cantare la morte.

Ecco perché l’ateismo devoto è una forma tout court di ateismo che ha bisogno di ascoltare il vangelo; che si blocchi nel nome ed esalti l’identità, fino al limite dell’esagerazione di voler difendere Dio o che si esalti nella caritas delle azioni solidali in cui Dio non è altro che una chimerica ONG che ci lascia senza la possibilità di chiedere perdono per l’autogiustificazione che rincorriamo nel nostro cristianesimo del nome e dei fatti.

L’articolo Gianni Vattimo (1936-2023). Anche lui un ateo devoto? proviene da DiRS GBU.

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di Francesco Schiano
(Staff GBU – Napoli)

Il tema della violenza sulle donne è purtroppo costantemente in cima alla lista di quelli più discussi dei nostri tempi, e i tragici fatti di Palermo e Caivano hanno imposto una seria e complessa riflessione su responsabilità e possibili soluzioni al problema.

Hanno destato molto interesse alcune affermazioni della pornostar Rocco Siffredi, il quale ha denunciato alcune brutture dell’industria che rappresenta, rendendosi finanche disponibile a chiudere il suo stesso sito internet per favorire la limitazione dell’accesso dei più giovani alla pornografia e incentivare la loro educazione sessuale.
Il bisogno di un’efficace educazione sessuale è un punto sul quale tutti sembrano essere d’accordo. È abbastanza chiaro che non si tratti di fornire nozioni di anatomia, informare sul corretto uso di contraccettivi o mettere in guardia sulle malattie veneree; ciò di cui ci sarebbe bisogno è una vera e propria educazione sentimentale, che ricollochi il sesso nel giusto contesto di una relazione d’amore, o quanto meno di profondo rispetto reciproco.

Probabilmente non sarà la Bibbia il testo al quale si farà riferimento nel momento in cui si proporranno nuovi programmi per formare i nostri giovani, eppure proprio tra i libri della Bibbia ce n’è uno che sarebbe perfetto per questo scopo: il Cantico dei Cantici.
Teologi e commentatori della Bibbia, insieme a filosofi e altri pensatori, fanno molto spesso riferimento a 2 parole greche per spiegare la complessità dell’esperienza e della manifestazione dell’amore: Eros e Agape.

La prima descrive l’amore erotico, e più in generale l’amore per qualcosa o qualcuno che si desidera allo scopo di ottenere soddisfazione e piacere. Un amore fondamentalmente egocentrico e spesso egoista. La seconda parola, agape, descrive invece l’amore disinteressato, puro, concentrato sul bene dell’oggetto del sentimento.

Il Cantico dei Cantici è una straordinaria celebrazione dell’amore erotico, della passione romantica e dell’unione fisica tra due amanti; corregge l’associazione tra eros e impurità che dalla filosofia neoplatonica è entrata nella concezione cristiana del sesso.

Proverò a riassumere alcuni concetti esplicitamente contenuti nel Cantico, che, pur essendo un poema, non un manuale, è incluso nella raccolta della letteratura sapienziale della Bibbia, quella rivolta particolarmente alla formazione dei giovani.

I. L’amore sensuale è un dono meraviglioso.
Per accordare la concezione negativa del sesso con la presenza di un libro simile nella Bibbia, si è tradizionalmente considerato l’amore descritto nel Cantico come un’allegoria dell’amore di Dio per il suo popolo o di Cristo per la Chiesa; in realtà, però, questo poema descrive la bellezza e la potenza dell’amore romantico e sensuale in modo molto chiaro e diretto.

1:2 Mi baci egli dei baci della sua bocca,
poiché le tue carezze sono migliori del vino.
3 I tuoi profumi hanno un odore soave;
il tuo nome è un profumo che si spande;
perciò ti amano le fanciulle!

Ecco come si apre il poema, chiamando da subito in causa i cinque sensi e presentandoci la potentissima attrazione fisica tra i due amanti; da qui in poi è un crescendo che si conclude con l’unione sessuale della coppia.

II. Proprio l’apertura del poema, che vede la donna parlare per prima, ci suggerisce il prossimo fondamentale aspetto dell’educazione sessuale biblica: il rapporto tra uomo e donna è paritario. La cosa era sorprendente 2500 o 3000 anni fa, non dovrebbe esserlo adesso; eppure una delle considerazioni che ha messo praticamente d’accordo tutti i partecipanti al dibattito pubblico dei nostri giorni è proprio il maschilismo dell’etica sessuale dominante, che trasforma il corpo femminile in oggetto di piacere.

Per tutto il Cantico dei Cantici, l’amato e l’amata esprimono il loro desiderio, i loro sentimenti e il loro amore in modo reciproco, senza che nessuno risulti l’oggetto della conquista dell’altro.

 

III. Quest’ultimo pensiero è completato dal terzo concetto:
il proprio piacere si trova nel godimento dell’altro.
L’unione sessuale più appagante è quella nella quale gli amanti non cercano di ottenere piacere, ma di darlo l’uno all’altra. L’amore sensuale tende molto facilmente all’egocentrismo, ma può essere altruista e trovare soddisfazione nel darsi all’altro, può godere del piacere dell’altro.

  7:11 Io sono del mio amico,
verso me va il suo desiderio.
12 Vieni, amico mio, usciamo ai campi,
passiamo la notte nei villaggi!
13 Fin dal mattino andremo nelle vigne;
vedremo se la vite ha sbocciato, se il suo fiore si apre,
se i melagrani fioriscono.
Là ti darò le mie carezze.
14 Le mandragole mandano profumo,
sulle nostre porte stanno frutti deliziosi di ogni specie,
nuovi e vecchi,
che ho serbati per te, amico mio.

 

IV. L’amore romantico è esclusivo
Questo punto è probabilmente quello più controculturale. La riduzione dell’essere umano allo stato di animale evoluto, fa si che per molti parlare di monogamia sia quasi una violazione dell’ordine naturale delle cose. Eppure chiunque si sia mai innamorato sa che uno degli aspetti fondamentali dell’amore romantico è proprio la sua esclusività.

2 Quale un giglio tra le spine,
tale è l’amica mia tra le fanciulle.
3 Qual è un melo tra gli alberi del bosco,
tal è l’amico mio fra i giovani.

Ecco come si vedono i due amanti del poema biblico: al tuo confronto le altre sono spine; al tuo confronto gli altri sono un bosco indistinto.
Si può provare attrazione fisica per tante persone allo stesso tempo, ma l’amore sensuale celebrato in questo libro si può provare per una sola persona.

L’amore erotico, quello orientato alla soddisfazione di un bisogno personale, non è sbagliato in se stesso e non deve essere contrapposto all’agape, all’amore disinteressato; piuttosto deve esserne completato.  Ecco il principio fondamentale dell’educazione sessuale biblica: desiderio sessuale e piacere sessuale sono tra i doni migliori di Dio, ma possono essere vissuti in maniera completa solo mettendo l’amata al centro delle nostre attenzioni, amando il prossimo come noi stessi.
Dove troviamo il grande esempio di amore che dona se stesso per il bene dell’altro, se non nella croce di Cristo? È in questo senso che il Cantico dei Cantici ci parla dell’amore di Cristo per la Chiesa, e nel fornirci un modello per la nostra vita sentimentale e sessuale ci spinge verso l’unica speranza di salvezza per il mondo e per ogni singolo essere umano.

 

Pur non essendo pienamente in accordo con alcune delle conclusioni dell’autore, sono in debito, per la maggior parte degli spunti di riflessione presentati in questo breve articolo, con il testo di H. Gollwitzer, edito da Claudiana, Il poema biblico dell’amore tra uomo e donna.
Di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU, Ian M. Duguid, Cantico dei Cantici. Introduzione e commento, Collana Commentari all’Antico testamento (CAT)

 

L’articolo Rocco Siffredi, l’educazione sessuale e il Cantico dei Cantici proviene da DiRS GBU.

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