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di Massimo Rubboli

Su Jimmy Carter si veda anche: L’evangelicalismo di Jimmy Carter, di Daniel K. Williams

A 100 anni, dopo una lunga malattia, il 29 dicembre 2024 si è spento Jimmy Carter, 39° presidente degli Stati Uniti, che aveva scelto di non prolungare le cure mediche in ospedale e di ricevere soltanto cure palliative nella propria casa di Plains, in Georgia, dove aveva vissuto con la moglie Rosalynn dal giorno del loro matrimonio il 7 luglio 1946.

Nelle elezioni presidenziali del 1976, che si svolsero in un paese ancora segnato dalle dimissioni di Nixon in seguito allo scandalo Watergate, Carter sconfisse il candidato repubblicano Gerald Ford ma fu presidente per un unico mandato, perché nelle elezioni del 1980 fu sconfitto da Ronald Reagan, sull’onda della crisi legata all’invasione sovietica dell’Afghanistan nel dicembre 1979 e al sequestro, un mese prima, dei dipendenti dell’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran (dopo quasi sei mesi dall’occupazione dell’ambasciata, Carter aveva autorizzato un’operazione delle forze speciali per liberare gli ostaggi che fallì clamorosamente). La vittoria di Reagan, favorita anche dal sostegno della Nuova Destra Religiosa, dipese dal desiderio di una parte dell’elettorato di ridare forza al primato politico, economico e militare degli Stati Uniti, che Carter non aveva sostenuto con la risolutezza mostrata dal candidato repubblicano, e la sua ricerca di soluzioni pacifiche, come nel caso dei Trattati del Canale di Panama del 1977, era stata considerata responsabile di un indebolimento dell’immagine degli Stati Uniti nel mondo.

Dopo la fine della sua presidenza, fondò insieme alla moglie il Carter Center, con sede ad Atlanta, che si è occupato della difesa dei diritti umani, dell’osservazione elettorale neutrale in paesi di “democrazia recente” e dell’aiuto umanitario e medico-sanitario nelle zone colpite da calamità naturali.

Nel 2002, fu insignito del Premio Nobel per la pace con questa motivazione: “per i decenni di sforzi instancabili per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali, per far progredire la democrazia e i diritti umani e per promuovere lo sviluppo economico e sociale”. Si trattò di un riconoscimento della sua politica estera e, in particolare, della mediazione che aveva portato alla firma, a Washington, il 26 marzo 1979, del Trattato di pace israelo-egiziano, che pose fine al lungo conflitto tra i due paesi.

 

Un “born-again Christian”?

Carter non nascose mai che il suo impegno politico fosse motivato dalla volontà di mettersi al servizio della società civile e che questo spirito di servizio fosse fondato sulla sua fede evangelica[1], che lo portava a volere servire gli altri stando tra di loro e non al di sopra di loro. Carter volle dare un segno di questa sua volontà di servizio fin dal 20 gennaio 1977, giorno del suo insediamento, quando – insieme alla moglie Rosalynn – percorse a piedi Pennsylvania Avenue fino alla Casa Bianca.

Il 23 marzo 1976, durante le primarie del Partito democratico in North Carolina, rispondendo alla domanda di un giornalista, Carter affermò di essere un “born again Christian”, cioè un cristiano nato di nuovo. Il giorno dopo, nei programmi televisivi e sulla stampa degli Stati Uniti alcuni giornalisti sostennero che il candidato della Georgia apparteneva alla setta religiosa dei “nati di nuovo”, notizia che fu ripresa anche dalla stampa italiana! In realtà, Carter aveva soltanto fatto riferimento al cap. 3 del Vangelo di Giovanni, nel quale Gesù, a Nicodemo che gli domandava cosa dovesse fare per entrare nel regno dei cieli, rispondeva che sarebbe dovuto “nascere di nuovo”. Si tratta di una metafora ben nota agli evangelici, per i quali significa che la salvezza richiede la conversione; quindi, non suscitò nessuna sorpresa a chi aveva dimestichezza con immagini bibliche, ma sorprese e trasse in inganno chi non lo conosceva.

 

Una fede vissuta

Per quanto riguarda la sua appartenenza denominazionale, Carter fu sempre membro attivo di una chiesa battista[2]. Una delle caratteristiche del battismo è la separazione tra stato e chiesa e Carter si attenne sempre a questo principio e non esibì mai la sua fede personale a scopi politici.

Nella retorica politica americana – in particolare nei discorsi dei candidati alla presidenza – è molto comune l’uso di riferimenti biblici, perché il linguaggio biblico risulta familiare a milioni di elettori che – almeno da giovani – hanno frequentato una chiesa nella quale hanno ricevuto un insegnamento biblico. Carter, invece, fece sempre un uso molto discreto della sua fede nei discorsi pubblici (più di Lincoln, Franklin Roosevelt, Eisenhower e Reagan), ma ne dimostrò l’autenticità – prima, durante e dopo la sua presidenza – con l’impegno personale sia come diacono e insegnante della scuola biblica domenicale nella chiesa battista di Plains sia come volontario dell’associazione Habitat for Humanity, con la quale lavorò dal 1984, insieme alla moglie, come carpentiere nella costruzione di case per famiglie indigenti.

Nel 2006, lui e la moglie lasciarono la Southern Baptist Convention, che aveva modificato la propria base di fede escludendo le donne dal pastorato, e aderirono alla Cooperative Baptist Fellowship[3].  Nel gennaio del 2007, Carter è stato tra i promotori del “Nuovo patto battista”, un’alleanza creata per riunire le varie anime del battismo e rappresentare “una voce battista autentica e profetica per questi tempi difficili, […] accogliere gli stranieri tra noi e sostenere la libertà religiosa e il rispetto per la diversità religiosa”.

L’eredità politica di Carter fu in parte raccolta da Obama. Oggi, è difficile dire se emergerà qualcuna/o in grado di recuperare l’impegno di Carter e Obama per la pace, la giustizia sociale e i diritti umani.

 

Massimo Rubboli ha insegnato Storia dell’America del Nord e Storia del Cristianesimo presso l’Università di Genova, ha pubblicato diversi libri e articoli che illustrano la vicenda storica del cristianesimo e in particolare di alcune aree geografiche nonché di alcune chiese.
Per le Edizioni GBU ha pubblicato diversi volumi tra cui: La guerra santa di Putin e Kirill. Il fattore religioso nel conflitto russo-ucraino (2022), e il volume fresco di stampa: I cristiani, la violenza e le armi. Percorsi storici e revisioni storiografiche (2024)

 

[1] Sul rapporto tra la sua fede evangelica e la sua presidenza, vedi Richard Hutcheson, God in the White House: How Religion Has Changed the Modern Presidency, New York 1988, pp. 114-51; Richard V. Pierard e Robert D. Linder, Civil Religion and the Presidency, Grand Rapids, MI 1988, pp. 231-56; Gary Scott Smith, Faith and the Presidency, Oxford – New York 2006, pp. 293-324.

[2] Il Battismo è la più numerosa famiglia protestante degli Stati Uniti, che conta oltre 30 milioni di membri suddivisi in una miriade di associations, conferences e conventions. Sono battisti l’ex presidente Bill Clinton l’ex vice-presidente Al Gore; lo era anche il presidente Harry Truman.

[3] Jimmy Carter, “Lascio la mia denominazione per l’uguaglianza tra uomo e donna”, in Massimo Rubboli, I battisti. Un profilo storico-teologico dalle origini a oggi, Torino 2011, pp. 190-4.

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di Pablo Martinez

 

(Matteo 1:18–25)

Tre frasi relative a tre nomi ci mostrano l’essenza del Natale. Sono la chiave per comprendere questa celebrazione e il motivo della sua intrinseca gioia:

  • «La vergine sarà incinta e partorirà un figlio»: Maria (v. 23)
  • «tu gli porrai nome Gesù» (v. 21)
  • « al quale sarà posto nome Emmanuele» (v. 23)

 

1. Maria: un miracolo credibile

«La vergine sarà incinta e partorirà un figlio» (Matteo 1:23)

Il racconto del Natale inizia con un miracolo. C’è una dimensione soprannaturale di cui tener conto, in cui credere. Come per altri punti del vangelo, anche nel caso del Natale la fede è il primo passo per la sua comprensione.
La storia ha dell’incredibile. Una vergine che concepisce un figlio suscita una facile reazione di sarcasmo in molti. Come può una vergine rimanere incinta? Ridiamo e rifiutiamo, considerandolo «non credibile» tutto ciò che sfugge alla nostra comprensione. Dobbiamo razionalizzare il mistero. Il racconto fa sorgere sicuramente delle domande, ma sono secondarie e non necessarie per comprendere il testo. L’enfasi non è su ciò che è misterioso – una vergine che concepisce – ma su ciò che è glorioso: Gesù nasce per opera diretta dello Spirito divino, frase questa ripetuta due volte (v. 18 e v. 20). Il punto cruciale del racconto sta dunque nell’azione diretta dello Spirito Santo, non nella verginità di Maria.

 

Il problema sottostante. Ciò che è in gioco nel credere o nel rifiutare la nascita verginale di Gesù è dunque l’onnipotenza e la sovranità divine. Dio dà la vita dove, quando e come vuole. Per questo motivo è importante il concepimento soprannaturale di Gesù, tanto importante da far parte dei dogmi del Credo Apostolico. La domanda chiave non è «Come è stato possibile?», ma «C’è qualcosa di impossibile per Dio?» (Lc 1:37).
Una fede che non contempla dei misteri non è più fede. In effetti, nel testo c’è mistero, ma c’è molta più luce che mistero. Le persone trovano nell’spetto misterioso del soprannaturale una scusa per non credere, ma il mistero può anche essere uno stimolo alla fede. Una fede senza misteri cesserebbe di essere tale. La fede contiene elementi velati ed elementi rivelati. Concentrarsi su ciò che è velato, «i segreti» di Dio, ci impedisce di comprendere gli aspetti rivelati, la grande luce del vangelo.
Pertanto, il Natale inizia con una messa alla prova della nostra fede. Sono disposto a credere che nulla sia impossibile a Dio? Se è così, crederò nel miracolo del concepimento verginale di Gesù. Se falliamo qui, non crederemo nemmeno nel resto dei fatti soprannaturali della vita di Cristo, incluso la sua risurrezione. La vita di Gesù ruota costantemente intorno al miracoloso. Una fede senza miracoli ci porta a un Gesù meramente umano che ci lascia un vangelo umano, senza alcuna potenza.

 

 2. Gesù: un Salvatore necessario

«tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati» (Mt 1:21)

Il secondo nome, Gesù, ci rivela lo scopo del Natale: «la salvezza». Il Natale ci ricorda che abbiamo bisogno di un Salvatore. Qui sta il suo vero significato. La salvezza è l’asse intorno al quale ruota l’intera vita di Gesù, tanto che il suo nome significa Salvatore. Da cosa dovrebbe salvarci Gesù? Nel Vangelo di Luca questa salvezza viene illustrata. Zaccaria, «riempito di Spirito Santo, profetizzò, dicendo: … E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo… per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati» (Lc 1:67, 76, 77).

La salvezza di Gesù appare inscindibilmente legata al perdono. Non si trattava di un evento sociale come la liberazione politica dal giogo romano, o semplicemente una liberazione emotiva con la conseguente capacità di avere una vita felice. È molto più profondo: «Gesù salverà il suo popolo dai loro peccati (dai miei peccati)» (Mt 1:21). Per Gesù la salvezza non consisteva nello sradicare i grandi mali sociali del suo tempo: povertà, fame, discriminazione, violenza, etc., né consisteva nell’alleviare problemi personali. Tutto ciò sta sicuramente dentro al messaggio del vangelo, ma è un risultato, è il frutto della salvezza, non la sua essenza né il suo scopo. La salvezza di Gesù è un’esperienza personale e morale con implicazioni sociali ed emotive, ma non viceversa.
Il perdono dei peccati richiede una confessione. Oggi è di fondamentale importanza comprendere oggi questa necessità! La nostra società è cieca nei confronti della sua dimensione spirituale, è affetta da una sorta di anestesia morale, con conseguenze tragiche. L’idea di colpa e di peccato oggi è diventata obsoleta. Niente rappresenta un peccato; tutto dipende dalla sincerità con cui si fa qualcosa. L’indurimento della coscienza dei nostri contemporanei impedisce loro di vedere la profondità del peccato; ma questa cecità non li esonera dalla responsabilità che hanno al cospetto di Dio. Anche se non ne siamo consapevoli, tutti abbiamo bisogno di perdono e salvezza.
Il Natale è gioia e festa, ma il suo messaggio essenziale ci ricorda che c’è una questione fondamentale su cui meditare: la mia salvezza eterna. Di tutti i doni che possiamo ricevere in questi giorni, uno spicca per la sua importanza: il perdono dei miei peccati. Ciò che è in gioco è la riconciliazione con Dio e, di conseguenza, il mio destino eterno.

 Questi sono i tre gradini della scala per il Cielo. Possiamo riassumere quanto detto finora con un’illustrazione. La scala per il Cielo ha tre gradini:

  • la convinzione di peccato. Questa consapevolezza ci porta a vedere il
  • bisogno del perdono un bisogno che può essere soddisfatto solo con
  • uno sguardo di fede rivolto alla croce, dove Cristo muore per il peccato e per i miei peccati

Se i primi due gradini richiedono di guardare in basso nei nostri cuori, esprimendo ravvedimento, il terzo ci chiede di guardare in alto alla croce, con fede, confidando che Cristo è il Salvatore dei miei peccati. Gesù è venuto in questo mondo per rendere possibile questo terzo passo. La storia del Natale inizia in una mangiatoia ma finisce e culmina sulla croce. Il Natale non sarebbe completo se non si alzano gli occhi alla croce. Possiamo applicare al Natale il noto testo di Ebrei 12: celebriamolo [il Natale] «guardando a Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta…» (Eb 12:2).

In secondo luogo, il Natale ci ricorda l’amore di Dio

 

 3. Emanuele: un Dio vicino

«gli sarà posto nome Emmanuele» (Mt 1:23)

Con questo terzo nome, Emanuele, che significa Dio con noi, raggiungiamo il culmine del Natale. Finora abbiamo visto come Dio stia offrendo a noi una salvezza necessaria, ora vediamo che Egli è anche con noi. Dio stesso è sceso in questo mondo, un grande mistero ma al tempo stesso una realtà straordinaria! Il canto di Zaccaria in Luca lo descrive meravigliosamente: «grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio; per i quali l’Aurora ci visiterà dall’alto, per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte» (Lc 1:78–79).
Qui abbiamo un fatto unico ed eccezionale, che è esclusivo della fede cristiana: il Dio onnipotente, il creatore e Signore sovrano dell’universo, si è avvicinato per “visitarci”. Questa perfetta combinazione tra la grandezza di Dio e la Sua vicinanza – trascendenza e immanenza – non si trova in nessun’altra religione. Si consideri il valore chiave della preposizione “con”. Questa piccola parola definisce il messaggio del Natale e l’essenza del vangelo. Contiene la caratteristica più peculiare del cristianesimo rispetto a qualsiasi altra religione. Nelle religioni pagane il rapporto tra le divinità e gli esseri umani è definito da una preposizione molto diversa: “contro”. Gli dei sono contro gli uomini e devono essere compiuti tutti i tipi di sacrifici per placare la loro ira. Anche nel buddismo, così popolare oggi in Europa, il rapporto uomo–dio è meglio descritto con la preposizione “prima”. Budda è un dio calmo, ma distante, è prima (davanti) a me, ma non con me. L’immagine di Budda con le braccia incrociate, gli occhi chiusi, con un’espressione rigida sul volto e un sorriso ieratico trasmette l’idea di un dio freddo che, nel migliore dei casi, contempla gli esseri umani da lontano ed è impassibile.
È impressionante la differenza tra Gesù e Budda! Il Dio che è per noi e ci sta offrendo una salvezza così grande è anche con noi perché viene in questo mondo. Gesù ed Emanuele sono inseparabili e ci rivelano l’essenza del carattere di Dio, il suo amore. Infatti, Dio ha sempre voluto che il Suo rapporto con l’uomo fosse un rapporto d’amore e non d’imposizione. In qualsiasi relazione d’amore, il miglior dono è la presenza al fianco dell’amato. Pertanto, il Natale assomiglia, come profetizzò Zaccaria, a un’alba, l’alba di un giorno luminoso che culminerà quando «il Sole di giustizia» (Mal 4:2), Gesù Cristo, regnerà per sempre. Non sorprende che uno dei testi più noti della Bibbia inizi così: «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito…» (Gv 3:16).

Pertanto, in terzo luogo, il Natale ci ricorda la vicinanza di Dio.

Conclusione: il Natale è una storia che cambia le nostre vite
Emanuele, il Dio che «si è fatto carne e ha abitato tra noi» cambia necessariamente la nostra prospettiva della vita. Ci apre gli occhi su uno scenario totalmente nuovo qui su questa terra e per l’aldilà. Anche nei momenti di tribolazione, quando ci chiediamo perplessi: “Dov’è Dio?”, anche allora possiamo alzare gli occhi della fede al cielo e affermare con piena fiducia: Gesù Cristo è qui al mio fianco e intercede per me (Rom 8:34; Eb 4:16). Sì, lo stesso Dio che era su questa terra ed è passato per ogni sorta di sofferenza umana (Eb 2:17–18; Eb 4:15), è per me e con me, qui e ora.
Dio è per noi e con noi. Puoi immaginare a un messaggio di incoraggiamento più grande? Qui sta la vera gioia del Natale, la vera motivazione della nostra celebrazione. Per questo motivo, quando i Magi d’Oriente videro la stella splendere nel cielo, segno della nascita di Gesù, «si rallegrarono con grande gioia» (Mt 2:10). Noi ci rallegriamo allo stesso modo e celebriamo il Natale, una storia che ha a che fare con potenza, l’amore e la vicinanza di Dio, la storia che ha cambiato le nostre vite.

Facciamo la stessa cosa perché a Natale ricordiamo e celebriamo la potenza, l’amore e la vicinanza di Dio.

 

Pablo Martínez è uno psichiatra che svolge la sua attività privata a Barcellona. Ha sviluppato un valido ministero di insegnante e conferenziere in molte nazioni europee affrontando temi che hanno a che fare con il rapporto tra fede e l’universo dell’interiorità umana. I suoi libri sono stati tradotti in ben 16 lingue. Insegna Teologia pastorale ed è Presidente onorario dei Gruppi Biblici Universitari (GBU – IFES) di Spagna.

Le Edizioni GBU hanno pubblicato in italiano questi libri di Pablo Martinez:

Abba Padre. Teologia e psicologia della preghiera, 1998
La spina nella carne. Come trovare forza e speranza nella sofferenza, 2011
Inseguendo l’arcobaleno. Oltre il dolore, il lutto e le separazioni, 2014
Abbi cura di te stesso. Resistere e progredire nel servizio cristiano, 2020
L’unico conforto nella vita e nella morte. Credere e sperare nella pandemia (con J. Lamb e G.C. Di Gaetano), 2020
Gesù, vero Dio o squilibrato? Due psichiatri rileggono la personalità dell’uomo di Nazaret, 2022

Curare la fede, 15° Convegno di Studi Nazionale GBU, 2022 (Canale You Tube di Edizioni GBU)

Questo articolo è stato tratto dal blog (https://christian-thought.org) e tradotto con permesso

 

 

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Con l’avvicinarsi del Natale, i cristiani di tutto il mondo trascorreranno un po’ di tempo leggendo e riflettendo sulle narrazioni della nascita di Gesù nei vangeli di Matteo e Luca. Gli eventi di Betlemme sono forse i più noti tra tutti i racconti biblici; tuttavia, quanta attenzione prestiamo al fatto che le narrazioni sono distribuite in due diversi resoconti?

È facile che queste due prospettive si fondano nella nostra mente nell’unica storia che conosciamo così bene. In parte questo è dovuto al fatto che entrambe hanno molti elementi in comune. Sia Matteo che Luca parlano del luogo dove è nato Gesù, del fatto che sua madre era una vergine di nome Maria e che era promessa sposa a un uomo di nome Giuseppe. Entrambe le versioni concordano sul fatto che Giuseppe discendeva dal re Davide, che il nome di Gesù fu dato da un angelo, che la sua nascita fu un adempimento della profezia e che avvenne durante il regno di Erode. Dopo la sua nascita, Matteo e Luca riportano entrambi che Maria e Giuseppe ricevettero visitatori desiderosi di vedere Gesù (magi in Matteo, pastori in Luca).

Sebbene vi sia coerenza su questi punti centrali, tuttavia, vi sono anche molte differenze tra le due narrazioni. Ciò significa che gli studiosi hanno spesso mostrato scetticismo sulla storicità dei racconti. Ciò significa anche che si tende a considerare i racconti di Matteo e Luca come composti e scritti in modo indipendente, senza conoscenza l’uno dell’altro.

Secondo l’opinione prevalente degli studiosi, Marco scrisse per primo, senza narrazione della nascita, e Matteo e Luca scrissero successivamente, utilizzando Marco, ma aggiungendo le rispettive narrazioni della nascita. Per gli studiosi scettici questo crea una situazione difficile. Se Matteo e Luca sono stati scritti in modo indipendente, allora è difficile spiegare la somiglianza dei loro racconti sulla nascita, a meno che non si basino su fatti concreti. Coloro che sostengono che un racconto ha preso in prestito dall’altro e che le incongruenze significano che non ci si può fidare di questi resoconti storici accurati, stanno in effetti insistendo sul fatto che Matteo o Luca hanno preso in prestito dall’altro, e allo stesso tempo hanno scritto in modo incompatibile con la narrazione da cui hanno preso in prestito.

Nonostante ciò sia altamente improbabile, le controversie intorno ai racconti della nascita sono rimaste. Il dibattito tende a concentrarsi su due questioni principali delle differenze tra Matteo e Luca, che esamineremo in dettaglio. Che cosa mostra l’evidenza e come i cristiani dovrebbero affrontare il problema?

 

Obiezioni per omissione

Una maniera in cui si vedono le contraddizioni tra le narrazioni di Matteo e Luca è attraverso ciò che viene omesso. Matteo parla dei magi, che non sono presenti in Luca, ma Luca include i pastori, che sono assenti in Matteo. Matteo non dice nemmeno che Maria e Giuseppe erano a Nazareth prima di essere a Betlemme. Ancora più significativo è il fatto che Luca non riporta la strage degli innocenti a Betlemme né la fuga in Egitto. Se queste cose sono vere, perché l’altra narrazione le omette?

Le omissioni sono fatte passare per problemi più grandi di quelli che sono in realtà. A conclusione del suo vangelo, Giovanni osserva: “Ora vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha fatte; se si scrivessero a una a una, penso che il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero”. Come afferma qualsiasi biografo, non è possibile registrare ogni dettaglio della vita di una persona. Inevitabilmente si devono prendere decisioni redazionali su cosa includere e cosa tralasciare, e il compito del biografo è quello di identificare ciò che è più importante per il suo scopo e il suo pubblico.

Per sostenere che la mancata inclusione di episodi come la fuga in Egitto, i magi o i pastori mettano in dubbio l’attendibilità storica dei Vangeli, lo scettico deve dimostrare sia che è del tutto irragionevole che gli scrittori non fossero a conoscenza di certi aspetti della storia, sia che, se lo sapevano, la loro omissione non era una scelta redazionale legittima.

Ogni documento storico è scritto per un pubblico e per uno scopo. Luca, ad esempio, li riporta entrambi nell’introduzione al suo Vangelo: “è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine, di scrivertene per ordine, illustre Teofilo, perché tu riconosca la certezza delle cose che ti sono state insegnate.” (Luca 1:3-4). Non ci sono particolari motivi per credere che l’omissione della visita dei magi da parte di Luca sia dovuta al fatto che fosse uno storico inaffidabile, piuttosto che non ritenesse questi dettagli altrettanto utili e/o interessanti per Teofilo rispetto a quelli che ha scelto di includere, o che, per validi motivi ormai perduti dalla storia, non fosse a conoscenza dell’evento. L’argomentazione a favore dello scetticismo basato sulle omissioni si basa sul fatto che i commentatori moderni sono in grado di valutare con una certa sicurezza (a) quali informazioni sarebbero state disponibili per ogni scrittore dei vangeli e (b) quali informazioni sarebbe del tutto irragionevole lasciare fuori da un resoconto destinato a un particolare pubblico.

In definitiva, per un lettore moderno non c’è modo di sapere perché Luca non menziona la visita dei magi, la fuga in Egitto o il massacro dei bambini a Betlemme, di cui si legge in Matteo 2:13-18. Tuttavia, ci sono una serie di fattori che danno peso alla tesi secondo cui l’omissione di questi eventi è stata una decisione redazionale perfettamente plausibile.

Innanzitutto, è importante notare che il viaggio verso l’Egitto non doveva essere lungo. La cosa fondamentale era uscire dalla giurisdizione di Erode. Per fare questo avrebbero potuto andare a Pelusio lontano 200 miglia o semplicemente a Ostracine, che era più vicina di 65 miglia. La descrizione di Luca del ritorno di Maria e Giuseppe a Nazaret dopo la nascita di Gesù in 2:39 recita: “Come ebbero adempiuto tutte le prescrizioni della legge del Signore, tornarono in Galilea, a Nazaret, loro città”. Quindi, se da un lato non menziona gli eventi di Matteo 2:13-18, dall’altro non contraddice questi versetti.

E se considerassimo una versione ipoteticamente riscritta, come segue? “E quando ebbero terminato ogni cosa secondo la legge del Signore, scesero in Egitto e poi tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret”. Automaticamente la nostra attenzione si concentrerebbe sulla questione del perché sono andati in Egitto. In effetti, Luca avrebbe dovuto riorientare la sua narrazione in maniera determinante anche per dare un senso a questo viaggio aggiuntivo. In altre parole, l’obiezione all’omissione dell’Egitto da parte di Luca è in realtà un’insistenza sul fatto che non può esistere una chiara selettività autoriale, e che Luca deve citare tutto ciò che è significativo per Matteo. È un approccio che si scontra, in primo luogo, con l’idea che si possano avere più rese

 

Genealogie diverse

Un secondo punto di tensione si trova nelle differenze tra le genealogie di Matteo e Luca su Gesù. La genealogia di Matteo va da Abramo fino a Gesù in tre gruppi di 14 generazioni. La genealogia di Luca va da Gesù fino ad Adamo, anzi a Dio prima di lui.

Mentre le due genealogie sono simili tra Abramo e Davide, divergono drasticamente tra Davide e l’esilio, incontrandosi per Shealtiel e Zorobabele, prima di divergere nuovamente e incontrarsi solo con il padre legale di Gesù, Giuseppe. Di conseguenza, Giuseppe viene presentato come se avesse due padri diversi: Giacobbe in Matteo ed Eli in Luca. Spesso si cerca di armonizzare queste due genealogie dicendo che una di esse è in realtà la genealogia di Maria, anche se nel testo non c’è nulla che lo dimostri.

Le diverse genealogie confondono i lettori moderni, la maggior parte dei quali ha una certa percezione di ciò che si aspetta da una genealogia. La nostra cultura ama l’idea di tracciare la nostra linea di famiglia. Ci sono programmi televisivi dedicati alla ricerca dei propri avi, siti web per compilare il proprio albero genealogico e in pochi clic è possibile farsi recapitare a casa un kit di test genetici. Per noi, le genealogie registrano in modo fedele e accurato la nostra discendenza, passo dopo passo, attraverso le generazioni, senza tralasciarne nessuna.

Ma se non fosse questo il significato di genealogia nel mondo antico? E se le genealogie fossero utilizzate in modo diverso, per presentare informazioni diverse? Per valutare la storicità delle genealogie evangeliche, dobbiamo riconoscere che le nostre nozioni moderne potrebbero non essere trasferibili al mondo antico.

Le due genealogie evangeliche mettono in evidenza punti diversi. Matteo traccia un percorso da Abramo attraverso la linea reale fino a Gesù, e cita in modo sorprendente quattro donne che non erano israelite (Tamar, Rahab, Ruth) o almeno avevano legami con stranieri (la moglie di Uria). Tra l’altro, questo ci prepara alla fine del libro, che mostra il Vangelo è per tutte le nazioni.

La genealogia di Luca collega Gesù con il primo uomo e ci aiuta a pensare ai contrasti tra Gesù e Adamo (e tutti gli altri esseri umani in generale). È un perfetto preludio alla narrazione della tentazione in Luca 4:1-13, in cui Gesù rifiuta il cibo nell’arido deserto in contrasto con Adamo che prese il frutto proibito in un giardino pieno di altri frutti.

Per quanto riguarda le diverse testimonianze sul padre di Giuseppe, non è difficile, né oggi né allora, immaginare che qualcuno possa avere un padre legale diverso da quello biologico, soprattutto se il padre biologico di Giuseppe lo ha ripudiato per la vergogna della gravidanza irregolare di Maria. Ma ci sono altre cose interessanti da notare sulle genealogie. In primo luogo, sebbene le due genealogie indichino nonni diversi per Gesù, il nome del suo bisnonno è quasi identico in entrambe le genealogie: Mattan in Matteo e Mattat in Luca. L’unica differenza sta nella consonante finale, che è facilmente spiegabile: questi nomi riflettono due parole ebraiche – mattan e mattat – che significano entrambe “dono”.

In secondo luogo, prendendo spunto da questo nome, vediamo che alcuni nomi della genealogia di Luca condividono un’unica radice. Il nome Mattat e altri cinque nomi nella genealogia dopo Davide derivano dalla radice ebraica triconsonantica NTN, che significa “dare”. (Sono Mattatia (3:25), Mattatia (3:26), Mattat (3:29), Mattata (3:31) e Natan (3:31). Ciò ha senso perché si tratta della genealogia che passa attraverso il figlio di Davide, Nathan. La radice di “dare” è stata utilizzata per formare alcuni dei nomi più popolari dei discendenti di Nathan. Come accade spesso nelle famiglie, i nomi si ripetono. Ci sono tre Giuseppe, due Levi, due Melchi e il nome Er (3,28), che è attestato solo per la tribù di Giuda (cfr. Genesi 38,3). Si tratta di caratteristiche che potremmo aspettarci in una vera narrazione. Possiamo anche notare che la genealogia non commette errori nell’avere uno dei nomi greci popolari, come Filippo o Erode, per il periodo precedente ad Alessandro Magno.

In terzo luogo, sia in Matteo che in Marco ci vengono detti i nomi dei fratelli di Gesù: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda (Matteo 13:55) o Giacomo, Giosia, Giuda e Simone (Marco 6:3). Si differenziano solo per l’ordine dei due nomi finali e per l’adattamento del nome ebraico Giuseppe a una desinenza greca nella forma Joses in Marco. Tuttavia, questi nomi si collegano anche alla genealogia di Matteo. I ragazzi venivano spesso chiamati con il nome dei nonni (pratica nota come papponimia) e talvolta con quello del padre (patronimia). Se il nome di Gesù è stato effettivamente dato dall’angelo come indicato in Matteo 1:21, allora né il nome del padre né quello del nonno erano un’opzione. Tuttavia, vediamo entrambi i nomi utilizzati in famiglia. Per Giacomo si intende solitamente il primo figlio nato da Giuseppe e Maria dopo la nascita di Gesù. Per questo motivo fu chiamato Giacomo, o rigorosamente Jakobos, cioè il nome del nonno Giacobbe con la desinenza greca -os. Jakobos si è evoluto in italiano come Giacomo attraverso secoli di cambiamenti di suono. Il figlio successivo a Jakobos prese il nome del padre Giuseppe.

Così possiamo vedere nei nomi dei fratelli di Gesù una piccola coincidenza che supporta la genealogia di Matteo.

 

Quattro prospettive arricchenti

Per tutte le discussioni accademiche intorno alle due narrazioni della nascita, rimane il fatto che esse concordano sui punti principali e non sono in disaccordo su nulla. Sebbene vi siano indubbiamente differenze di enfasi, i resoconti non si contraddicono direttamente. In effetti, sia gli accordi evidenti che quelli meno evidenti tra questi resoconti sono quelli che ci aspetteremmo se si basassero su una buona testimonianza.

Forse questo è uno dei motivi per cui la storia del Natale è creduta da milioni di cristiani in tutto il mondo ed è stata ampiamente creduta dalla Chiesa per millenni. Avere quattro racconti biblici della vita di Gesù, tra cui due della sua nascita, arricchisce incredibilmente la nostra comprensione di ciò che è accaduto e del suo significato. Le persone notano elementi diversi di una scena e la raccontano a modo loro. Se non si omettesse nulla, i vangeli sarebbero più poveri per questo. Tuttavia, i diversi resoconti saranno diversi: se gli eventi registrati fossero identici, non avrebbe molto senso averne più di uno.

Peter J. Williams

Principal of the Tyndale House

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Giacomo Carlo Di Gaetano

Francesco Schiano

Valerio Bernardi



Christianity Today, il 10 dicembre 2024 ha pubblicato un articolo dal titolo «In Italy, Evangelicals Wage a Quiet War on Christmas» (In Italia, gli evangelici portano avanti una guerra silenziosa contro il Natale) in cui riportava l’opinione di qualche italiano contrario alla celebraizone del natale e di alcuni missionari che vivono in Italia.

Stimolati dall’articolo ci siamo posti tre domande alle quali abbiamo cercato di rispondere

 

  1. Gli evangelici in Italia, oggi, celebrano il Natale?

 

Giacomo Carlo Di Gaetano

Non ho dati statistici per dare una risposta certa a questa domanda; me la potrei cavare dicendo che l’approccio degli evangelici italiani alla celebrazione del Natale è legato alla loro carta d’identità, alla loro età. Sarebbe abbastanza veritiero affermare che le generazioni più avanti nell’età tendono ad avere un approccio negativo alla festività mentre i giovani hanno completamente mutato il loro approccio.

Qualcosa però mi dice che se c’è una situazione in evoluzione e la celebrazione del Natale si va sempre più diffondendo non solo al livello della percezione dei singoli evangelici o delle famiglie (nel passato accadeva anche questo: celebrazioni casalinghe e negazione pubblica) ma anche al livello delle comunità locali le ragioni non sono unicamente anagrafiche.

Per spiegare quella che è una mia percezione posso far riferimento alla mia esperienza personale. Sono cresciuto in una famiglia in cui non si celebrava il Natale. Il periodo dell’anno era stigmatizzato con riferimenti all’ipocrisia del nominalismo, all’idolatria e al rifiuto di tutti quegli elementi tradizionali che infarciscono la ricorrenza.

Tuttavia non si era indifferenti all’elemento “festa” insito nel periodo dell’anno. Era infatti il periodo in cui si organizzavano eventi di chiesa come campeggi, periodi di formazione e tante altre iniziative. Per molti giovani evangelici, che non avevano festeggiato il Natale, il ritorno a scuola, dopo le festività natalizie, era vissuto con lo stesso sentimento di soddisfazione dei colleghi che invece avevano in qualche modo preso parte alle festività.

Questo elemento della festa relativa al periodo dell’anno è anche una chiave per comprendere il mutamento di approccio che io stesso ho vissuto e del quale magari potrò parlare in risposta alla terza domanda.

 

Francesco

Che io sappia non esistono statistiche, e personalmente non ho abbastanza elementi per provare una stima basata sulla mia percezione, ma conosco tanti evangelici che celebrano il Natale e tanti evangelici che non lo fanno.

Le denominazioni che contano più chiese in Italia (ADI, Pentecostali “liberi” e Assemblee dei Fratelli) hanno una posizione tradizionale di rifiuto della festa, che viene ritenuta non biblica e costruita con elementi tratti da antichi culti pagani, ma anche all’interno di queste denominazione c’è sempre stato chi ha celebrato il Natale. Altre denominazioni non hanno mai avuto nessuna ostilità nei confronti del Natale e in generale gli evangelici in Italia hanno sempre considerato questa festa come una grande opportunità evangelistica.

 

Valerio

Mi pare che quando si parla di evangelici in Italia e di un mondo piccolo vanno fatte delle differenziazioni. Se parliamo di evangelici includendo anche le chiese cosiddette storiche (Valdesi, Metodisti, Battisti) dobbiamo subito dire che il Natale è stato sempre parte integrante delle festività celebrate da parte di questi ultimi. Se parliamo di chiese libere o di stampo pentecostale bisogna dire che vi è stato negli anni un rifiuto del Natale, dovuto a diversi fattori che andrebbero analizzati con attenzione e che non vanno dimenticati.

Io appartengo ad una Chiesa di origine americana che non ha mai avuto una preclusione nel festeggiamento del Natale, pur appartenendo all’ambito libero. Natale veniva visto come un’occasione di festeggiamenti familiari, ma anche di riflessione sull’incarnazione. Sin da piccolo (e questo è successo anche ai miei genitori) uno dei momenti centrali che doveva servire anche di testimonianza della propria fede era la preparazione, da parte dei bambini e dei ragazzi, di recite natalizie che dovevano testimoniare soprattutto del Vangelo. E’ ancora tradizione cantare nel periodo dell’Avvento e nei dodici giorni delle festività canti natalizi durante il culto e la cosa è accettata con gioia dalla comunità.


  1. C’è stato indubbiamente un tempo in cui l’approccio generale alle feste comandate o del calendario liturgico era negativo e ostile. Per quali ragioni?

 

Giacomo Carlo Di Gaetano

Se volessi continuare la narrazione personale, non potrei negare che l’approccio negativo al Natale esisteva ed era molto presente. Tuttavia, mi sento di fare un sottile ma importante distinguo. Non era un approccio che oggi definirei “teologico” del tipo cattolici vs evangelici o protestanti. Tutti, anche i miei genitori, erano consapevoli del fatto che il Natale veniva regolarmente celebrato nei paesi protestanti e molti evangelici che conoscevamo non facevano mistero di esprimere un parere negativo sulla chiusura degli evangelici italiani.

Ciò che spingeva a prendere la distanza era il peso ossessivo delle tradizioni, vale a dire quell’insieme di elementi della cultura popolare intrecciati con elementi della narrazione biblica e della tradizione liturgica della chiesa cattolica. Era quell’insieme asfissiante che suscitava la repulsione per credenti che volevano parlare e testimoniare della libertà in Cristo. Si sentiva poi ripetere spesso quel refrain che poi diventerà sempre più appannaggio di tanti esponenti della Chiesa cattolica fino a raggiungere la finestra dell’Angelus di Piazza San Pietro, vale a dire l’invettiva contro il consumismo che si esprimeva, e si esprime, durante le festività.
I riferimenti alla data storica della nascita così come altri elementi più dottrinari (p.es. gli apostoli non hanno ordinato simili celebrazioni; per non dire nulla di altre sottigliezze dottrinali che pure distinguono la comprensione evangelica del Natale rispetto a quella del cattolicesimo) erano sfumati, rispetto all’appello a far nascere Gesù nel proprio cuore, ritornello tipico di ogni risveglio evangelico.

 

Francesco

Quando ho vissuto in Inghilterra, e ho conosciuto dall’interno la chiesa Anglicana, ho avuto modo di osservare la mia cultura evangelica italiana dall’esterno. Quell’esperienza mi ha fatto riflettere su quanto l’identità evangelica italiana si sia costruita in opposizione alla cultura cattolica.

Ci sono ragioni ovvie e motivazioni valide per spiegare questo fenomeno. Basti pensare all’ostilità del cattolicesimo nei confronti delle chiese evangeliche, che nell’atteggiamento di parroci e famiglie è sopravvissuto per decenni al Concilio Vaticano II; oppure al fatto che la chiesa evangelica italiana, storicamente, è stata composta in larga parte da ex-cattolici,  che sentivano l’esigenza di dimostrare una rottura chiara ed evidente con il loro passato, soprattutto con lo scopo di testimoniare la loro fede in Gesù.

Per queste e altre ragioni, alcune caratteristiche della cultura evangelica italiana si fondano sul principio “se lo fanno i cattolici, e non è nella Bibbia, noi non lo facciamo”. Il Natale, così come il Carnevale e la Pasqua cristiana, rientrava in questa categoria di azioni religiose non contemplate dalla Bibbia e presenti nel cattolicesimo.

 

Valerio

Buona parte dell’ostilità deriva da un malinteso anticattolicesimo. Il non festeggiare le feste del calendario liturgico veniva visto come una sorta di liberazione. A questo poi si sovrapponevano delle letture delle celebrazioni natalizie, viste solo in un’ottica cattolica di cattolicesimo soprattutto popolare. Veniva frainteso, ad esempio, il significato di alcuni simboli natalizi come il presepe e non si comprendeva che vi era una tradizione natalizia che era propriamente evangelica.

Alcuni simboli come l’Albero o il Padre Buono che portava doni non erano propri del Cattolicesimo, ma venivano così letti. Si trattava di una interpretazione non del tutto appropriata e che derivava da una polemica piuttosto forte con un mondo religioso maggioritario che era sicuramente ostile.

Vi era poi (tra le buone intenzioni) l’idea che qualsiasi cosa non fosse nel Vangelo o nel testo biblico non meritasse attenzione e si pensava che le celebrazioni di qualsiasi tipo fossero un modo negativo di affrontare la vita. Il principio del Vangelo veniva quindi distinto dalle feste e dai noviluni (per usare un’espressione paolina) che con il Nuovo Patto venivano ad essere abolite.

In terzo, ed ultimo luogo, i più colti del mondo evangelico facevano notare una derivazione pagana e il tentativo di una celebrazione invernale che andava a contraddire lo stesso racconto evangelico della nascita. Queste ritengo siano state le maggiori ragioni che hanno portato a non festeggiare il Natale.


  1. Che cosa è cambiato oggi?

 

Giacomo Carlo Di Gaetano

Oggi, personalmente, a Natale, organizzo un momento di riflessione biblica in famiglia; cerco di farlo in particolare durante la cena della vigilia (lascito cattolico questo?); adotto anch’io alcuni simboli (l’albero; le luci, ma non il presepe, quello proprio non riesco ad elaborarlo).

Resta una continuità con il passato: l’atmosfera di festa e di sospensione con la novità che in questo clima oggi tento di riapporpriarmi del linguaggio del Natale. Tutto ciò che c’è di collegamento con la tradizione cattolica (saranno solo parole? ma sono sufficienti) viene riappropriato nell’intento di riportarlo alle dimensioni della Parola.

Anche la serata speciale che organizziamo ormai da molti anni come chiesa locale, “Il più grande dono” nel tentativo di comunicare il vangelo è in realtà un’occasione di riappropriazione della narrazione biblica del Natale.

Per riassumere il cambiamento che si è verificato mi sovviene il ricordo di una zia: lei mi chiese una volta come mai mio padre (convertitosi dal cattolicesimo all’età di 25 anni, in un paesino del sud) non celebrava il Natale, e il suo riferimento crucciato era al fatto che mio padre non accettava i dolci e le prelibatezze che lei preparava proprio per Natale, mentre io non avevo problemi a prendere quei dolci (che naturalmente erano buonissimi) e a non farmi problemi di alcun genere.
Le chiesi se per lei i dolci come altri elementi della tradizione popolare natalizia del mio paesino avessero ancora per lei lo stesso significato rispetto a quarant’anni prima quando lei e mio padre si confrontarono sui contenuti della fede e si allontanarono da un punto di vista religioso. Lei mi disse che no, tutte quelle tradizioni non avevano più l’aura sacrale degli anni ’50, non appartenevano più all’atmosfera che De Martino descriveva in Sud e magia.
Allora io gli risposi: questo è il motivo per cui io non ho problemi oggi a celebrare il Natale; è giunto il tempo in cui sia io sia tu abbiamo bisogno di riscoprire il Natale.

 

Francesco

Negli ultimi decenni è cambiata la composizione delle chiese evangeliche in Italia, perché gli ex-cattolici praticanti sono una minoranza; è cambiata la cultura italiana, perché il significato religioso del Natale è importante per molte meno persone; è cambiato il cattolicesimo, perché l’ostilità nei confronti degli evangelici è praticamente scomparsa. Di conseguenza è cambiato il modo che gli evangelici hanno di confrontarsi con il cattolicesimo, e sempre più chiese evangeliche celebrano apertamente il Natale.

Un esempio, che illustra come questo sia un discorso che non riguarda solo il Natale, mi viene dalla mia chiesa locale, dove si discute spesso sull’opportunità di partecipare o meno a cerimonie religiose nelle chiese cattoliche. Se in passato alcuni membri della chiesa si erano inimicati l’intera famiglia non partecipando a battesimi, comunioni, matrimoni e funerali, oggi sono in pochi quelli che sentono il bisogno di distanziarsi in modo così netto da riti che si ritengono comunque teologicamente errati. Questo perché l’aspetto teologico è quasi del tutto irrilevante per chi si sottopone al rito e perché si ritiene possibile testimoniare della propria fede partecipando al rito ed esprimendo le proprie convinzioni con un approccio meno conflittuale.

Mi sembra giusto sottolineare che, al netto degli errori che sicuramente la Chiesa italiana ha commesso nella sua storia, resta costante il desiderio di testimoniare di Cristo “in tempo e fuori di tempo”.

 

Valerio

Se guardo al mondo dei social e ad alcuni dei filmati o delle affermazioni che sono state fatte nell’articolo di Christianity Today direi nulla. Se, invece, analizzo la realtà devo concordare che, oggi, le chiese evangeliche sono sempre meno anticattoliche ed vi è sicuramente una tendenza a valorizzare anche il momento della festività come uno stare insieme e come una festa di comunione fraterna. Ritengo che ancora oggi il mondo evangelico sia ampiamente diviso sulla questione e che vi siano posizioni (molto poco meditate ed adeguate sulla situazione attuale) che somigliano ad un mondo fermo agli anni post-bellici in cui ancora gli evangelici non avevano adeguati spazi di libertà e si sentivano perseguitati e circondati.

Ritengo invece che le festività natalizie possano essere un’occasione. Negli ultimi decenni, pur se non in maniera ufficiale, ho introdotto proprio in questo periodo la possibilità di riflettere sulle narrazioni profetiche e dei Vangeli sulla nascita e sull’importanza di riflettere sul profondo significato dell’Incarnazione.

A mio parere, poi, sarebbe doveroso anche guardare alla tradizione evangelica e riflettere come per personaggi come Lutero e molti dei Riformatori il Natale rimanesse una festa importante, un momento in cui ricordare la nascita di Cristo che permette la salvezza del mondo. Un ritorno ad un autentico pensiero che si rifaccia al Vangelo ed ai Padri della Riforma, che comprenda che il mondo cattolico non è stato il solo a celebrare il Natale, dovrebbe essere un punto di partenza per una riappropriazione del Natale come festa religiosa che non passi semplicemente come uno dei momenti più consumistici dell’anno dove ci riempie la bocca di buone intenzioni, in maniera anche un po’ ipocrita.

L’articolo Natale sì, Natale no! La storia infinita proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/natale-si-natale-no-la-storia-infinita/

Tempo di lettura: 7 minuti

di Massimo Rubboli

(Questo articolo è tratto dalla nuova pubblicazione dell’autore: I cristiani, la violenza e le armi. Percorsi storici e revisioni storiografiche, Edizioni GBU, 2024)

Nell’Impero romano, l’esercito svolgeva diversi incarichi: dopo la conquista di un territorio, aveva il còmpito di consolidarne il controllo prevenendo o reprimendo ogni forma di protesta e di resistenza, poi vi esercitava le funzioni di polizia, cooperava nei processi giudiziari, eseguiva le sentenze, proteggeva la raccolta delle tasse o le riscuoteva direttamente e si occupava anche della costruzione di strade e ponti.

Le varie funzioni svolte dall’esercito sono presenti nel Nuovo Testamento: Pilato consegna Gesù ai soldati che lo percuotono e lo scherniscono (Mc. 15:15-20; Mt. 27:26-31; Lc. 23:33,36; Gv. 19:1-3); una squadra formata da un centurione e quattro soldati lo crocifigge insieme a due malfattori, che erano stati arrestati in una precedente operazione di polizia (Mc. 15:24-39; Mt. 27:35-38; Lc. 19:18,23-24); il sepolcro di Gesù era sorvegliato da guardie (Mt. 27:64-66); a Cesarea, Pietro viene arrestato dai soldati di Erode Agrippa e “affidato alla custodia di quattro picchetti di quattro soldati ciascuno” (Atti 12:4); a Gerusalemme, Paolo è salvato dal tribuno militare Claudio Lisia, accompagnato da soldati e centurioni della cohors equitata7 (Atti 21:31-36; 22:23-29;23:10), che lo invia di notte al procuratore romano Marco Antonio Felice, scortato fino ad Antipatrida da due centurioni, “duecento soldati, settanta cavalieri e duecento lancieri”, e poi a Cesarea, con la scorta dei soli cavalieri (Atti 23:23-24, 31- 32); il tribuno Claudio Lisia scrive un rapporto ufficiale (Atti23:25-30).

È opportuno tenere presente che un motivo ricorrente che emerge chiaramente nel dittico Luca-Atti è “il desiderio di di mostrare che la professione di fede in Cristo è perfettamente compatibile con la lealtà del cittadino romano verso l’Impero”. Per questa ragione, “i rappresentanti del potere romano”, specialmente militari (anche i governatori di provincia erano necessariamente militari), “vengono tutti ritratti in luce favorevole”, ad eccezione del procuratore Felice (Atti 24:22-27).

Mentre i soldati sono di solito presentati negativamente, soprattutto nei vangeli di Matteo e Giovanni (Mt. 27: 27-31, 28:12; Gv. 19:23-24, 29, 32-34), i centurioni sono figure più positive9: Gesù afferma di non aver trovato in Israele una fede più grande di quella del centurione di Capernaum (Mt. 8:5-13; Lc. 7:1-10); alla morte di Gesù, il centurione10 riconosce che “Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc. 15:39); di Cornelio, centurione della coorte “Italica” di stanza a Cesarea, si dice che “era pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia, faceva molte elemosine al popolo e pregava Dio assiduamente” (Atti 10:2) e nella sua casa, per la prima volta, Pietro fa battezzare degli stranieri “nel nome di Gesù Cristo” (Atti 10:48); durante il trasferimento di Paolo da Cesarea a Roma, il centurione Giulio della coorte Augusta lo salva dai soldati che vogliono ucciderlo (Atti 27:42-44).

Per quanto riguarda il centurione di Capernaum, si è discusso se sia una persona storica o una figura letteraria. Nella prima ipotesi, non potrebbe essere un militare romano perché ai tempi di Gesù l’esercito romano non era presente in Galilea, dove erano stanziate le forze armate del tetrarca Erode Antipa. Dato che sia Matteo sia Luca indicano soltanto che si tratta di un gentile, è probabile che sia un funzionario erodiano, come appare anche dalla versione giovannea (Gv. 4:46-53)11. La questione è comunque di scarsa rilevanza ai fini dell’accertamento della posizione di Gesù nei confronti delle armi e del servizio militare; ciò che conta è il fatto che la professione del centurione non sembra rappresentare un problema e che Gesù non gli chiede di abbandonarla.

Anche Giovanni Battista, quando i soldati gli chiedono cosa devono fare in risposta al suo messaggio, aveva risposto “Non fate estorsioni, non opprimete nessuno con false denunce e contentatevi della vostra paga”, ma non li aveva invitati a lasciare il servizio militare (Lc. 3:14). Questi e altri episodi presenti nel Nuovo Testamento sono stati spesso usati – da Agostino a Tommaso, da Lutero ad oggi – per giustificare la partecipazione dei cristiani al servizio militare. Inoltre, è stato osservato che Gesù non solo non denunciò l’uso delle armi, ma non sarebbe stato neppure totalmente contrario alla violenza, poiché in un’occasione invitò i discepoli a vendere il mantello per comprare una spada. Quali erano le circostanze di questo episodio? Prima di ritirarsi a pregare nel giardino del Getsemani, Gesù ricorda ai discepoli di averli inviati “senza borsa, senza sacca da viaggio e senza calzari” e chiede: “Vi è forse mancato qualcosa?”

Essi risposero: “Niente”. Ed egli disse loro: “Ma ora, chi ha una borsa, la prenda; così pure una sacca; e chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico che in me dev’essere adempiuto ciò che è scritto: Egli è stato contato tra i malfattori [Is. 53:12]. Infatti, le cose che si riferiscono a me stanno per compiersi”. Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due spade!”. Ma egli disse loro: “Basta!” (Lc. 22: 35-38)

Dunque, Gesù voleva che i suoi discepoli usassero la spada? Eppure, quando Pietro usò la spada contro coloro che lo stavano arrestando e tagliò l’orecchio del servo del sommo sacerdote, Gesù intervenne per sanare l’orecchio e ordinò a un discepolo, identificato con Pietro in uno dei racconti (Gv. 18:26), di riporre la spada: “Riponi la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada. Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli?” (Gv. 18:10-11; cfr. Mt. 26:52-53; Mr. 14:43-52; Lu. 22:47-53). E poi, di fronte a Pilato, Gesù indicò come prova che il suo regno non era di questo mondo il fatto che i suoi discepoli non combattevano (Gv. 18:36). Allora come interpretare l’invito a comprare una spada? Gesù stesso fornisce la chiave di lettura con la citazione del passo di Isaia: la spada deve servire a compiere la profezia di Isaia, cioè a far apparire Gesù e i discepoli come un gruppo di “malfattori”.

Inoltre, questa scena segna una rottura con il giudaismo, perché Gesù rifiuta di richiedere l’intervento di quelle armate celesti la cui apparizione indica, nella letteratura maccabaica sulla persecuzione e resistenza, che la guerra è giusta ed è condotta da Dio.

Sulla mancanza nel Nuovo Testamento di una condanna del servizio militare, va notato che un argumentum ex silentio non costituisce una prova a favore. Infatti, se Gesù non condanna esplicitamente “i pubblicani e i peccatori” non significa, come insinuano le autorità religiose, che approvi la loro condotta (Lc. 7:34; 15:1). Se Giacomo usa come esempio positivo la prostituta Raab, non significa che elogi la sua professione (Gc. 2:25).

Invece, nel Nuovo Testamento è chiaramente indicato che la violenza non è compatibile con la sequela di Cristo, l’Agnello di Dio (Gv. 1:29, 36). Gesù stesso libera il campo dall’immagine di un Messia politico, che avrebbe guidato il popolo lottando contro l’usurpatore romano, entrando a Gerusalemme sul dorso di un asino (Mt. 21:1-11; Mr. 11:1-11; Lc. 19:28-44; Gv. 12:12-19). Lo aveva predetto il profeta Zaccaria:

“Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme; ecco, il tuo re viene a te;
egli è giusto e vittorioso, umile, in groppa a un asino, sopra un puledro, il piccolo dell’asina.
Io farò sparire i carri da Efraim, i cavalli da Gerusalemme e gli archi di guerra saranno distrutti.
Egli parlerà di pace alle nazioni, il suo dominio si estenderà da un mare all’altro, e dal fiume sino alle estremità della terra.” (Zc. 9:9-10)

L’insegnamento degli autori del Nuovo Testamento sembra inequivocabile: i discepoli di Gesù non sono chiamati a migliorare il comportamento delle persone o dei governi del mondo. Paolo sostiene che, mentre la comunità dei credenti deve esercitare un controllo sulla condotta morale dei suoi membri, non deve “giudicare quelli di fuori” (I Co. 5:12), che sono già stati giudicati da Dio, e afferma che il solo messaggio che la chiesa deve proclamare è quello della riconciliazione con Dio per mezzo di Cristo: “Dio ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Infatti, Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe e ha messo in noi la parola della riconciliazione. Noi, dunque, facciamo da ambasciatori per Cristo” (II Co. 5:18-19).

Essere ambasciatori della riconciliazione con Dio in Cristo comporta amare il prossimo, perfino i nemici, e costituire una comunità di credenti che sovverta le pratiche del mondo in base all’agape; quindi, esclude l’uso della violenza. Gesù indica questo amore come tratto distintivo dei figli di Dio (Mt. 5:44-45; Lc. 6:35), non come principio etico universale. Pertanto, ritornando alla questione dell’assenza nel Nuovo Testamento di una critica dell’esercizio delle armi, si può concludere che ai soldati non viene richiesto di cambiare occupazione perché non fanno parte dei discepoli di Gesù. Dio incontra le persone nella condizione in cui si trovano e soltanto dopo la loro sottomissione alla signoria di Cristo costoro devono affrontare il problema della compatibilità del loro modo di vivere con l’appartenenza alla comunità dei discepoli. Un dilemma che, come vedremo, ha percorso il cristianesimo lungo tutta la sua storia, ponendo i cristiani – nel caso del servizio militare – di fronte alla scelta dell’obiezione di coscienza.

L’incompatibilità tra impegno militare e coinvolgimento con Cristo emerse progressivamente, non da considerazioni etiche sulla guerra ma piuttosto dalla difficoltà di servire due padroni e di vivere in due contesti diversi, quello dell’Impero e quello del Regno di Dio13. La reticenza al servizio militare ha la sua motivazione nel principio evangelico della necessaria separazione tra il piano politico e la prospettiva escatologica nella quale si situano i cristiani. È in questa prospettiva che le lettere pastorali propongono il modello del “soldato di Cristo” che combatte il “combattimento cristiano” (I Tm. 6:12; II Tm. 4:7), utilizzando metaforicamente il lessico della guerra14 e soprattutto la panoplia del soldato: il cristiano rivedella speranza (I Tess. 5:8; cfr. Ef. 6:10, 14-17). Queste sono le “armi della luce”, necessarie per lottare contro le “opere delle tenebre” (Ro. 13:12), e l’“armatura di Dio” per affrontare le “insidie del diavolo”:

Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento, infatti, non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti. Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere. State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; oltre a tutto ciò, prendete lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio. (Ef. 6:11-17)

Molto probabilmente, l’adozione di questo linguaggio di uso comune da parte di Paolo e poi nella letteratura cristiana antica favorì l’accettazione da parte delle comunità cristiane di una realtà in contrasto con l’insegnamento evangelico.

 

 

L’articolo Guerra e servizio militare nel Nuovo Testamento proviene da DiRS GBU.

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Il gruppo staff è numeroso, coeso, capace, con una chiara visione, con valori e una strategia comune.
Tempo di lettura: 3 minuti

Il 2025 sarà un anno di cambiamento per il GBU perché termino il mio impegno come Segretario Generale dopo 15 anni. In realtà gli anni effettivi sono 20 perché c’è stato un periodo di transizione di 5 anni, prima di entrare ufficialmente nel ruolo di SG. Non sarà una transizione facile per me, ma nemmeno per il GBU. La mia preghiera è che saremo capaci di farlo bene.

Il primo motivo per cui lascio è perché mi è stato chiesto di assumere il ruolo di direttore nell’ambito di un programma di IFES, la fellowship internazionale di cui facciamo parte, e i due ruoli non sono compatibili. Il secondo è perché penso che il GBU sia capace di accogliere il cambiamento e la sfida che questo comporta perché il gruppo staff è numeroso, coeso, capace, con una chiara visione, con valori e una strategia comune.

Non ho dubbi che chi continuerà a guidare il movimento e l’organizzazione GBU troverà una base solida su cui continuare a costruire, perché proprio di questo si tratta: continuare a costruire insieme un movimento e un’organizzazione capace di aiutare ogni nuova generazione di studenti a “Condividere Gesù da studente a studente” e a farlo ancora meglio di quella precedente, secondo le parole di Paolo a Timoteo

Ti scongiuro, davanti a Dio e a Cristo Gesù che deve giudicare i vivi e i morti, per la sua apparizione e il suo regno: predica la parola, insisti in ogni occasione favorevole e sfavorevole, convinci, rimprovera, esorta con ogni tipo di insegnamento e pazienza. 2 Timoteo 4:1-2

In accordo con il comitato direttivo rimarrò in carica fino a quando non avrà deciso chi mi sostituirà e non avrò avuto modo di fare il passaggio di consegne.

Quindi vi chiedo di pregare per i prossimi mesi; per coloro che si sentiranno chiamati a proporsi come candidati per questo ruolo, per il comitato direttivo che dovrà prendere delle decisioni importanti, per tutto lo staff GBU che dovrà adattarsi alle novità, ma più di tutto per il ministero di cui siamo portatori: che niente e nulla debba ostacolare la testimonianza nelle università italiane.

Vi lascio quindi nelle buone mani del nostro presidente che vi spiegherà il resto.

Il vostro segretario generale uscente,

Johan

di Johan Soderkvist, Segretario Generale GBU


Cari Studenti, Staff, Soci, Sostenitori e Amici

Vi scriviamo per informarvi che è stata avviata la ricerca per la posizione di Segretario Generale della nostra Associazione. Chiediamo quindi a chi intenda candidarsi di inviarci le sue intenzioni via mail entro il 31 dicembre del c.a. a cd@gbu.it.

Prima di tutto, vogliamo esprimere la nostra profonda gratitudine a Johan per l’enorme lavoro svolto fino ad oggi. Si è aperta nella sua vita un’opportunità umana e professionale in un ruolo di responsabilità all’interno di IFES; quindi, anche l’Associazione nazionale GBU entrerà inevitabilmente in una nuova fase. Potremo ancora contare sul suo supporto ed esperienza, così come Johan potrà sempre contare sul nostro. La sua dedizione e il suo impegno hanno lasciato negli ultimi tre decenni un segno profondo nel nostro movimento, e siamo immensamente riconoscenti per il servizio che ha svolto con umiltà e determinazione, gestendo una struttura e rete di staff e collaboratori che si è consolidata ed ampliata nel corso degli ultimi anni.

Il GBU è una realtà significativa nel panorama evangelico italiano, con oltre 70 anni di storia alle spalle. È un movimento costituito da laici volontari e missionari, impegnato nel compito di servire e rafforzare la Chiesa italiana attraverso la testimonianza cristiana negli Atenei. La nostra missione continua ad essere quella di sostenere gli studenti universitari nel loro percorso di fede e testimonianza e di promuovere un dialogo aperto e costruttivo all’interno delle articolate realtà accademiche. Qui i piani che si intrecciano sono almeno due: quello della fede e quello della cultura, in un confronto con le istanze sociali emergenti in questo primo scorcio di XXI secolo.

Per questo motivo, stiamo cercando una persona qualificata e appassionata che possa assumere il ruolo di Segretario Generale e possa guidare il GBU nel prossimo capitolo della sua storia, portando avanti la visione del movimento nel rispetto della strategia (https://gbu.it/informati/la-missione-la-visione-e-i-valori/).
Se conoscete qualcuno che risponda al profilo di seguito indicato o se vi identificate in esso, vi invitiamo a candidarvi o segnalarcelo scrivendo al seguente indirizzo e-mail: cd@gbu.it; organizzeremo colloqui individuali con i candidati che meglio risponderanno ai requisiti del profilo, che trovate allegata alla pagina del sito in cui presentiamo le nostre richieste di collaborazioni.

Confidiamo di poter nominare il nuovo Segretario Generale appena avremo individuato il candidato che meglio risponda al profilo richiesto. Sino ad allora vi chiediamo di unirvi a noi in preghiera affinché il Signore ci guidi in saggezza, nella fase di selezione della persona che dovrà gestire un team di quasi 30 staff e collaboratori, portando esperienza ed energie nuove.
Ringraziamo tutti voi per il continuo sostegno e per essere parte di questa missione insieme a noi.

Con gratitudine e speranza, a nome del Comitato,
Davide Maglie
Presidente GBU Italia,
28 novembre 2024

Tempo di lettura: 6 minuti

di Alister E. McGrath

Il termine “Umanesimo” è facilmente soggetto a fraintendimenti. Nel ventunesimo secolo questa parola è spesso utilizzata per indicare una sorta di “ateismo” o di “secolarismo” e per definire una concezione del mondo che esclude (o almeno evita di farvi riferimento) la fede nel soprannaturale. In età rinascimentale il termine presentava delle connotazioni decisamente diverse. Il Rinascimento fu un importante periodo di rigenerazione culturale che ebbe inizio in Italia nel quattordicesimo secolo e gradualmente si diffuse in gran parte d’Europa, raggiungendo l’apice della sua influenza nei primi anni del XVI secolo. La sua tesi centrale era che la cultura del tempo poteva essere rinnovata grazie a un confronto creativo con l’eredità culturale del passato, soprattutto con l’eredità dell’antica Grecia e di Roma.

L’Umanesimo può essere visto come la filosofia che sta dietro il Rinascimento. La cosa migliore è intenderlo come il perseguimento di un’eloquenza e di un’eccellenza culturale che affonda le sue radici nella convinzione che i modelli più alti si trovino nelle civiltà classiche di Roma e di Atene. Il suo metodo di fondo può essere sintetizzato nello slogan latino ad fontes, parafrasabile con «ritorno alle fonti»! Un fiume è nel suo stato di maggior purezza alla sua fonte. L’Umanesimo promuoveva il superamento del «Medioevo» (espressione che, non per nulla, è una creazione umanistica, volta a minimizzare questo disprezzato intermezzo storico fra le glorie del
mondo antico e il loro rinnovamento nel Rinascimento) così da poter consentire al presente di essere rinnovato e rinvigorito, attingendo in profondità alla sorgente dell’antichità. Gli effetti di questo programma sono osservabili su una sorprendente molteplicità di piani. Gli stili architettonici classici vennero a essere preferiti all’imperversante gotico. L’elegante stile di Cicerone rimpiazzò la forma piuttosto ridondante e imbarbarita di latino utilizzata dagli scrittori scolastici. Nelle università si metteva una grande passione nello studio del diritto romano e della filosofia greca. In tutti i casi si può vedere in azione lo stesso principio di base: ora che la cultura occidentale era diventata stanca, spenta e priva di direzione, la sua sorgente aveva la capacità di conferirle nuova vita e nuovo vigore.

La maggior parte degli umanisti dell’epoca, come il grande Erasmo da Rotterdam, erano cristiani interessati al rinnovamento e alla riforma della chiesa. Perché allora non applicare lo stesso metodo di rigenerazione al cristianesimo? Perché non tornare ad fontes, alle fonti originali della fede, e non consentire loro di conferire nuovo vigore a una chiesa che ormai si era bruciata e aveva perso credibilità? Era possibile riconquistare la vitalità e la semplicità dell’età apostolica? Nel quindicesimo e agli inizi del sedicesimo secolo questa era una visione potente, motivante, capace di catturare l’immaginazione di tanti laici.

Come fare, però? Qual era il corrispettivo religioso della cultura del mondo classico? Qual era la sorgente del cristianesimo? Gli umanisti cristiani avevano pochi dubbi: la Bibbia, soprattutto il Nuovo Testamento. Era questa la fonte ultima della fede. Gli scritti dei teologi medievali si potevano mettere da parte senza nessun problema, in modo da consentire un confronto diretto con le idee del Nuovo Testamento. Le interpretazioni ecclesiasticamente rassicuranti e familiari della Bibbia, riscontrabili nella teologia scolastica, dovevano essere accantonate in favore di una lettura diretta del testo. Per gli ecclesiastici conservatori si trattava di un passaggio pericoloso e minaccioso che aveva il potenziale di destabilizzare l’equilibrio teologico, frutto di delicati compromessi, raggiunti nel corso di tanti secoli. L’istanza umanistica di tornare alla Bibbia risultò un appello decisamente più radicale di quanto tanti alti prelati non fossero disposti a digerire.

Gli umanisti erano per lo più studiosi, uomini di lettere che sottolineavano che questo ritorno sistematico alla Bibbia dovesse realizzarsi sulla base del meglio che l’erudizione accademica potesse offrire. L’effettivo messaggio della Bibbia, che andava letta nelle sue lingue originali, doveva essere stabilito sulla base della più affidabile metodologia testuale. Immediatamente l’autorità della traduzione latina della Vulgata si trovò a essere minacciata. Quando gli studiosi umanistici si posero a esaminare nei particolari la storia del testo, incominciarono a emergere problemi. Domande difficili pressavano con forza crescente sulla sua integrità testuale e sulla sua attendibilità filologica. Quando la Vulgata fu spassionatamente comparata con i migliori manoscritti greci, si iniziarono a notare degli errori. Furono identificate delle varianti testuali. Nel 1516 Erasmo stesso licenziò un’edizione del testo greco del Nuovo Testamento che provocò una specie di ciclone. Pur contenendo molti errori, produsse un cambiamento epocale di mentalità, mettendo in dubbio in diversi punti il vigente testo biblico della Vulgata. Per mettere la cosa nei termini più crudi possibili: se Erasmo aveva ragione, c’era il caso che alcune enunciazioni, accettate come “bibliche” dalle precedenti generazioni, non facessero neppure parte del testo originale del Nuovo Testamento. Che implicazioni aveva questo, si chiesero allora in molti, per quelle dottrine della chiesa che
erano basate su tali enunciazioni?

Uno dei testi spesso utilizzati dai teologi medievali per difendere la dottrina della trinità è di particolare interesse: «Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza nel cielo: il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue; e questi tre sono d’accordo come uno» (1 Gv 5:7–8, ND).

Erasmo sottolineò che le parole «il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra» non si trovano in nessun manoscritto greco. Furono aggiunte successivamente alla Vulgata latina, probabilmente dopo l’800, pur non essendo note in nessuna antica versione greca. La spiegazione più verosimile è che queste parole siano state inizialmente aggiunte come “glossa” (un breve commento posto accanto o sotto il testo) e che un successivo scriba abbia presunto che facessero parte del testo stesso e ve le abbia quindi incluse nei successivi testi latini, senza sapere che non facevano parte del testo greco originale del Nuovo Testamento32. Se un tale brano doveva essere dichiarato «non biblico» questa, la più difficile delle dottrine cristiane, sarebbe potuta diventare pericolosamente vulnerabile.

L’esigenza di una lettura della Bibbia nelle sue lingue originali incontrò un ampio consenso in tutta l’Europa occidentale. Chi voleva promuovere gli ideali del Rinascimento aspirava a essere trium linguarum gnarus, vale a dire competente in greco, ebraico e latino. Tutto ciò portò alla fondazione di collegi per lo studio delle tre lingue o in alcuni casi di una cattedra per ciascuna delle lingue come avvenne, per esempio, nelle università di Alcalá in Spagna (1499), Wittenberg in Germania (1502), Oxford in Inghilterra (il Corpus Christi College, 1517), Lovanio nell’odierno Belgio (1517) e presso il Collège royal de France a Parigi (1530)33.

Non passò molto tempo perché la possibilità di seri errori di traduzione scoperti nella Vulgata minacciasse di imporre una revisione degli insegnamenti ecclesiastici in essere. Erasmo ne evidenziò alcuni nel 1516. Un ottimo esempio si trova nella traduzione della Vulgata delle parole con cui si apre il ministero di Gesù in Galilea (Mt 4:17): «Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino». Questa traduzione istituisce un collegamento diretto fra la venuta del regno di Dio e il sacramento della confessione. Erasmo evidenziò che il testo originale greco si doveva tradurre: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino». Laddove la Vulgata sembrava fare riferimento a una pratica esteriore (il sacramento della penitenza), Erasmo sottolineò che il riferimento era a un atteggiamento psicologico interiore, quello del “ravvedersi”.

Nella concezione umanistica della ricerca biblica, però, risultò esservi più dell’esigenza di migliori traduzioni. La nascita del «new learning» promosse, nel secondo decennio del XVI secolo, una visione alternativa dell’autorità interpretativa, di spettanza non più della chiesa ma della comunità scientifica. Il mondo accademico aveva già la chiave per la ricostruzione del testo biblico e della sua traduzione in volgare. Sarebbe stato solo un piccolo passo quello della rivendicazione del diritto di interpretare il testo utilizzando le nuove metodologie ermeneutiche del Rinascimento che si stavano allora sviluppando34.

«Senza Umanesimo non ci sarebbe stata nessuna Riforma». Questo slogan, ripetuto spesso, sottolinea il punto cruciale dell’imposizione di un programma più radicale di riforma della chiesa di quello che chiunque avrebbe potuto prevedere, grazie alla nascita dell’Umanesimo. È vero che erano in  tanti a essere convinti che vi fosse un urgente bisogno di eliminare gli abusi, semplificare le strutture e incrementare i livelli d’istruzione all’interno della chiesa; ora però altri iniziavano a suggerire che fosse necessaria una revisione di altro livello. Era possibile che almeno alcuni degli insegnamenti della chiesa poggiassero su basi bibliche non del tutto adeguate. Le persone erano bene avvezze a lamentarsi dei tanti difetti morali e spirituali della chiesa; questo però era qualche cosa di nuovo e minacciava di innescare dei dibattiti profondamente imbarazzanti e degli sviluppi che, nel cristianesimo occidentale,
sarebbero stati senza precedenti.

A un certo punto quest’appello alla riforma della chiesa si legò con la nuova idea di umanità che si stava affermando più o meno in questo periodo. La miscela che ne risultò fu esplosiva.

Alister E. McGrath, La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo, Edizioni GBU, 2017.

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source https://dirs.gbu.it/senza-umanesimo-niente-riforma/

Tempo di lettura: 8 minutidi Lucia Di Fonso
(Psicologa, Edizioni GBU)

Il 25 Novembre di quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dell’istituzione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in ricordo delle tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa), violentate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione. In molti paesi, come anche in Italia, il colore esibito in questa giornata è il rosso e gli oggetti simbolo sono rappresentati da panchine o da scarpe da donna rosse posizionate per  ricordare le vittime di violenza e femminicidio.

Qui offriamo una breve prospettiva biblica sul tema, facendo riferimento a un intero capitolo intitolato La vittimizzazione delle donne del libro dei coniugi Derek e Dianne Tidball, Bibbia e quote rosa, Edizioni Gbu, 2021. Gli autori (marito e moglie) consapevoli della complessità dei dati, delle sfide e delle controversie, cercano un approccio umile e integrato al tema guardando alle donne come appaiono nella trama biblica, in luoghi e ruoli chiave.

«La Bibbia non è nient’altro che realistica. Presenta il mondo così com’è, sia quando le relazioni umane sono bellissime sia quando sono caratterizzate da una spaventosa brutalità. Le sue storie recano frequentemente testimonianza a quanto tali relazioni si siano deteriorate dal tempo dell’iniziale disubbidienza di Adamo ed Eva; quanto sono caduti in basso, uomini e donne, rispetto ai propositi creazionali di Dio! Questo è vero più che mai nelle descrizioni dei numerosi e raccapriccianti episodi che coinvolgono le donne» (p. 91).

La vittimizzazione delle figure femminili bibliche, secondo gli autori deriva dal fatto che la stragrande maggioranza degli insegnanti e dei predicatori tradizionalmente erano uomini: «il risultato è che l’esecrabilità a carico degli uomini per quegli atti di crudeltà è minimizzata e se ne fa addirittura ricadere la colpa sulle donne o si sorvola sulle obbrobriosità del comportamento maschile (p. 92).

Nell’Antico Testamento varie e importanti donne sono “vittime”. C’è Agar, vittima dell’impazienza di Abramo e dell’insofferenza di Sara.

Poi c’è Dina (il cui nome significa “giudicata” e la cui storia è narrata in Genesi 34). La teologa battista Lidia Maggi, in un articolo pubblicato sul sito Note di Pastorale Giovanile, così riassume la sua vicenda: «Dina, figlia di Giacobbe e Lea esce di casa per incontrarsi con le altre ragazze del villaggio. Il momento di svago si trasforma in un incubo che le cambierà per sempre la vita. Viene vista, rapita e violentata da Sichem, il figlio del capo del paese. Costui, dopo aver abusato di lei, se ne innamora perdutamente, chiede al padre di poterla sposare; “la sua anima si legò a Dina, figlia di Giacobbe; egli amò la fanciulla e parlò al cuore della ragazza” (Genesi 34:3). Il gesto di Sichem provocò una reazione devastante in un crescendo di orrore e violenza su tutti i maschi del popolo di Sichem da parte dei fratelli di Dina che vogliono vendicarne l’onore (o meglio, il loro stesso onore). Dina verrà riportata a casa, senza che le venga attribuita, nel testo, nessun sentimento e nessuna parola.  Dina esce di scena, precipitando nell’oblio, una sorte di merce di scambio tra mondi maschili, pedina dei loro rapporti di forza»[1].

Anche Tamar (Genesi 38) è vittima dell’indifferenza della sua famiglia e poi quasi vittima della giustizia dell’uomo, finché non ne mette allo scoperto l’ipocrisia. Più tardi, c’è un’altra Tamar figlia del re Davide (2 Sam 13) che fu rapita e abusata incestuosamente dal fratellastro e principe reale Amnon e vendicata due anni dopo da suo fratello Absalom (Bibbia e quote rosa, p. 93).

Diversi capitoli del libro dei Giudici (Gdc 11:29-40) sono dedicati alle figure femminili che denunciano la violenza della società patriarcale: alcune sono donne vittime (la figlia di Iefte o la concubina del levita) altre sono  donne eroine (la profetessa Debora; Giaele).

Nella storia della  giovane donna sacrificata dal padre (Gdc 11), Iefte fece un voto a Dio per vincere una battaglia contro gli Ammoniti, promettendo di offrirgli ciò che sarebbe uscito da casa sua al ritorno. Gli si fece incontro la sua unica figlia che lo accolse festante. Questa prese atto dello sconforto del padre ma lo esortò a compiere comunque il suo voto, chiedendogli due mesi di tempo per poter “piangere la sua verginità”. Allo scadere dei due mesi, il voto fu compiuto. Si trattava in effetti di un voto idolatrico in quanto il sacrificio umano non solo era vietato dalla Legge di Mosè (Lv 18, 21; 20, 2-5), ma era tipico del culto cananeo, come quello del dio ammonita Moloc. Il paradosso, quindi, è che Iefte convinto di fare un atto religioso per il Dio d’Israele, in realtà finisce per fare un sacrificio al dio del popolo nemico. Più tardi un altro capo (il re Saul) non esitò a rompere il giuramento pur di salvare suo figlio Gionatan, in una situazione simile (1 Sam 14).

La storia più sconvolgente di tutte, però, riportata in Giudici 19, è quella della moglie del Levita, un’anonima vittima della lussuria di un levita, della violenza di gruppo da parte di un’intera città e della fredda indifferenza del suo padrone.

Il protagonista di questa storia è un Levita della tribù omonima, addetta a importanti funzioni nel tempio. Abitava ad Efraim ma sposò una ragazza di Betlemme. La donna “concubina”, non ha un nome, appare passiva. Lei gli fu infedele, la traduzione non rende, il termine ebraico chiave può significare che fu “arrabbiata”, piuttosto che “infedele” verso di lui. Potrebbe darsi benissimo che sia stato lui, con il suo comportamento, ad averla indotta a tornare dal padre e abbia fatto quello che tutti gli altri facevano come viene descritto in tutto il libro dei Giudici, vale a dire, quello che le pareva meglio. Quattro mesi dopo, il levita si mise alla sua ricerca. L’uomo sembra interessato a riaverla con sé; decide, pertanto, di partire con l’intenzione di “parlare al suo cuore”. Perché si mise alla sua ricerca? Era perché l’amava o cercava una fredda giustizia, spinto dal desiderio di riprendersi quello che «gli apparteneva»? Se era in cerca di una vera riconciliazione, perché nel suo successivo comportamento la ignora tanto spesso? Quali che siano le sue motivazioni, il levita è ben accolto dal padre della concubina e sembra legare subito con lui. Per qualche giorno il levita si gode l’ospitalità dei genitori di lei. Della concubina non si dice nulla. I riflettori sono puntati sugli uomini, che rimangono il soggetto, gli attori principali; lei è una semplice comparsa. Pochi giorni dopo, questo clima conviviale comincia a deteriorarsi; il levita ha fretta di partire e di tornare a casa sua con la concubina.  Essendo ormai tardi, bisogna fermarsi per la notte.

Lidia Maggi nota: «Non è bene, tuttavia, fermarsi in un villaggio straniero, come suggerisce il servo. Conviene arrivare fino a Gàbaa, città di Beniamino, una delle tribù di Israele. La donna non viene consultata. Continua ad essere passiva. Nessuno sembra più interessato a parlare al suo cuore e neppure alle sue orecchie. Ironia della sorte, la terra che doveva proteggerli – terra promessa, dove avrebbero dovuto scorrere il latte ed il miele di relazioni libere – diventa terra pericolosa, ostile, straniera. Il levita con il servo e la concubina vengono sì ospitati in casa di un anziano; ma, mentre si godono l’ospitalità, ecco che dei pervertiti circondano la casa»[2].

Gli uomini all’esterno della casa vogliono abusare del levita. Il vecchio che li ospita interviene, facendo appello al sacro vincolo dell’ospitalità e propone di offrire in cambio due donne: la sua giovane figlia e la concubina del levita. Abusare di un uomo era inaccettabile. Lo stupro omosessuale sarebbe stata una palese violazione delle regole dell’ospitalità, che erano pesantemente sbilanciate in favore degli uomini. Violentare una o due donne, invece, non sembrava avere le stesse implicazioni o caricarsi dello stesso peso. L’aspetto più sconcertante di quest’episodio della storia è la facilità con cui gli uomini sono pronti a consegnare le donne perché diventino dei giocattoli nelle mani del branco. Viene loro detto: «Fatene quel che vi piacerà» (Tidball, p. 99).

A questo punto «il levita, lesto, spinge fuori la concubina che viene afferrata e violentata per tutta la notte. All’alba, quando i pervertiti si dileguano, la donna si trascina sulla soglia della casa e, con la mano tesa verso la porta, crolla a terra esausta. Passerà qualche ora prima che qualcuno si preoccupi di soccorrerla. Il levita, al risveglio, quando il sole è già alto, la trova sulla soglia. Come se niente fosse, le ordina di alzarsi: sono le prime parole che gli sentiamo rivolgere. Strano modo di parlare al suo cuore! La donna non risponde, non può rispondere.  Il levita non la soccorre: la carica di peso sull’asino e riprende il viaggio verso casa»[3].

L’abuso, lo stupro e la violenza erano degenerati nell’omicidio. Così il levita raccoglie il suo corpo malridotto come se fosse un «sacco di patate» o un tappetino in vendita in un mercato, la caricò sull’asino e partì per tornare a casa sua. Nulla, nella storia, ci offre alcuna indicazione dei suoi sentimenti. Non la piange. Il silenzio sembra calcolato per presentarlo come un uomo indifferente, freddo e spietato.  Si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise… (Tidball, p. 100).

Se non è stato lo stupro collettivo ad ucciderla, e neppure quell’assurdo viaggio di ritorno, ci penserà il coltello del levita che, in nome della giustizia, taglia il corpo della donna in dodici pezzi da mandare alle dodici tribù di Israele: “guardate che cosa mi hanno fatto!”[4].

I Tidball, commentano (op. cit., p. 101): Con un atto «inutilmente brutale», non mostra verso di lei nessun rispetto, non tratta il suo corpo con alcuna tenerezza d’affetti e la fa crudelmente a pezzi, proprio come se fosse la carcassa di un animale.

Ci si può immaginare il levita che giustifica il suo comportamento. L’ha fatto come segno d’avvertimento a Israele. È stato per impartire loro una lezione. La macabra natura del suo pacchetto doveva indurre tutti a fare un balzo sulla seggiola e a considerare quanto si fosse caduti in basso. Serviva una terapia d’urto.

Di primo acchito, l’azione del levita sembra avere sortito l’effetto sperato. Quella di tutti è una reazione d’orrore. «Una cosa simile non è mai accaduta né si è mai vista, da quando i figli d’Israele salirono dal paese d’Egitto fino al giorno d’oggi! Prendete a cuore questo fatto, consultatevi e parlate!» Inoltre, a un esame più ravvicinato, la reazione generale è più ambigua di quanto non possa sembrare. «Qualche cosa deve essere fatto», gridano. Che cosa, però? A ben pensare, la speranza è che vogliano dire che devono pentirsi del loro stato di anarchia e riformare le loro vite in vista della creazione di una società più giusta e meno violenta. Quello che segue, però, suggerisce che abbiano in mente altri tipi di risposta. Quello che hanno in mente è la guerra civile! L’azione del Levita serve soltanto a dare libero corso ad altra violenza, non ad arginarla, dato che tutto Israele si raduna a Mispa per un consiglio di guerra e stabilisce unanime di trattare la tribù di Beniamino «secondo tutta l’infamia che ha commessa in Israele». Il risultato è che 25.000 soldati beniaminiti muoiono in battaglia e le loro città sono date alle fiamme.

In conclusione, come sostengono i Tidball, il modo con cui sono trattate le donne, nel libro dei Giudici e non solo, fa da termometro per misurare la temperatura morale e spirituale del popolo d’Israele. Le tremende esperienze di alcune donne sono in genere riportate come dati di fatto, senza interpretazioni e spesso anche in modo asettico. L’approccio espositivo prevalente nella Bibbia è quello di lasciare che la storia parli da sola. Le storie in cui le donne sono vittime vengono dunque raccontate senza interpretazioni, senza lezioni morali e di solito senza che siano attribuite delle colpe.

È  il lettore dunque a doversi fare un’idea su quello che è giusto e quello che è sbagliato, su ciò che è bene o su ciò che è male.
Per questo motivo potremmo farci delle domande per contestualizzare questi eventi.

1) Perché nelle Scritture sono riportate con dovizia di particolari episodi così cruenti?

2) Quali sentimenti e considerazioni suscitano in noi racconti di tale efferatezza?

3) Quali comportamenti, nel caso del Levita (forse il personaggio più sinistro dei racconti biblici evocati) suscitano maggiormente la nostra indignazione?

4) Quali sentimenti possiamo immaginare provò la concubina nei confronti di diversi uomini (il marito-padrone, il padre, l’ospite e gli stupratori) di cui fu vittima?

In queste storie oltre alla violenza fisica non vanno dimenticate altre forme di violenza. Resta un’ultima domanda: è possibile un processo di guarigione della vittima e/o del violento? E in che modo?

[1]  L. Maggi, Dina e la concubina del levita: due storie distopiche, https://www.notedipastoralegiovanile.it/questioni-bibliche/dina-e-la-concubina-del-levita-due-storie-distopiche (visionato il 20/11/24).

[2] Art. cit.

[3]  L. Maggi, art. cit.

[4] Ibid.

L’articolo La vittimizzazione delle donne proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/la-vittimizzazione-delle-donne-2/

Tempo di lettura: 13 minuti

a cura di Rebecca Ciociola e Giacomo Carlo Di Gaetano

L’espressione “vaso debole” si trova nella 1 Pietro (3:7), all’interno di uno dei tanti codici famigliari contenuti nel Nuovo Testamento. L’espressione dà il titolo alla risposta che quattro donne, tutte impegnate in un ministero cristiano o in una professione socialmente rilevante per il tema trattato, hanno fornito a tre domande che abbiamo rivolto loro come redazione del DiRS–GBU.

Federica Albano, si occupa per lavoro e per passione di educazione e temi sociali. Ha operato per diversi anni in un centro antiviolenza. Vive in Lombardia ed è membro di una chiesa evangelica di Milano.

Katia Lavermicocca, Psicologa psicoterapeuta, docente d’area psicologica e consulente per enti che hanno come destinatari minori e famiglie, è membro della chiesa di Cristo di Bari.

Rossana Zanetti Sciuto, Diaconessa della comunità della Chiesa Apostolica di Piacenza, laureata in Teologia, indirizzo Pastorale della famiglia. Impegnata nella Formazione Ministeriale della Chiesa Apostolica dove insegna Questione Femminile nella Chiesa nel corso dei secoli.

Anna Moretti, impegnata da anni in un ministero di formazione e consulenza per donne, membro dell’Assemblea dei Fratelli di Novoli a Firenze.

 

 

1) Nel 2024 il Viminale ha registrato più di 90 casi di femminicidio. 4 omicidi su 5 avvengono nell’ambito familiare ristretto o allargato. Cosa ti fanno pensare/quale realtà descrivono questi dati?

Federica:

Anche se sono passati tanti anni ed il tema è stato molto discusso, di fatto il problema non è regredito. Il dato mostra che la strada da fare è ancora lunga sia per lo Stato e la sua legislazione sia per i cittadini / e le cittadine, per il sentire comune e l’idea che si ha della violenza, rivittimazzando le vittime (p. es.: in fondo se l’è anche un po’ cercata).

Katia:

Il femminicidio rappresenta il gesto estremo di una violenza che ha alle spalle una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza nei confronti delle donne. Il dato registrato quindi mette in evidenza il punto di non ritorno di una complessità sociale, relazionale, etica che coinvolge le coppie e le famiglie in questi anni.

La famiglia è il luogo presente in maniera continuativa nella vita di molti uomini e donne. Luogo inteso come spazio psicologico in cui costruire la propria identità ed appartenenza. Laboratorio di esperienze vissute prima nella dimensione di figlio e successivamente nella dimensione di adulto, compagno o genitore. L’ambiente domestico o di relazione esclusiva di coppia può quindi diventare motore creativo in cui si impara il dialogo, l’ascolto, la gestione delle emozioni, delle proprie frustrazioni o per motivazione diverse, luogo di solitudine in connotazione negativa, quindi di difficoltà nell’andare verso l’altro.

Le forme che può prendere questa difficoltà in età adulta possono essere diverse; la violenza verso la propria compagna è una di queste. Lenore Walker (1979) descrive le tre fasi del ciclo della violenza. La prima fase è quella in cui si accende la tensione tra i partner e l’uomo violento manifesta un crescente nervosismo, un atteggiamento perennemente irritato, opaco e ambiguo che confonde la donna. Il distacco del partner è avvertito dalla donna come un potenziale segno di abbandono che la spinge ad evitare di contestare il proprio compagno od opporsi, assecondando ogni sua mossa ed ogni suo volere.
La seconda fase vede agire il maltrattamento sia fisicamente che verbalmente.
La terza fase, infine, è caratterizzata in genere da una finta riappacificazione. L’uomo violento si riavvicina alla donna giurando pentimento e pronunciando scuse e parole d’amore a profusione, venendo prontamente perdonato e riaccolto. Nei primi episodi di violenza, la fase della falsa riappacificazione dura generalmente più a lungo; al contrario, all’aumentare degli episodi violenti, la durata della riappacificazione si riduce. Questa fase costituisce una sorta di rinforzo positivo per la donna, che con l’alternarsi di ogni fase diventa sempre più dipendente da questo meccanismo e sempre più bisognosa di questo legame, seppur malato, mentre l’uomo violento acquista sempre più potere all’interno della relazione di coppia

Rossana:

Dal 1° gennaio al 17 novembre 2024, in Italia, sono stati commessi 98 femminicidi di cui 84 avvenuti in ambito familiare/affettivo; 54 di queste donne sono state uccise dal partner o ex partner (Fonte governativa). Questi dati sono allarmanti e sono il campanello d’allarme di un problema ancora più grande che è di difficile risoluzione. Sono il sintomo di una società malata, una società che ha perso la sua identità, una società fluida, dove i valori primari sono stati smarriti. Una società che non è in grado di offrire una parità ed un’uguaglianza di genere e che non riesce a garantire al cento per cento protezione ad una fascia più sensibile dei suoi componenti, una società che ha difficoltà a relazionarsi con i propri simili. In questa società la famiglia, che è il nucleo primario di una società civile, ha perso quel valore e quel ruolo fondamentale che aveva in passato.

Oggi, le famiglie sono deboli, non sono all’altezza del compito al quale sono chiamate. La società odierna impone ritmi e ruoli totalmente alterati e questo, secondo me, è il fattore scatenante di tanta violenza. Le donne hanno conquistato, a fatica, il diritto ad avere voce in capitolo e, contrariamente a 60/70 anni fa, quando i ruoli in casa erano ben definiti, oggi si ritrovano a dover spesso ricoprire anche il ruolo che dovrebbe essere dell’uomo. A causa dei ritmi serrati a cui si è spesso sottoposti la comunicazione è venuta meno, le relazioni si sono incrinate e spesso, diventano malate. La competizione fra i sessi è stata portata a limiti estremi e l’uomo non si riconosce più negli stereotipi che vengono proposti.

Ecco che scatta allora in lui il desiderio di reprimere la libertà delle donne, della propria donna che una volta era remissiva, forse anche troppo, e subiva in silenzio, e che oggi invece si ribella a condizioni di vita deprivanti.

La donna ha più consapevolezza dei suoi diritti ed è in grado di gestirsi da sola in ogni situazione. È indipendente sia socialmente che economicamente e questo, in una società che è ancora dichiaratamente patriarcale, è un elemento dirompente. Questo continuo confronto fra uomo e donna è il fattore scatenante di tanta violenza. L’uomo non riesce ad accettare che la propria donna sia in grado di prendere le decisioni da sola, che può scegliere di uscire con le amiche, che sia, in alcuni casi, economicamente più forte del proprio partner, che non abbia bisogno di un mentore che la guidi e la consigli in ogni cosa e che le gestisca la vita impartendo ordini. Tutto questo viene visto come una minaccia all’amor proprio, scatena un senso di impotenza e di inferiorità che va a minare tutte le sicurezze dell’uomo. Ecco che allora si scatena la voglia di riaffermare quella superiorità atavica che vede l’uomo maschio come essere dominante, come essere superiore dalla quale la donna deve dipendere in tutto e per tutto; scatta allora il possesso, la voglia di reprime ogni libertà faticosamente conquistata e, nel momento in cui l’uomo realizza che la donna non è disposta ad essere più succube di certe situazioni, dirompe la violenza, quella violenza cieca desidera annientare ed assoggettare a sé l’altro.

Anna:

Se hai mai fatto una lunga passeggiata in montagna, sai bene che cosa susciti vedere un rifugio: troverò cibo, una bevanda calda, avrò la possibilità di riposarmi, farò due chiacchiere per raccontare il mio pezzo di strada fino a lì.
Nel progetto di Dio, la casa, come quel rifugio, doveva essere il luogo privilegiato in cui ogni membro della famiglia trovasse nutrimento, protezione   e relazioni profonde e stabili. In quella casa doveva circolare l’amore.
Questo era il progetto, questa la destinazione d’uso.

Ma proprio perché la famiglia è un’idea di Dio, viene attaccata fin dalle sue fondamenta: il progetto viene riscritto e rimaneggiato, se ne propone un altro dove sono al centro io, dove comando io, dove ricevo dei servizi io, dove ti schiavizzo e se prendi il mio posto ti urlo dietro, ti strattono, ti picchio e se mi va e mi fa sentire meglio, ti tolgo di mezzo così quel posto a capotavola non lo prenderai mai più!
La famiglia: nel luogo per eccellenza in cui doveva circolare l’amore, non c’è più ossigeno, circola solo la paura, è lì che affermo il mio potere battendo il pugno, urlando parole cattive e offensive, facendo cose cattive e offensive.
Ti userò, non ti servirò, mi compiacerai in tutto, non ti ascolterò, ti sottometterò con violenze psicologiche dicendoti che tu non vali nulla, sei solo un’incapace.
Uomini che pensano di avere fra le mani oggetti e non persone, per cui come si butta via un piatto di carta usato, si butta via una donna, dopo averla usata.
Quante volte mogli e compagne amate “appassionatamente” sono finite a pezzi in sacchi della spazzatura? Quante volte sono state sfregiate perché non si riconoscessero più guardandosi allo specchio? Quante volte la violenza verbale le ha annichilite fino a ridurle allo stremo?

Il luogo dell’amore, la casa, trasformato nel luogo dell’orrore.

Il progetto di Dio cestinato. Quattro omicidi su cinque avvengono in famiglia, proprio perché nel progetto di Dio quello doveva essere il luogo più sicuro.
L’uomo riformula il progetto, si mette al posto di Dio, con conseguenze visibili sotto gli occhi di tutti: scarpe e panchine rosse di sangue.

 

2) L’ONU (Statistical framework for measuring the gender-related killing of women and girls, 2022) definisce i femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Le tipologie sono diverse: si va dall’omicidio ( e dalle violenze) compiute e perpetrate dal partner, ai casi in cui anche a opera di uno sconosciuto, violenze e omicidi sono legati alle differenze e alle motivazioni di genere.

A tuo giudizio quali potrebbero essere le cause principali per l’incremento di questo fenomeno?

Federica:

Le cause sono da ricercare nella radicalizzazione della cultura patriarcale intesa come totale supremazia dell’uomo sulla donna, la considerazione della donna quale oggetto da mostrare / usare (p. es. la pornografia, la pubblicità, etc.), il poco ascolto dedicato alle testimonianze delle donne vittime di violenza, la difficoltà ad immedesimarsi nel loro vissuto, la scarsa presa di responsabilità e di distanza degli uomini, tutti gli uomini, rispetto alla violenza quando si manifesta.

Katia:

Il fenomeno della violenza di genere copre un panorama più ampio, in cui i termini differenza, disparità, disuguaglianza giocano un peso importante. Dal punto di vista psicologico, le differenze individuali che sono state oggetto di studio dei maestri della psicologia come Eysenck, per la definizione delle diverse personalità, possono essere viste come una risorsa o come un pericolo. Il diverso da me, chi non corrisponde ai miei schemi, può essere percepito come stimolante o come minaccioso. Utilizzando schemi personali troppo rigidi non possiamo conoscere la persona come veramente è, creando una barriera che ci difende e ci protegge. Le distanze generano pregiudizi, cioè un giudizio anticipato che non riflette il reale. Le distanze generano anche stereotipi, cioè opinioni precostituite. Il senso di pericolo percepito o di rifiuto del diverso può portare a violenze.

Fenomeno in incremento per una complessità di ragioni di matrice diversa, ma metterei l’attenzione sul paradosso creato dal conoscere il mondo attraverso i social media. Un canale di “esperienza” del mondo e delle persone in cui si è o attori o spettatori, e che quindi non permette il reale scambio tra persone in-situazione, cioè nella contingenza dello scambio vissuto reciprocamente, che è alla base dell’educazione alle differenze.

Rossana:

La prima cosa che mi sento di rispondere è la paura. Paura del confronto, paura di non essere più all’altezza del proprio ruolo e del proprio compito, paura di non essere più l’essere umano dominante, paura di relazionarsi con un essere pari a sé. Mentre le donne hanno acquisito consapevolezza di sé, hanno lottato per ottenere uguali diritti, anche se la strada per la vera uguaglianza è ancora lunga e difficile da raggiungere, sotto il profilo economico soprattutto, l’uomo vede in tutto questo una minaccia alla propria persona. Ancora oggi si fa fatica ad accettare il diritto della donna a non essere considerata oggetto e quindi, proprietà di qualcuno. La donna sceglie di gestire la propria vita come meglio crede, sceglie il proprio partner, sono finiti, almeno sulla carta, i tempi in cui i matrimoni venivano imposti. La donna occidentale ha facoltà di scegliere di studiare, farsi una carriera, lavorare fuori casa, di migliorare le proprie condizioni di vita. C’è altro oltre il marito/compagno ed i figli.

Alcuni uomini, quelli deboli, hanno difficoltà ad accettare tutto questo. Non riescono a sopportare che una donna, in quanto donna, abbia dei diritti, abbia facoltà di scelta, abbia facoltà di dare una direzione diversa alla propria vita. Non è ammissibile per loro. Il confronto li destabilizza e li spaventa, non riescono proprio ad accettare che un essere umano con caratteristiche fisiche diverse dalle loro sia in grado di autogestirsi. Gli uomini deboli si sentono minacciati da tanta sicurezza, non tollerano che una donna, in quanto donna, possa essere superiore rispetto a loro. Questo fa scattare il desidero di eliminare il soggetto per dimostrare la forza bruta, per dimostrare la loro superiorità fisica. Qualcosa che mette paura deve essere annientato, eliminato altrimenti finisce per eliminare te e questo, l’uomo debole non lo può accettare. Ecco che si sviluppa allora il pensiero criminale: ti uccido perché rappresenti una minaccia per la mia persona. Ti anniento per non essere sopraffatto. Ti elimino per affermare la mia virilità e la mia superiorità. In una società che si preoccupa di difendere i diritti di tutti, questo non è accettabile. Bisogna educare all’affettività fin da piccoli ed al rispetto dell’altro per evitare di diventare degli adulti che non sanno amare.

Anna:

La sensazione che provo nel rispondere a questa domanda è di smarrimento, sconfitta e ineluttabilità. Anche oggi, nella mia città, più di una donna proprio vicino a me, sarà picchiata, insultata, umiliata, controllata e questo, per il semplice motivo che è una femmina. Lei scambierà il controllo per amore, la gelosia morbosa per cura, le parole offensive per espressione di vera mascolinità.
Non so se la violenza nei confronti delle donne sia effettivamente aumentata, ritengo che in tempi non remoti sia stata normalmente accettata e quindi non denunciata. Guardare un film come C’è ancora domani di Paola Cortellesi, apre uno squarcio su una realtà che è delle nostre nonne e bisnonne. Una realtà fatta di silenzi assordanti, di soprusi quotidiani, di lotta per la sopravvivenza e di anelito costante alla libertà personale.
Se è aumentata la violenza nei confronti delle donne, così come si evince dai dati raccolti su più fronti, penso che ciò sia legato al fatto che è aumentata la violenza in generale. La cassa di risonanza dei social non discrimina fatti eticamente corretti da scorretti, quello che conta veramente sono i like, per cui si possono tranquillamente postare immagini, parole, idee che hanno la violenza e il sopruso al centro. Vedere determinate immagini o ascoltare determinate parole, soprattutto quando si è molto giovani, forma le coscienze.
È triste, ma una delle conseguenze del peccato di Adamo ed Eva che si ripercuote nelle nostre vite ancora oggi, nella giornata in cui si lotta per l’eliminazione della violenza sulle donne, è quanto Dio disse ad Eva. Forse si ricorda più facilmente il concetto legato al dolore del parto e si dimentica la realtà dei desideri di lei che si sarebbero rivolti verso di lui.
Le donne accettano un ultimo appuntamento, cercano un ultimo chiarimento, e ritengono lo schiaffo di oggi l’ultimo e invece vengono uccise domani. Le donne continuano ad essere relazionali e a cercare con lo sguardo l’amore vero nell’uomo che hanno accanto.
Non essere indifferenti ai segnali, aiutare chi ci chiede aiuto, non minimizzare, educare la nuova generazione al rispetto della femminilità, tutto questo può sviluppare la crescita di una sensibilità che porti a riconoscere le micro–violenze prima che si trasformino in macro.
Allora ci sarà… ancora domani!

 

3) Ragioniamo a partire dalla fede cristiana: questa è la nostra prospettiva. Quali risposte offre il vangelo a questa piaga terribile della nostra società?

Federica:

Dio condanna la violenza in ogni sua forma.
La Bibbia prevede ruoli definiti nella coppia ma richiama a modalità di rispetto reciproco nel rapporto uomo-donna. Il nostro obiettivo è tendere al modello divino che non è mai stato violento nei confronti del femminile.

Katia:

Può essere utile prendere spunto proprio dall’esperienza che Gesù ha con le donne del suo tempo, e dal modello di matrimonio successivamente proposto come mutuo servizio in cui sia l’uomo sia la donna sono fatti a immagine di Dio. Gesù è in relazione alla Samaritana e a Maria Maddalena non avendo timore della diversità e del giudizio che c’era su queste donne; il suo atteggiamento di apertura, disponibilità al “diverso da me” è anche in altre occasioni la chiave di svolta degli eventi e la rivoluzione del suo messaggio.

E nel matrimonio il mutuo servizio è poi la disponibilità ad accogliere ciò che l’altro è per me e cosa io posso essere per l’altro, presupposto che permette di ridimensionare aspetti di insicurezza, giudizio, violenza subita che possono “sciogliersi” nella relazione di supporto della coppia adulta

Rossana:

Come abbiamo visto, i femminicidi e tutti gli atti di prevaricazione perpetrati ai danni delle donne sono una terribile piaga sociale che sembra inarrestabile.
Alla luce del vangelo, possiamo provare a trovare una soluzione per cercare di arginarla? La mia risposta è: “Si!”
Sono perfettamente consapevole che molti, nella società odierna non conoscono il vangelo, il fattore religioso forse è uno degli elementi della società che è stato messo in standby perché, per essere politicamente corretti e non offendere il prossimo, non possiamo urtare la sensibilità altrui con la manifestazione della fede e della pratica religiosa ma dobbiamo sentirci chiamati in causa in quanto dobbiamo avere cura del nostro prossimo e dobbiamo presentare un’alternativa a questo scempio senza fine.

Dio è il donatore di vita, è per la vita e promuove la vita. Nella sua Parola ci dà una speranza, ci insegna che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi. Il problema è proprio questo, non ci amiamo abbastanza, non sappiamo chi siamo veramente, di conseguenza, non sappiamo più relazionarci fra noi simili. Dio, attraverso le meravigliose pagine del vangelo ci insegna l’amore, ci insegna quale sono i nostri ruoli. Davanti a Lui siamo uguali, non c’è distinzione fra uomo e donna, non c’è prevaricazione, non c’è possesso da parte dell’uomo nei confronti della donna ma c’è reciprocità, c’è complementarità, c’è collaborazione, c’è rispetto e ci deve essere amore. L’uomo è chiamato a prendersi cura della donna, deve vegliare su di lei amandola come Cristo ama la sua Chiesa, deve avere riguardo ad essa come se avesse a che fare con un vaso delicato, la deve onorare perché anche la donna è erede della promessa e della grazia, deve amarla come la propria persona, deve studiarsi di farla stare bene perché da questo ne riceverà grazia. Dio ha dato pari dignità all’uomo e alla donna e questa dignità non può e non deve essere calpestata per nessun motivo.

Ovviamente ci sono dei suggerimenti anche per le donne nei confronti dei propri mariti che devono essere messi in pratica ma credo che il compito maggiore sia proprio degli uomini che sono chiamati a proteggere la donna in quanto rappresenta, nel caso della propria moglie, la propria stessa carne. Non si può amare sé stessi e odiare chi ti sta accanto. Non è questo che ci insegna il Vangelo. Dobbiamo riscoprire la bellezza di vivere la nostra fede e non aver paura di testimoniare e mostrare al mondo che c’è un’alternativa a questa società che ci vorrebbe tutti uguali, automi che non hanno più sentimenti e che non sanno più provare emozioni.

Anna:

Il Vangelo è la buona notizia! La migliore buona notizia che sia mai stata raccontata in questo mondo violento.
Il Vangelo è la buona notizia di un cambiamento personale, di una trasformazione continua e radicale, profonda e strutturale. Il Vangelo è la buona notizia per cui non esiste l’ineluttabilità di “tale padre tale figlio”, il Vangelo è la buona notizia per un uomo violento che ha visto e sentito violenze fin da piccolo, ma che può, volontariamente, abbandonare parole e atti offensivi accettando Cristo nella propria vita.
Il Vangelo non è una favola rassicurante che finisce bene, il Vangelo è una storia vera che cambia le vite e che quindi cambia la società! Qualsiasi cultura, in qualsiasi parte del mondo, anche in Afghanistan dove è prassi uccidere le ragazze che non vogliono sposare il marito scelto dai parenti o in India dove le spose sono bambine ignare di tutto, o in Italia dove le donne rischiano ad uscire quando è buio e ancor più quando tornano a casa, anche qui l’Evangelo può cambiare radicalmente tutto.
I primi a dover sentire l’urgenza di raccontare questa buona notizia sono proprio i cristiani che credono fermamente nella potenza rinnovatrice di questo Vangelo.
Il sangue versato da Cristo, la violenza inaudita di cui è stato oggetto il suo corpo, le torture da lui subite, ci raccontano la storia di un Amore infinito e immisurabile fatto di parole e atti conseguenti, capace ancora oggi di trasformare il cuore dell’uomo più violento in qualunque parte del mondo lui si trovi a vivere. L’amore, dice la Bibbia, non fa mai male al prossimo!
Se la donna vicino a te percepisce un senso di dolore o paura quando le parli o quando ti avvicini a lei, quello non è certamente amore!

L’articolo Il vaso debole … da non frantumare proviene da DiRS GBU.

source https://dirs.gbu.it/il-vaso-debole-da-non-frantumare/

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di Luigi Palombo, staff GBU Milano

Mi chiedo, quale voto daresti a te stesso da 1 a 10 per quanto bene riesci a servire Gesù?
Se il punteggio fosse basato su quanto sei audace come evangelista, quanto vivi per Gesù piuttosto che per te stesso, quanto vuoi servire nel GBU e condividere il vangelo all’università, quale voto daresti a te stesso da 1 a 10?

Abbiamo così tanti impegni, e parlare di Gesù è così scoraggiante, e comunque pochissime persone sembrano interessate a sentir parlare di lui. Non si può semplicemente andare avanti e vivere per me stesso, concentrarmi sui miei studi e basta come tutti gli altri?

Le parole di Gesù

E poi leggiamo le terrificanti parole di Gesù:

“Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.”

Marco 8:34

E poi al versetto 38:

“Perché se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli.”

Sappiamo bene che spesso ci vergogniamo delle sue parole, e sentendolo parlare così ci fa andare nel panico e pensare: “AIUTO! Quando Gesù ritornerà si vergognerà di me?!”

Paura!

Ma come quelli di noi che erano presenti alla Formazione hanno visto da Marco capitoli 8-10, Gesù non vuole che il nostro servizio a lui quest’anno sia governato principalmente dalla paura.
Sa che se il nostro ingresso in paradiso dipendesse da quanto bene lo abbiamo servito da 1 a 10, nessuno di noi avrebbe un punteggio abbastanza alto per entrarci.
“È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per [noi] entrare nel regno di Dio”
Vuole piuttosto che comprendiamo che è impossibile per noi servirlo come dovremmo con le nostre sole forze. La nostra salvezza eterna è assicurata non perché siamo abbastanza bravi ma per il prezzo del proprio sangue egli ha pagato, il prezzo d’ingresso al nostro posto.

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