Il vaso debole … da non frantumare

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a cura di Rebecca Ciociola e Giacomo Carlo Di Gaetano

L’espressione “vaso debole” si trova nella 1 Pietro (3:7), all’interno di uno dei tanti codici famigliari contenuti nel Nuovo Testamento. L’espressione dà il titolo alla risposta che quattro donne, tutte impegnate in un ministero cristiano o in una professione socialmente rilevante per il tema trattato, hanno fornito a tre domande che abbiamo rivolto loro come redazione del DiRS–GBU.

Federica Albano, si occupa per lavoro e per passione di educazione e temi sociali. Ha operato per diversi anni in un centro antiviolenza. Vive in Lombardia ed è membro di una chiesa evangelica di Milano.

Katia Lavermicocca, Psicologa psicoterapeuta, docente d’area psicologica e consulente per enti che hanno come destinatari minori e famiglie, è membro della chiesa di Cristo di Bari.

Rossana Zanetti Sciuto, Diaconessa della comunità della Chiesa Apostolica di Piacenza, laureata in Teologia, indirizzo Pastorale della famiglia. Impegnata nella Formazione Ministeriale della Chiesa Apostolica dove insegna Questione Femminile nella Chiesa nel corso dei secoli.

Anna Moretti, impegnata da anni in un ministero di formazione e consulenza per donne, membro dell’Assemblea dei Fratelli di Novoli a Firenze.

 

 

1) Nel 2024 il Viminale ha registrato più di 90 casi di femminicidio. 4 omicidi su 5 avvengono nell’ambito familiare ristretto o allargato. Cosa ti fanno pensare/quale realtà descrivono questi dati?

Federica:

Anche se sono passati tanti anni ed il tema è stato molto discusso, di fatto il problema non è regredito. Il dato mostra che la strada da fare è ancora lunga sia per lo Stato e la sua legislazione sia per i cittadini / e le cittadine, per il sentire comune e l’idea che si ha della violenza, rivittimazzando le vittime (p. es.: in fondo se l’è anche un po’ cercata).

Katia:

Il femminicidio rappresenta il gesto estremo di una violenza che ha alle spalle una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza nei confronti delle donne. Il dato registrato quindi mette in evidenza il punto di non ritorno di una complessità sociale, relazionale, etica che coinvolge le coppie e le famiglie in questi anni.

La famiglia è il luogo presente in maniera continuativa nella vita di molti uomini e donne. Luogo inteso come spazio psicologico in cui costruire la propria identità ed appartenenza. Laboratorio di esperienze vissute prima nella dimensione di figlio e successivamente nella dimensione di adulto, compagno o genitore. L’ambiente domestico o di relazione esclusiva di coppia può quindi diventare motore creativo in cui si impara il dialogo, l’ascolto, la gestione delle emozioni, delle proprie frustrazioni o per motivazione diverse, luogo di solitudine in connotazione negativa, quindi di difficoltà nell’andare verso l’altro.

Le forme che può prendere questa difficoltà in età adulta possono essere diverse; la violenza verso la propria compagna è una di queste. Lenore Walker (1979) descrive le tre fasi del ciclo della violenza. La prima fase è quella in cui si accende la tensione tra i partner e l’uomo violento manifesta un crescente nervosismo, un atteggiamento perennemente irritato, opaco e ambiguo che confonde la donna. Il distacco del partner è avvertito dalla donna come un potenziale segno di abbandono che la spinge ad evitare di contestare il proprio compagno od opporsi, assecondando ogni sua mossa ed ogni suo volere.
La seconda fase vede agire il maltrattamento sia fisicamente che verbalmente.
La terza fase, infine, è caratterizzata in genere da una finta riappacificazione. L’uomo violento si riavvicina alla donna giurando pentimento e pronunciando scuse e parole d’amore a profusione, venendo prontamente perdonato e riaccolto. Nei primi episodi di violenza, la fase della falsa riappacificazione dura generalmente più a lungo; al contrario, all’aumentare degli episodi violenti, la durata della riappacificazione si riduce. Questa fase costituisce una sorta di rinforzo positivo per la donna, che con l’alternarsi di ogni fase diventa sempre più dipendente da questo meccanismo e sempre più bisognosa di questo legame, seppur malato, mentre l’uomo violento acquista sempre più potere all’interno della relazione di coppia

Rossana:

Dal 1° gennaio al 17 novembre 2024, in Italia, sono stati commessi 98 femminicidi di cui 84 avvenuti in ambito familiare/affettivo; 54 di queste donne sono state uccise dal partner o ex partner (Fonte governativa). Questi dati sono allarmanti e sono il campanello d’allarme di un problema ancora più grande che è di difficile risoluzione. Sono il sintomo di una società malata, una società che ha perso la sua identità, una società fluida, dove i valori primari sono stati smarriti. Una società che non è in grado di offrire una parità ed un’uguaglianza di genere e che non riesce a garantire al cento per cento protezione ad una fascia più sensibile dei suoi componenti, una società che ha difficoltà a relazionarsi con i propri simili. In questa società la famiglia, che è il nucleo primario di una società civile, ha perso quel valore e quel ruolo fondamentale che aveva in passato.

Oggi, le famiglie sono deboli, non sono all’altezza del compito al quale sono chiamate. La società odierna impone ritmi e ruoli totalmente alterati e questo, secondo me, è il fattore scatenante di tanta violenza. Le donne hanno conquistato, a fatica, il diritto ad avere voce in capitolo e, contrariamente a 60/70 anni fa, quando i ruoli in casa erano ben definiti, oggi si ritrovano a dover spesso ricoprire anche il ruolo che dovrebbe essere dell’uomo. A causa dei ritmi serrati a cui si è spesso sottoposti la comunicazione è venuta meno, le relazioni si sono incrinate e spesso, diventano malate. La competizione fra i sessi è stata portata a limiti estremi e l’uomo non si riconosce più negli stereotipi che vengono proposti.

Ecco che scatta allora in lui il desiderio di reprimere la libertà delle donne, della propria donna che una volta era remissiva, forse anche troppo, e subiva in silenzio, e che oggi invece si ribella a condizioni di vita deprivanti.

La donna ha più consapevolezza dei suoi diritti ed è in grado di gestirsi da sola in ogni situazione. È indipendente sia socialmente che economicamente e questo, in una società che è ancora dichiaratamente patriarcale, è un elemento dirompente. Questo continuo confronto fra uomo e donna è il fattore scatenante di tanta violenza. L’uomo non riesce ad accettare che la propria donna sia in grado di prendere le decisioni da sola, che può scegliere di uscire con le amiche, che sia, in alcuni casi, economicamente più forte del proprio partner, che non abbia bisogno di un mentore che la guidi e la consigli in ogni cosa e che le gestisca la vita impartendo ordini. Tutto questo viene visto come una minaccia all’amor proprio, scatena un senso di impotenza e di inferiorità che va a minare tutte le sicurezze dell’uomo. Ecco che allora si scatena la voglia di riaffermare quella superiorità atavica che vede l’uomo maschio come essere dominante, come essere superiore dalla quale la donna deve dipendere in tutto e per tutto; scatta allora il possesso, la voglia di reprime ogni libertà faticosamente conquistata e, nel momento in cui l’uomo realizza che la donna non è disposta ad essere più succube di certe situazioni, dirompe la violenza, quella violenza cieca desidera annientare ed assoggettare a sé l’altro.

Anna:

Se hai mai fatto una lunga passeggiata in montagna, sai bene che cosa susciti vedere un rifugio: troverò cibo, una bevanda calda, avrò la possibilità di riposarmi, farò due chiacchiere per raccontare il mio pezzo di strada fino a lì.
Nel progetto di Dio, la casa, come quel rifugio, doveva essere il luogo privilegiato in cui ogni membro della famiglia trovasse nutrimento, protezione   e relazioni profonde e stabili. In quella casa doveva circolare l’amore.
Questo era il progetto, questa la destinazione d’uso.

Ma proprio perché la famiglia è un’idea di Dio, viene attaccata fin dalle sue fondamenta: il progetto viene riscritto e rimaneggiato, se ne propone un altro dove sono al centro io, dove comando io, dove ricevo dei servizi io, dove ti schiavizzo e se prendi il mio posto ti urlo dietro, ti strattono, ti picchio e se mi va e mi fa sentire meglio, ti tolgo di mezzo così quel posto a capotavola non lo prenderai mai più!
La famiglia: nel luogo per eccellenza in cui doveva circolare l’amore, non c’è più ossigeno, circola solo la paura, è lì che affermo il mio potere battendo il pugno, urlando parole cattive e offensive, facendo cose cattive e offensive.
Ti userò, non ti servirò, mi compiacerai in tutto, non ti ascolterò, ti sottometterò con violenze psicologiche dicendoti che tu non vali nulla, sei solo un’incapace.
Uomini che pensano di avere fra le mani oggetti e non persone, per cui come si butta via un piatto di carta usato, si butta via una donna, dopo averla usata.
Quante volte mogli e compagne amate “appassionatamente” sono finite a pezzi in sacchi della spazzatura? Quante volte sono state sfregiate perché non si riconoscessero più guardandosi allo specchio? Quante volte la violenza verbale le ha annichilite fino a ridurle allo stremo?

Il luogo dell’amore, la casa, trasformato nel luogo dell’orrore.

Il progetto di Dio cestinato. Quattro omicidi su cinque avvengono in famiglia, proprio perché nel progetto di Dio quello doveva essere il luogo più sicuro.
L’uomo riformula il progetto, si mette al posto di Dio, con conseguenze visibili sotto gli occhi di tutti: scarpe e panchine rosse di sangue.

 

2) L’ONU (Statistical framework for measuring the gender-related killing of women and girls, 2022) definisce i femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Le tipologie sono diverse: si va dall’omicidio ( e dalle violenze) compiute e perpetrate dal partner, ai casi in cui anche a opera di uno sconosciuto, violenze e omicidi sono legati alle differenze e alle motivazioni di genere.

A tuo giudizio quali potrebbero essere le cause principali per l’incremento di questo fenomeno?

Federica:

Le cause sono da ricercare nella radicalizzazione della cultura patriarcale intesa come totale supremazia dell’uomo sulla donna, la considerazione della donna quale oggetto da mostrare / usare (p. es. la pornografia, la pubblicità, etc.), il poco ascolto dedicato alle testimonianze delle donne vittime di violenza, la difficoltà ad immedesimarsi nel loro vissuto, la scarsa presa di responsabilità e di distanza degli uomini, tutti gli uomini, rispetto alla violenza quando si manifesta.

Katia:

Il fenomeno della violenza di genere copre un panorama più ampio, in cui i termini differenza, disparità, disuguaglianza giocano un peso importante. Dal punto di vista psicologico, le differenze individuali che sono state oggetto di studio dei maestri della psicologia come Eysenck, per la definizione delle diverse personalità, possono essere viste come una risorsa o come un pericolo. Il diverso da me, chi non corrisponde ai miei schemi, può essere percepito come stimolante o come minaccioso. Utilizzando schemi personali troppo rigidi non possiamo conoscere la persona come veramente è, creando una barriera che ci difende e ci protegge. Le distanze generano pregiudizi, cioè un giudizio anticipato che non riflette il reale. Le distanze generano anche stereotipi, cioè opinioni precostituite. Il senso di pericolo percepito o di rifiuto del diverso può portare a violenze.

Fenomeno in incremento per una complessità di ragioni di matrice diversa, ma metterei l’attenzione sul paradosso creato dal conoscere il mondo attraverso i social media. Un canale di “esperienza” del mondo e delle persone in cui si è o attori o spettatori, e che quindi non permette il reale scambio tra persone in-situazione, cioè nella contingenza dello scambio vissuto reciprocamente, che è alla base dell’educazione alle differenze.

Rossana:

La prima cosa che mi sento di rispondere è la paura. Paura del confronto, paura di non essere più all’altezza del proprio ruolo e del proprio compito, paura di non essere più l’essere umano dominante, paura di relazionarsi con un essere pari a sé. Mentre le donne hanno acquisito consapevolezza di sé, hanno lottato per ottenere uguali diritti, anche se la strada per la vera uguaglianza è ancora lunga e difficile da raggiungere, sotto il profilo economico soprattutto, l’uomo vede in tutto questo una minaccia alla propria persona. Ancora oggi si fa fatica ad accettare il diritto della donna a non essere considerata oggetto e quindi, proprietà di qualcuno. La donna sceglie di gestire la propria vita come meglio crede, sceglie il proprio partner, sono finiti, almeno sulla carta, i tempi in cui i matrimoni venivano imposti. La donna occidentale ha facoltà di scegliere di studiare, farsi una carriera, lavorare fuori casa, di migliorare le proprie condizioni di vita. C’è altro oltre il marito/compagno ed i figli.

Alcuni uomini, quelli deboli, hanno difficoltà ad accettare tutto questo. Non riescono a sopportare che una donna, in quanto donna, abbia dei diritti, abbia facoltà di scelta, abbia facoltà di dare una direzione diversa alla propria vita. Non è ammissibile per loro. Il confronto li destabilizza e li spaventa, non riescono proprio ad accettare che un essere umano con caratteristiche fisiche diverse dalle loro sia in grado di autogestirsi. Gli uomini deboli si sentono minacciati da tanta sicurezza, non tollerano che una donna, in quanto donna, possa essere superiore rispetto a loro. Questo fa scattare il desidero di eliminare il soggetto per dimostrare la forza bruta, per dimostrare la loro superiorità fisica. Qualcosa che mette paura deve essere annientato, eliminato altrimenti finisce per eliminare te e questo, l’uomo debole non lo può accettare. Ecco che si sviluppa allora il pensiero criminale: ti uccido perché rappresenti una minaccia per la mia persona. Ti anniento per non essere sopraffatto. Ti elimino per affermare la mia virilità e la mia superiorità. In una società che si preoccupa di difendere i diritti di tutti, questo non è accettabile. Bisogna educare all’affettività fin da piccoli ed al rispetto dell’altro per evitare di diventare degli adulti che non sanno amare.

Anna:

La sensazione che provo nel rispondere a questa domanda è di smarrimento, sconfitta e ineluttabilità. Anche oggi, nella mia città, più di una donna proprio vicino a me, sarà picchiata, insultata, umiliata, controllata e questo, per il semplice motivo che è una femmina. Lei scambierà il controllo per amore, la gelosia morbosa per cura, le parole offensive per espressione di vera mascolinità.
Non so se la violenza nei confronti delle donne sia effettivamente aumentata, ritengo che in tempi non remoti sia stata normalmente accettata e quindi non denunciata. Guardare un film come C’è ancora domani di Paola Cortellesi, apre uno squarcio su una realtà che è delle nostre nonne e bisnonne. Una realtà fatta di silenzi assordanti, di soprusi quotidiani, di lotta per la sopravvivenza e di anelito costante alla libertà personale.
Se è aumentata la violenza nei confronti delle donne, così come si evince dai dati raccolti su più fronti, penso che ciò sia legato al fatto che è aumentata la violenza in generale. La cassa di risonanza dei social non discrimina fatti eticamente corretti da scorretti, quello che conta veramente sono i like, per cui si possono tranquillamente postare immagini, parole, idee che hanno la violenza e il sopruso al centro. Vedere determinate immagini o ascoltare determinate parole, soprattutto quando si è molto giovani, forma le coscienze.
È triste, ma una delle conseguenze del peccato di Adamo ed Eva che si ripercuote nelle nostre vite ancora oggi, nella giornata in cui si lotta per l’eliminazione della violenza sulle donne, è quanto Dio disse ad Eva. Forse si ricorda più facilmente il concetto legato al dolore del parto e si dimentica la realtà dei desideri di lei che si sarebbero rivolti verso di lui.
Le donne accettano un ultimo appuntamento, cercano un ultimo chiarimento, e ritengono lo schiaffo di oggi l’ultimo e invece vengono uccise domani. Le donne continuano ad essere relazionali e a cercare con lo sguardo l’amore vero nell’uomo che hanno accanto.
Non essere indifferenti ai segnali, aiutare chi ci chiede aiuto, non minimizzare, educare la nuova generazione al rispetto della femminilità, tutto questo può sviluppare la crescita di una sensibilità che porti a riconoscere le micro–violenze prima che si trasformino in macro.
Allora ci sarà… ancora domani!

 

3) Ragioniamo a partire dalla fede cristiana: questa è la nostra prospettiva. Quali risposte offre il vangelo a questa piaga terribile della nostra società?

Federica:

Dio condanna la violenza in ogni sua forma.
La Bibbia prevede ruoli definiti nella coppia ma richiama a modalità di rispetto reciproco nel rapporto uomo-donna. Il nostro obiettivo è tendere al modello divino che non è mai stato violento nei confronti del femminile.

Katia:

Può essere utile prendere spunto proprio dall’esperienza che Gesù ha con le donne del suo tempo, e dal modello di matrimonio successivamente proposto come mutuo servizio in cui sia l’uomo sia la donna sono fatti a immagine di Dio. Gesù è in relazione alla Samaritana e a Maria Maddalena non avendo timore della diversità e del giudizio che c’era su queste donne; il suo atteggiamento di apertura, disponibilità al “diverso da me” è anche in altre occasioni la chiave di svolta degli eventi e la rivoluzione del suo messaggio.

E nel matrimonio il mutuo servizio è poi la disponibilità ad accogliere ciò che l’altro è per me e cosa io posso essere per l’altro, presupposto che permette di ridimensionare aspetti di insicurezza, giudizio, violenza subita che possono “sciogliersi” nella relazione di supporto della coppia adulta

Rossana:

Come abbiamo visto, i femminicidi e tutti gli atti di prevaricazione perpetrati ai danni delle donne sono una terribile piaga sociale che sembra inarrestabile.
Alla luce del vangelo, possiamo provare a trovare una soluzione per cercare di arginarla? La mia risposta è: “Si!”
Sono perfettamente consapevole che molti, nella società odierna non conoscono il vangelo, il fattore religioso forse è uno degli elementi della società che è stato messo in standby perché, per essere politicamente corretti e non offendere il prossimo, non possiamo urtare la sensibilità altrui con la manifestazione della fede e della pratica religiosa ma dobbiamo sentirci chiamati in causa in quanto dobbiamo avere cura del nostro prossimo e dobbiamo presentare un’alternativa a questo scempio senza fine.

Dio è il donatore di vita, è per la vita e promuove la vita. Nella sua Parola ci dà una speranza, ci insegna che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi. Il problema è proprio questo, non ci amiamo abbastanza, non sappiamo chi siamo veramente, di conseguenza, non sappiamo più relazionarci fra noi simili. Dio, attraverso le meravigliose pagine del vangelo ci insegna l’amore, ci insegna quale sono i nostri ruoli. Davanti a Lui siamo uguali, non c’è distinzione fra uomo e donna, non c’è prevaricazione, non c’è possesso da parte dell’uomo nei confronti della donna ma c’è reciprocità, c’è complementarità, c’è collaborazione, c’è rispetto e ci deve essere amore. L’uomo è chiamato a prendersi cura della donna, deve vegliare su di lei amandola come Cristo ama la sua Chiesa, deve avere riguardo ad essa come se avesse a che fare con un vaso delicato, la deve onorare perché anche la donna è erede della promessa e della grazia, deve amarla come la propria persona, deve studiarsi di farla stare bene perché da questo ne riceverà grazia. Dio ha dato pari dignità all’uomo e alla donna e questa dignità non può e non deve essere calpestata per nessun motivo.

Ovviamente ci sono dei suggerimenti anche per le donne nei confronti dei propri mariti che devono essere messi in pratica ma credo che il compito maggiore sia proprio degli uomini che sono chiamati a proteggere la donna in quanto rappresenta, nel caso della propria moglie, la propria stessa carne. Non si può amare sé stessi e odiare chi ti sta accanto. Non è questo che ci insegna il Vangelo. Dobbiamo riscoprire la bellezza di vivere la nostra fede e non aver paura di testimoniare e mostrare al mondo che c’è un’alternativa a questa società che ci vorrebbe tutti uguali, automi che non hanno più sentimenti e che non sanno più provare emozioni.

Anna:

Il Vangelo è la buona notizia! La migliore buona notizia che sia mai stata raccontata in questo mondo violento.
Il Vangelo è la buona notizia di un cambiamento personale, di una trasformazione continua e radicale, profonda e strutturale. Il Vangelo è la buona notizia per cui non esiste l’ineluttabilità di “tale padre tale figlio”, il Vangelo è la buona notizia per un uomo violento che ha visto e sentito violenze fin da piccolo, ma che può, volontariamente, abbandonare parole e atti offensivi accettando Cristo nella propria vita.
Il Vangelo non è una favola rassicurante che finisce bene, il Vangelo è una storia vera che cambia le vite e che quindi cambia la società! Qualsiasi cultura, in qualsiasi parte del mondo, anche in Afghanistan dove è prassi uccidere le ragazze che non vogliono sposare il marito scelto dai parenti o in India dove le spose sono bambine ignare di tutto, o in Italia dove le donne rischiano ad uscire quando è buio e ancor più quando tornano a casa, anche qui l’Evangelo può cambiare radicalmente tutto.
I primi a dover sentire l’urgenza di raccontare questa buona notizia sono proprio i cristiani che credono fermamente nella potenza rinnovatrice di questo Vangelo.
Il sangue versato da Cristo, la violenza inaudita di cui è stato oggetto il suo corpo, le torture da lui subite, ci raccontano la storia di un Amore infinito e immisurabile fatto di parole e atti conseguenti, capace ancora oggi di trasformare il cuore dell’uomo più violento in qualunque parte del mondo lui si trovi a vivere. L’amore, dice la Bibbia, non fa mai male al prossimo!
Se la donna vicino a te percepisce un senso di dolore o paura quando le parli o quando ti avvicini a lei, quello non è certamente amore!

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