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di Maria Gil Orefice, laureanda in Filologia Moderna

“Vivere e confrontarsi con l’Islam” è il tema su cui si è incentrato il diciassettesimo Convegno di Studi GBU: tre giorni densi di seminari e approfondimenti estremamente interessanti ma soprattutto utili per conoscere meglio il mondo musulmano e comprendere i metodi migliori per instaurare un dialogo nella Verità con chi ne fa parte. L’oratore, insieme ai professori incaricati dei diversi seminari, ha accompagnato noi partecipanti nella scoperta dell’Islam, delle sue origini e di come si è evoluta la sua percezione nel corso dei secoli.

Due interventi che ho molto apprezzato personalmente sono stati quelli del professor Claudio Monopoli e della professoressa Aoife Beville. Il primo ha tracciato l’evoluzione della percezione del mondo musulmano nella letteratura italiana, da Dante che pone Maometto tra i seminatori di discordia (non tra gli eretici!) a Tasso che nella sua Gerusalemme liberata dipinge i musulmani come esseri completamente malvagi, con forze demoniache dalla loro. La professoressa Beville ha invece approfondito Il cavallo e il ragazzo di C.S. Lewis e il modo in cui l’autore ha descritto i Calormeniani al suo interno, sviluppando una riflessione molto interessante su come qualcosa che noi potremmo non notare neanche (in questo caso, la rappresentazione dei Calormeniani come uomini dalla pelle scura e la barba lunga e sporca che indossano turbanti) possa invece apparire evidente e dissuadere dalla lettura un musulmano che dovesse trovarsi a leggere. Collegandomi a questo, riporto uno dei punti fondamentali emersi durante il Convegno: per creare un dialogo con qualcuno altro da noi, è necessario approcciarsi con dignità a ciò in cui crede. Per quanto noi siamo giustamente convinti della Verità della Bibbia, non dobbiamo commettere l’errore di sminuire le persone musulmane con cui ci confrontiamo; non se vogliamo avere una possibilità di instaurare un dialogo sincero e utile a portarli a Dio.

Questo Convegno mi ha fornito vari spunti e tattiche utili a comprendere ed evangelizzare i musulmani, ma ciò che mi ha più colpita è senza dubbio come lo strumento più efficace nel portare i musulmani a Cristo sia il Corano stesso. Questo non ci è stato solo spiegato dall’oratore, Emil Shehadeh, ma anche testimoniato da un ragazzo cristiano di origini musulmane che ha raccontato come proprio leggendo il Corano abbia iniziato a porsi domande: perché l’Islam ritiene Maometto come massimo profeta, se nel loro libro sacro è evidente che Gesù sia il più glorioso tra tutti i profeti? Perché molti musulmani accusano i cristiani di aver modificato la Bibbia, se il Corano afferma che Allah non permette a nessuno di modificare la sua parola?

Conoscere il contenuto del Corano, quindi, rappresenta un vantaggio se si vuole instaurare un dialogo con persone musulmane. Emil Shehadeh ci ha fornito delle ottime basi di partenza; sta a noi, ora, continuare a studiare e approfondire il tema, se sentiamo la chiamata in questa direzione.

Questi tre giorni di Convegno sono stati un’esperienza intensa e davvero utile per la mia crescita spirituale, sono grata di aver partecipato e averne ricavato spunti utili per come evangelizzare o dialogare con persone di altre fedi in generale, oltre che musulmane nello specifico.

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(Daniel K. Williams)

Articolo tradotto e pubblicato con autorizzazione di Christianity Today

 

Quando Jimmy Carter parlò della sua fede in Cristo, durante la campagna elettorale per la presidenza del 1976, molti evangelici rimasero estasiati.

Nessun candidato aveva mai affermato di essere “nato di nuovo” o parlato così apertamente del suo rapporto con Gesù. Né aveva accolto mai i giornalisti nella sua classe di discepolato per adulti, che Carter continuò a tenere nello stesso periodo in cui si era candidato per la Casa Bianca. D’altronde, nessun altro candidato era mai stato un diacono di una chiesa battista del sud degli Stati Uniti.

Il pastore dell’Oklahoma, Bailey Smith, rivolgendosi alla folla radunata per l’incontro annuale della SBC, nel giugno del 1976, affermò che gli Stati Uniti avevano bisogno di un “uomo nato di nuovo alla Casa Bianca”. Poi aggiunse, nel caso qualcuno non avesse colto l’allusione, “Le iniziali del suo nome sono le stesse di quelle del nostro Signore!” [Jimmy Carter, come Jesus Christ, ndt]

Ma solo poche settimane dopo, la Third Century Publishers, una casa editrice evangelica riconducibile al fondatore di Campus Crusade for Christ, Bill Bright, pubblicò un libro che criticava duramente la bontà della fede evangelica di Carter. Il libro, What about Jimmy Carter? fu scritto da un giovane evangelista di nome Ron Boehme.

Boehme, quando sentì parlare per la prima volta della candidatura di Carter, disse di essersi “emozionato” all’idea che un cristiano nato di nuovo fosse candidato alla Presidenza. Tuttavia, man mano che approfondiva le convinzioni di Carter, la sua opinione sul candidato democratico si inasprirono. Scoprì che Carter aveva abbracciato una visione neo-ortodossa della Bibbia e sosteneva politiche liberali relative all’aborto e ai diritti degli omosessuali.

Boehme concluse che forse Carter non fosse affatto un evangelico o che addirittura non fosse neanche un credente. Scrisse: “Quando qualcuno, nella sua campagna politica e nel suo approccio alla legge, promuove o asseconda immoralità ed empietà allora non è un vero seguace di Gesù”. Prendendo in prestito di una delle affermazioni di Gesù nel Sermone sul Monte, Boehme aggiunse: “Un albero buono non può produrre frutti cattivi”.

Boehme non fu il solo a giungere a questa conclusione. Sebbene Carter nel 1976 avesse preso circa la metà dei voti degli evangelici bianchi, molti evangelici, nelle settimane che precedettero le elezioni, rilanciarono i dubbi di Boehme. L’intervista di Carter alla rivista Playboy turbò molti cristiani conservatori, e lo stesso effetto produssero alcune delle sue posizioni politiche.

Nel 1980, alcuni evangelici che un tempo avevano sostenuto Carter (come il conduttore radiofonico Pat Robertson) furono in prima linea nel movimento per sconfiggerlo alle elezioni di quell’anno. Carter, sostenevano, aveva promosso un “umanesimo secolare” grazie al sostegno di un programma femminista e al suo rifiuto di opporsi ai diritti degli omosessuali. In effetti, nel 1980, fu in gran parte una reazione alle politiche presidenziali di Carter che spinse la mobilitazione politica della destra religiosa e il forte sostegno evangelico a Ronald Reagan.

Dopo che Carter lasciò la Presidenza, la frattura tra lui e la leadership, sempre più conservatrice della Southern Baptist Convention, continuò ad approfondirsi. Alla fine, Carter lasciò la Convention per unirsi alla Cooperative Baptist Fellowship (SBC), una denominazione che ordinava le donne e rifiutava alcune delle posizioni politiche conservatrici della SBC.

Ma Carter continuò a definirsi un cristiano evangelico. Continuò a raccontare di leggere la Bibbia ogni giorno, di pregare costantemente e di tenere lezioni settimanali di scuola domenicale nella sua chiesa battista. Il suo lavoro di volontariato con lo Habitat for Humanity divenne leggendario. E spesso, mentre era ancora Presidente, aveva condiviso la sua fede con gli altri, incluso leader internazionali non cristiani.

Scrisse anche diversi libri sulla sua fede. “Sono convinto che Gesù sia il Figlio di Dio”, affermò nel suo ultimo libro, pubblicato nel 2018. Dichiarò che Gesù era il suo “personale salvatore “, e anche “una guida personale e un esempio per la propria vita e per quella degli altri. … Gli elementi fondamentali del cristianesimo valgono personalmente per me, modellano il mio atteggiamento e le mie azioni e contribuiscono a darmi una vita gioiosa e positiva, una vita che ha uno scopo”.

Dopo aver consultato la descrizione dell’evangelicalismo che aveva rinvenuto in un articolo di Wikipedia, e dopo averla integrata con note tratte da uno dei suoi commentari alla Bibbia, Carter concluse nel suo libro che egli non era solo un cristiano, ma che era un “cristiano evangelico”. Era nato di nuovo; condivideva la sua fede con gli altri e amava Gesù come suo personale Salvatore. Che cosa poteva esserci di più evangelico di questo?

Ma c’era una differenza tra la comprensione della fede che Carter mostrava e le opinioni dei suoi critici evangelici. La sua esperienza di conversione con la nuova nascita avrebbe potuto essere sicuramente simile alla loro, e la sua dedizione alla preghiera e alla lettura della Bibbia altrettanto forte della loro, ma su due questioni Carter era distante dagli evangelici conservatori della fine del XX secolo: l’inerranza biblica e la politica.

Questi erano proprio i temi al centro della crescita dei conservatori della Southern Baptist Convention che ebbe inizio proprio mentre Carter era in carica come Presidente. Per molti evangelici conservatori degli anni ’70, per Harold Lindsell, Francis Schaeffer e i leader della parte conservatrice all’interno della Southern Baptist Convention, il tema dell’inerranza biblica era centrale per l’identità evangelica. Sostenevano che senza una Bibbia infallibile i cristiani protestanti non avrebbero avuto una fonte di autorità che fosse stata stabile e trascendente. Il principio della Riforma del sola scriptura, combinato con una comprensione della perfezione e della sovranità di Dio, esigeva una scrittura infallibile.

Molti di questi evangelici sostenevano anche che il governo americano avesse bisogno di uno standard morale stabile e trascendente, basato sui principi cristiani. La legalizzazione dell’aborto e una nuova glorificazione pubblica dell’immoralità sessuale erano il risultato di politici e giudici che avevano dimenticato la legge di Dio.

La loro visione del cristianesimo che doveva avere un’influenza nella sfera pubblica si esprimeva principalmente nel bisogno di sostenere i principi morali cristiani a fronte della crescente secolarizzazione. Ritenevano la rivoluzione sessuale, insieme alla seconda ondata di femminismo, la più grande minaccia che la famiglia americana avesse mai subito. Ed erano determinati a fermare quella minaccia eleggendo persone devote nelle cariche pubbliche, persone che sarebbero state guidate dalla legge di Dio, non dalle tendenze culturali del tempo.

Carter, però, non condivideva nessuna di queste opinioni. Le sue idee politiche e religiose non erano state plasmate da una reazione alla rivoluzione sessuale, ma dall’esperienza del movimento per i diritti civili. Come altri bianchi del sud della sua generazione, Carter era cresciuto a contatto con la segregazione razziale e la disuguaglianza, e giunse alla conclusione che le chiese evangeliche bianche della sua regione erano per lo più dalla parte sbagliata della lotta per la giustizia degli afroamericani.

La chiesa battista di Carter a Plains, in Georgia, fu ufficialmente segregazionista fino al 1976. La comunità votò negli anni ’60 contro l’accoglienza di persone di colore quali propri membri, e Carter si oppose a quella decisione pur non abbandonando la chiesa. Eppure, come ricordò anni dopo nel suo libro Faith: A Journey for All, venne ispirato dagli esempi di altri cristiani che assunsero una posizione controculturale volta a superare la linea del colore presente nel sud segregazionista. Ad esempio, a poche miglia dalla sua casa di Plains, Millard e Linda Fuller diedero il via a un’impresa agricola cristiana interrazziale, chiamata Koinonia, per poi fondare Habitat for Humanity.

Incontri con persone come i Fuller convinsero Carter che ciò di cui il paese aveva bisogno non era una campagna pubblica per riportare l’America a Dio. Era una concreta imitazione dell’etica di Gesù. Dopotutto, era in questo modo che i sostenitori cristiani afroamericani dei diritti civili avevano ottenuto il sostegno dei cristiani bianchi, che in precedenza erano contro di loro, in quanto furono toccati dall’esempio dell’amore cristiano che avevano visto tra gli attivisti.

Carter fu così colpito da esempi del genere tanto da incorniciare la sua fede intorno a questo principio piuttosto che intorno a specifiche rivendicazioni dottrinali. Ma più leggeva le Scritture, più veniva colpito dall’etica di Cristo e più desiderava avere Gesù come suo “amico” per grazia mediante la fede.

Per Carter, quindi, l’inerranza biblica non era un problema. Giunse a pensare che forse la Bibbia potesse contenere alcune contraddizioni interne che non potevano essere armonizzate, e che parti della Bibbia potessero avere bisogno di essere reinterpretate alla luce della scienza moderna. Ma questo non aveva importanza, poiché il racconto della vita di Gesù era al contrario storicamente corretto.

Similmente, Carter ritenne che le priorità politiche della destra cristiana fossero sbagliate, perché erano incentrate non sull’etica di Gesù ma sull’idea errata che i valori della famiglia potessero essere imposti per legge. In quanto battista arminiano, Carter si opponeva ai credi: credeva nel sacerdozio di tutti i credenti e insisteva fermamente sul fatto che la fede, per essere autentica, dovesse essere liberamente scelta. Non poteva essere dettata dalla legge, sostenne in dei suoi numerosi libri, tra cui Our Endangered Values: America’s Moral Crisis e Faith: A Journey for All.

Seguire Gesù mentre si occupava una carica pubblica non poteva significare allora imporre standard cristiani per legge. Per Carter, doveva significare agire con integrità e con sollecitudine per tutte le persone. E se la nazione si fosse rivolta a Dio, allora il frutto di questa conversione non sarebbe stato necessariamente quello di leggi contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso o contro l’aborto. Sarebbe stato, al contrario, un dedicarsi “alla risoluzione delle controversie con mezzi pacifici” e un impegno per “libertà e per i diritti umani” a favore degli altri, incluso, e in particolar modo, i diritti delle donne che, secondo lui, troppi evangelici conservatori ignoravano.

La fede di Carter appariva più funzionale al protestantesimo storico che non all’evangelicalismo americano di fine XX o di inizio XXI secolo, e gli evangelici non avevano torto quando rilevavano questa differenza. Ma Carter è rimasto un battista per tutta la vita in quanto credeva in una conversione frutto della nuova nascita, in una relazione personale con Gesù e nella necessità di condividere la propria fede con gli altri. Parlava sempre di fede con un accento evangelico e, nonostante le sue differenze rispetto ai cristiani più conservatori, nutriva un amore per lo stesso Salvatore.

Nell’ottica della storia, e grazie al periodo più lungo di una post-presidenza americana, queste somiglianze sono forse più facili da vedere oggi di quanto non lo fossero nel 1980. La determinazione di Carter a estendere l’amore di Gesù è stato il miglior riflesso del Sermone sul Monte di quanto non si rendessero conto i suoi critici evangelici.

Daniel K. Williams insegna American history presso la Ashland University ed è autore di The Politics of the Cross: A Christian Alternative to Partisanship.

L’articolo L’evangelicalismo di Jimmy Carter proviene da DiRS GBU.

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(di Giacomo Carlo Di Gaetano)

  1. Il dialogo è parte integrante della missione e della proclamazione del vangelo
    Manifesta virtù cristiane (ascolto e attenzione) e non è espressione della mollezza o della debolezza postmoderna né tanto meno di uno scivolamento verso forme di religionismo o ecumenismo (Col. 4:6; Gc 1:19; Rom 12:18)
  1. Dialogo nella verità
    È impensabile un dialogo in cui il cristiano rinunci alle verità proclamate da Gesù o rinunci alla testimonianza cristiana in quanto ciò significherebbe rinunciare al proprio essere cristiani (Gv 14:6; Rom 1:16–17, 2:16; 2 Tm 3:16–17; Eb 4:12–13; Gv 17:17).

«I cristiani che hanno una posizione dottrinale chiara hanno buone opportunità nel dialogo [p.es. con i musulmani], poiché un convinto fedele musulmano parlerebbe di buon grado più con un cristiano convinto che con un cristiano cosiddetto “liberale” che non conosce la sua fede o con un ateo» (Schirmacher, p. 75).

  1. Dialogo e fondamentalismo
    Le verità fondamentali del cristiano devono essere ricondotte in ultima analisi alla persona e all’opera di Gesù. Nel dialogo i nostri interlocutori non incontrano Gesù ma semplici testimoni. Per questo le verità fondamentali non coincidono con il fondamentalismo, termine utile più a fotografare forme e comportamenti degli individui piuttosto che verità da comunicare.
  1. Nel dialogo, oltre alla Verità, l’Amore
    Il dialogo ha due facce: da un lato c’è l’approccio critico verso le posizioni altrui (Paolo e i suoi sentimenti ad Atene) dall’altro c’è il desiderio di condurre lo stesso dialogo con mansuetudine e rispetto (At 17:16 e 22; 1 Pt 3:15–16)
  1. La dignità dei dialoganti
    La verità e l’amore nel dialogo sono possibili solo presupponendo la pari dignità degli interlocutori. A tal fine il cristiano si impegna a non nascondere o camuffare ciò in cui crede ma anche a non disdegnare la condizione di “credente” dell’interlocutore.«Nel dialogo ci facciamo reciprocamente partecipi della nostra umanità, con la sua dignità e la sua degradazione, ed esprimiamo la nostra comune sollecitudine per questa umanità» (Stott, p. 86)
  2. Il dialogo è tra due esseri umani
    Nel dialogo il nostro interlocutore non sta interagendo direttamente con Dio ma con altri esseri umani che hanno fatto una particolare esperienza di e con Dio.

«I cristiani desiderano che le persone trovino pace con Dio, ricevano il perdono e credano che solo in Dio c’è la verità. Ma queste stesse persone non hanno peccato contro di noi e non devono inginocchiarsi davanti a noi per essere giustificate. Noi stessi non siamo coloro che hanno la verità in tutto e che in ogni cosa che dicono professano sempre la verità. I cristiani non sono onnisapienti» (Schirmacher, p. 74)

«Il mio interesse non è mai diretto al buddismo ma a una persona vivente e al suo buddismo; non stabilisco mai un contatto con l’Islam, ma con un musulmano e il suo maomettismo» (J.H. Bavink, in Stott, p. 85)

  1. Dialogo e “diritti” dei dialoganti.
    Nel cristianesimo i diritti non derivano dal fatto di essere cristiani ma dal fatto che siamo creati a immagine di Dio. Ci sono religioni che accordano diritti unicamente ai propri fedeli. Solo nel cristianesimo si concepisce l’idea di operare e implementare i diritti di tutti, incluso di coloro che sono contro il cristianesimo.
  1. Dialogo e identità
    Il dialogo per i cristiani non discende dal fatto che siamo chiamati a proclamare l’amore di Dio (mandato evangelistico) ma dal fatto di sapere che siamo dei peccatori perdonati.
    I nostri interlocutori devono riconciliarsi con Dio e non con noi. Dunque, è importante che nel dialogo non si dia l’impressione di voler conquistare qualcuno alla nostra causa, enfatizzando la nostra identità religiosa (cristiani vs musulmani; evangelici vs cattolici, etc.).
    Le identità devono essere ridimensionate a causa dell’eccellenza di Gesù Cristo (Fil 3).
  1. Modelli di dialogo
    Dall’insegnamento delle Scritture possiamo estrapolare diversi modelli. Due in particolare possono rivelarsi utili.
    Il primo modello ci impone una scelta: le preghiere del pubblicano e del peccatore (Lc 18:1–13).
    Il secondo ci suggerisce una strategia: il dialogo di Gesù con la donna “samaritana” (Gv 4). Dove bisogna adorare, a Gerusalemme o a Samaria? La risposta di Gesù rileva il fatto che sebbene si possa pensare a una preminenza di una località (la salvezza viene da Sion) tuttavia ora si adora in modo diverso.
  1. Dialogo e cose in comune
    Il dialogo (p.es. con i musulmani) verterà sulle somiglianze tra le due fedi. Allorquando le somiglianze saranno esplorate e condivise, in quel momento, accadrà che un musulmano avrà esaurito i propri argomenti.
    Un cristiano invece inizierà proprio da lì, dalle somiglianze, per rendere la sua testimonianza:«I cristiani non credono semplicemente in un creatore che desidera che facciamo la sua volontà. Piuttosto, credono in un Dio trino la cui seconda persona, Gesù Cristo, ha compiuto la salvezza per il mondo: egli ha conseguito la salvezza per il mondo in quanto l’umanità non è capace di liberarsi dalla colpa dell’ingiustizia. Sono proprio queste le cose indispensabili per i cristiani e queste non appaiono nella lista delle somiglianze tra l’Islam e il Cristianesimo» (Schirmacher, p. 76).

 

Breve bibliografia

  1. J. Stott, Missione cristiana nel mondo moderno
  2. T. Schirmacher, The Koran and the Bible
  3. A. Bannister, Musulmani e cristiani adorano lo stesso Dio?
  4. E. Shehadeh, Dodici discepoli nella Casa dell’Islam
  5. M. Volf, Contro la marea

L’articolo 10 considerazioni per un dialogo all’insegna del vivere e confrontarsi con … proviene da DiRS GBU.

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Di Cristiano Meregaglia, Staff GBU Milano.

L’articolo è la sintesi del seminario che lo stesso Cristiano ha proposto ai coordinatori durante la Formazione GBU (ndr)

Imagine there’s no heaven / It’s easy if you try / No hell below us / Above us only sky / Imagine all the people / Living for today… / Imagine there’s no countries / It isn’t hard to do / Nothing to kill or die for / And no religion too / Imagine all the people / Living life in peace…

Lennon, John. Imagine

Così cantava John Lennon nel 1971, auspicando un tempo in cui le persone potessero vivere, finalmente, solo per l’oggi, senza essere oppresse dal pensiero di un paradiso o un inferno che si schiudessero loro davanti al momento del trapasso. Un mondo in cui non ci fossero nazioni e religioni, contrapposte le une alle altre, ad impedire una pace altrimenti possibile.

Certo, seppur a distanza di più di 50 anni, queste parole e questi auspici sono ancora presenti, e forti, nella società in cui viviamo. Parole che sembrano suggerire che la fede è non solo razionalmente insostenibile, ma anche moralmente dannosa. Pertanto, la società risulterebbe molto più funzionale se, da essa, si sradicasse ogni radice religiosa.

Il “nuovo” ateismo

Tutto ciò è stato sostenuto, in modo esplicito, dai principali esponenti del cosiddetto movimento del New Atheism. Questi hanno dedicato lunghe pagine a descrivere, senza mezzi termini, i grandi mali che la religione ha prodotto nella storia. Dalle crociate alla Jihad, dalle guerre di religione ai regimi teocratici contemporanei, questi intellettuali hanno messo bene in evidenza come la soluzione per un mondo migliore sembri essere proprio quella prospettata dal cantante dei Beatles.

È interessante notare, però, che, sebbene questi autori vengano appellati come nuovi atei, le tesi che sostengono sono tutt’altro che nuove. Esse sono infatte desunte, a tutti gli effetti, dalle riflessioni di pensatori del passato. Tra questi pensatori del passato è impossibile ignorare Bertrand Russell. Con la raccolta di saggi confluiti nel testo Perché non sono cristiano, Russell rappresenta, a tutti gli effetti, un riferimento normativo per buona parte della letteratura prodotta in seno al nuovo ateismo. 

La religione: una malattia da estirpare

In uno di quei saggi, intitolato “La religione ha contribuito alla civiltà?”, infatti, Russell espone proprio quelle tesi che, decadi dopo, Dawkins, Hitchens, Harris, Odifreddi, Augias e altri intellettuali contemporanei continuano a proporre per sostenere il danno prodotto dalla religione. Nella fattispecie, Russell sostiene che la religione sia «una specie di malattia, frutto della paura e fonte di indicibile sofferenza per l’umanità». Questo sostanzialmente per due motivi che hanno a che fare con la sfera intellettuale e con quella morale. Infatti, da un lato la religione impedisce il libero pensiero e la libera indagine razionale; dall’altro imponendo una morale, ritenuta assoluta e ancorata a concetti arcaici, produce i conflitti alla base dell’infelicità umana. Così, infatti, si esprime a conclusione del suddetto saggio:

«Con il progresso del sapere e della tecnica, la felicità universale può essere raggiunta; ma il principale ostacolo alla loro utilizzazione per tale scopo è l’insegnamento della religione. La religione impedisce ai nostri figli di ricevere un’educazione razionale; la religione ci impedisce di rimuovere le cause fondamentali delle guerre; la religione ci impedisce di insegnare l’etica della collaborazione scientifica in luogo delle vecchie, aberranti, dottrine di colpa e castigo. Forse l’umanità è alla soglia di un periodo aureo; ma per poterla oltrepassare sarà prima necessario trucidare il drago di guardia alla porta: questo drago è la religione».

Russel, B. “Perché non sono cristiano”, Longanesi & C., Milano, 1960, p.24

Ora, per quanto mordenti siano tali critiche, è utile sottolineare che è lecito, e forse doveroso, essere d’accordo con alcune delle istanze presenti nel saggio. È indubbio, infatti che diverse persone, reclamanti il nome di cristiani (o di altre religioni), nel corso della storia, abbiano compiuto azioni effettivamente riprovevoli, spesso abusando della posizione sociale fornita loro dalla religione; ed è altrettanto condivisibile l’insistenza sulla necessità di rifiutare una fede acritica, che non sia consapevole di ciò che crede e del perché lo creda.

Stante ciò, però, è anche necessario indicare come tali critiche, in verità, si espongano a delle forti contro-obiezioni, le quali possono essere articolate secondo tre linee di risposta.

1. Ciò che Cristo predicava e l’impatto sulla società

Innanzitutto è facilmente dimostrabile come il cristianesimo vero, quello incarnato e predicato da Gesù Cristo stesso, sia radicalmente diverso dalle altre religioni e, in molti casi, dalla rappresentazione che di esso ne hanno fatto i cristiani. Il vero cristianesimo, infatti, lungi dall’essere fonte di violenza, ha alla propria radice la persuasione attraverso la contrizione interiore, piuttosto che la costrizione esteriore tramite l’uso della forza. Non è un caso, perciò, che, quando Gesù, a poche ore dalla sua condanna a morte, si trovò nel Getsemani e Pietro provò a difenderlo con le armi dai suoi nemici, non solo ordinò al suo discepolo di riporre la spada nel fodero, ma guarì anche il servo del sommo sacerdote che era stato ferito proprio da quella spada (Mt 26:51-52; Lc 22:51)

È facile mostrare, inoltre, che il vero cristianesimo non solo non è causa di male per la società, ma che, piuttosto, la società intera ha beneficiato dell’influsso del cristianesimo, il quale ha generato ospedali, croce rossa, orfanatrofi, università… al punto che un giornalista ateo ha potuto scrivere, su The Times, che, in Africa, il contributo che l’evangelismo ha dato per il progresso della società è stato di gran lunga superiore a quello fornito da qualunque altra organizzazione, governativa o meno che fosse (M.Parris, The Times, 27.12.2008).

2. Una società che vuole liberarsi di Dio

In secondo luogo, si può, altrettanto facilmente, mostrare come una società in cui Dio sia rimosso si apra alla possibilità di qualunque violazione e sopruso da parte dei più potenti, proprio perché si rimuove il presupposto secondo cui si debba rendere conto delle proprie azioni davanti ad un Dio giusto. Di tali situazioni il XX secolo abbonda di esempi, dalla Russia di Stalin, alla Cina di Mao, alla Cambogia di Pol Pot. Il premio Nobel per la letteratura Solzhenitsyn, a riguardo, affermava che «se si chiedesse oggi di formulare nella maniera più conscia possibile la causa principale della rovinosa Rivoluzione che ha inghiottito 60 milioni di persone del nostro popolo, non potrei essere più accurato nel dire: gli uomini hanno dimenticato Dio; ecco perché è accaduto tutto ciò» (A. Solzhenitsyn, Templeton Prize Address, 1983).

3. Fallacia argomentativa

Si può, infine, evidenziare come proprio i principi in base ai quali oggi si critica la religione sono principi cristiani, principi che non ci sarebbero se non ci fosse stata la rivoluzione culturale prodotta da Gesù e dal conseguente cristianesimo. La libertà, l’uguaglianza, il progresso, la scienza, la pace che sembrano essere messi in dubbio, nella società, dalla religione, sono, in verità, nient’altro che il prodotto del cristianesimo, e noi ne siamo così immersi che sono come l’aria che respiriamo (cfr. G. Scrivener, The air we breath, Introduzione).

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

È uso ormai da qualche decennio, in Italia, che il 31 ottobre sia una data in cui la ricorrenza, convenzionale, dell’inizio della Riforma protestante (1517) venga segnalata da una serie di iniziative. Le iniziative sono in crescita, sotto la rubrica di vari slogan che coinvolgono la memoria ma anche l’attualizzazione e la realtà del senso della Riforma protestante.

Un clima del genere, sebbene attenga, per il momento, all’enclave evangelico e protestante, non può che essere positivo per un contesto storico e ideale come quello italiano dove abbiamo nell’archivio dell’identità nazionale il passaggio sulla “Riforma mancata” di Piero Gobetti (1901–1926).

Alla precarietà ed esiguità del recupero della memoria (che è comunque un fatto positivo, lo ribadiamo) si aggiunge anche la constatazione che un tale recupero risente delle varie anime del mondo evangelico che mettono in campo sguardi retrospettivi diversi sulla Riforma. Agli estremi abbiamo lo sguardo quasi agiografico di chi “inventa” una Riforma fatta di eroi a quello più ponderato dell’analisi storica (che è quello a cui ci sentiamo più vicini).

Ma questa pluralità degli approcci al fenomeno riformistico del 1500 e a ciò che significa nell’oggi, fa emergere un tema suggestivo che cercherei di esplicitare in questo modo: in che modo il “pensare” storico (che è memoria, rievocazione, ricordo, etc.) può e deve beneficiare esso stesso di alcuni principi che la Riforma ha introdotto nella storia e nella sensibilità dell’Occidente? Se la Riforma è stato quell’evento che ha riproposto la centralità della Bibbia per tutte le aree dell’esistenza, in che modo questa centralità condiziona lo stesso approccio alla storia?

 

Ci sarebbero diversi percorsi che potrebbero intraprendersi e questa riflessione non è altro che uno spunto. L’area coperta dalle riflessioni storiografiche è amplissima e abitata da tanti luminari che hanno segnato la stessa coscienza occidentale.

Proviamo però a fare questo esercizio.

La prima proposta concerne l’evento storico della Riforma in sé e per sé. Dobbiamo fale nostra la constatazione, che orami è acclarata, che forse sarebbe più corretto parlare di vari rivoli della Riforma, di “riforme”, non sempre sovrapponibili. Personalmente metterei tra parentesi, in questa piccola riflessione “evangelica”, l’interrogativo se la Controriforma sia essa stessa una Riforma.

Quando parliamo di Riforma “protestante”, infatti, abbiamo tra le mani un materiale estremamente variegato e plurale per dinamiche temporali (basti pensare alle differenze tra l’Europa del 1517 e quella della Notte di San Bartolomeo, 1572), per fenomeni sociali (da Enrico VIII alla rivolta dei contadini), per sensibilità culturali e teologiche, e così via.

Forse, il segno più forte, più marcato della pluralità e perfino dell’eterogeneità della Riforma è dato dalla distinzione che si va sempre più affermando e chiarificando tra Riforma Magisteriale (che si affida al magistrato – leggi Lutero e Calvino) e Riforma Radicale.

Se si vuole capire che cosa ha realmente prodotto la stessa riscoperta riformistica di Lutero (la giustificazione per fede), la pedagogia catechistica di Calvino e gli esperimenti ecclesiastici di Zwingli non bisogna solo guardare alla lunga e orribile sequela della repressione controriformistica. Bisogna guardare al coraggio che ebbero gli Anabattisti di portare la Riforma agli estremi, con il gesto eclatante del battesimo degli adulti. La Riforma non doveva fermarsi all’ambito della teologia e divenire poi scolastica e poi ancora guerra di religione, doveva toccare il cuore dell’esperienza cristiana: il modo di essere chiesa secondo il Nuovo Testamento e l’impatto che questo doveva avere nella società, nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra cultura e fede.

La Riforma del pensiero storico (e delle celebrazioni) che guarda alla Riforma passa dal riequilibrio e dalla riscoperta della Riforma radicale. Il 1525 (anno in cui si registrarono i primi battesimi degli adulti) deve essere affiancato al 1517, con buona pace di Lutero, e Calvino, che avevano in orrore il coraggio degli Anabattisti fino al punto di perseguitarli!

 

C’è un secondo punto, ideale, in questa «riforma del pensare storico». Esso concerne l’epicentro da cui tutto si propagò. Sicuramente si trattò della Bibbia, del sola Scriptura – a questa proposito, e a beneficio di questa riforma del pensare storico, dobbiamo ricordare che i cinque “SOLA” non vennero dalla scrivania di Lutero o di Calvino, così tutto di un botto, ma furono il frutto anch’essi di una riflessione, guarda caso, storica!

Ma dietro e dentro il sola Scriptura agiva il principio umanistico del ritorno alle fonti (ad fontes). Lo scrive molto semplicemente Giancarlo Rinaldi nel suo Breve profilo di storia del cristianesimo. Dalla Riforma a oggi: «La parola d’ordine circolante tra gli umanisti era “tornare alle fonti”; questa stessa formula la ritroveremo anche tra i riformatori desiderosi di tornare alla Bibbia quale fonte, unica, della verità per il cristiano» (p. 19).

Una «riforma del pensare storico» deve dunque preoccuparsi di guardare alla Riforma con l’acribia dell’umanista del ‘500.

Non deve accontentarsi delle tradizioni che incapsulano il passato. Queste tradizioni, che possono essere di ordine confessionale (p.es. luteranesimo, calvinismo, anabattismo, etc.) appaiono, soprattutto oggi, di ordine puramente ideologico e hanno un evidente risvolto di politica ecclesiale. Almeno in due direzioni: accentuare, sul piano della memoria – perché è di questo che parliamo – il solco della contrapposizione tra i cosiddetti “evangelicali” e cosiddetti “liberali”; in secondo luogo, affermare una leadership intellettuale nei confronti di un evangelismo che per il fatto di concepirsi (o essere etichettato) come “fondamentalista” e “pentecostale”, di per sé ha bisogno di una educazione teologica che includa anche la formattazione della memoria.

Se vogliamo essere fedeli allo spirito riformistico, dobbiamo tornare alle “fonti” della Riforma. L’umiltà e l’entusiasmo umanistico che si immerge nel mare delle fonti storiche può essere una panacea per chi da un lato vuole leggere nella Riforma le dinamiche contemporanee ma anche per chi vuole costruire un’età dell’oro da contrapporre al dominio del Cattolicesimo. Ma anche per chi potrebbe erroneamente sentirsi senza un album di famiglia.
Su tutti noi evangelici italiani incombe l’intuizione ottocentesca: nel mentre si accumulavano “fonti” relative ai fatti di religione della penisola, incluso quelle sulla diffusione della Riforma in Italia, si interpretava lo stesso spirito riformistico con un sonoro quanto sorprendente: “non siamo né protestanti né cattolici”.

 

Il terzo elemento di una riforma del pensare storico deve riguardare il racconto della storia nel presente. Perché celebriamo il 31 ottobre? Che cosa ci muove veramente? Qui la «riforma del pensare storico» deve per forza di cose prendere una strada “biblica”. Possiamo imparare da Ebrei 13:7–9

7 Ricordatevi dei vostri conduttori, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio, e, considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede.
8 Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno. 9 Non vi lasciate trasportare qua e là da diversi e strani insegnamenti; perché è bene che il cuore sia reso saldo dalla grazia

Una straordinaria sintesi di un’autentica riforma della memoria.
Il ricordo, la celebrazione sono in funzione dell’esaltazione (soli Deo gloria) dell’unica realtà che trascende il tempo, anche il tempo della storia, vale a dire Gesù Cristo, il Risorto, il Vivente (solus Christus).

Ed è solo questa esaltazione, nel fluire delle generazioni, e delle epoche storiche, che ci permetterà da un lato di stare fermi nella grazia (sola gratia) e dall’altro lato di ringraziare per gli esempi del passato che vanno considerati nella loro umanità (considerando la loro fine – incluso i loro errori?) e di prendere ciò che ci lasciano, la fede, che è la cosa che possiamo manifestare qui, oggi, anche il 31 ottobre del 2024, poiché è la nostra fede, non quella di Lutero e Calvino (sola fide)!

L’articolo La Riforma del “pensare” storico proviene da DiRS GBU.

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di Sharon Fichera, coordinatrice GBU Bologna

Ciao a tutti! Mi chiamo Sharon, ho 20 anni e sono siciliana. Sono anche bolognese di adozione, da quando mi sono trasferita nella capitale dei tortellini per studiare Lettere Classiche. Amo Gesù e amo parlare di Lui, e proprio per questo, quando ho conosciuto il GBU me ne sono innamorata e mi sono unita al gruppo di studenti a Bologna.

Quest’anno ho partecipato alla Formazione per coordinatori, che si è tenuta a Rimini a inizio ottobre. Brevemente, la Formazione prepara giovani leader per essere un supporto al GBU a livello locale. Inutile dire che Dio ha lavorato in me più di quanto mi potessi aspettare, e per questo voglio raccontarvi la mia esperienza.

Il programma si è sviluppato seguendo tre filoni: 

Bibbia e Preghiera

Abbiamo approfondito la conoscenza delle Scritture e il nostro rapporto con Dio tramite studi biblici induttivi (SBI), preghiera, lode e prediche. In questo track abbiamo studiato i capitoli 8-10 di Marco. Ciò che mi ha colpito è stato vedere il continuo gioco di potere intrinseco nell’animo umano. Gesù cercava di insegnare ai discepoli che dovevano sacrificare sé stessi ogni giorno, amare e servire gli altri con disinteresse, smetterla di cercare di guadagnarsi la vita eterna con i propri sforzi e accettare l’amore di Dio. Loro invece si comportavano con arroganza, non capivano gli insegnamenti di Gesù e credevano di essere superiori agli altri, oltre che a fare a gara tra loro stessi su chi fosse il maggiore. Gesù cercava di insegnare loro cosa fosse la vera grandezza, ma loro (e spesso anche noi) avevano un cuore duro. 

Coordinatori

Questo track era pensato per farci apprendere chi un coordinatore deve essere e cosa deve fare per dare il giusto apporto al GBU locale e alla missione nell’università. È stato bello concentrarci anche sulle nostre potenzialità e quelle dei nostri gruppi GBU. Ciò che mi ha colpito di più è stato imparare cosa voglia dire essere coordinatori maturi. La definizione che abbiamo dato di maturità spirituale è “Crescita costante, coerente e consapevole in Cristo”. Per camminare in questa crescita è necessario morire a sé stessi, accettare la sofferenza, abbracciare il sacrificio e la croce, consapevoli che tutto ciò lo si attraversa per una gioia e una gloria più grandi, ovvero la proclamazione del vangelo e l’avanzamento del Regno di Dio.

Evangelizzazione

Con questo track ci siamo concentrati su condividere Gesù da studente a studente, sia individualmente che come gruppo locale. Mi è piaciuto molto un seminario dal titolo “La fede è dannosa (?)”, in cui abbiamo letto alcune delle critiche mosse al cristianesimo nel corso della Storia e della Filosofia. Ho trovato utile e stimolante ricevere degli strumenti per controbattere a queste critiche. Inoltre, è stato molto interessante notare come molte persone non siano indignate o in collera a causa di Dio, ma a causa di ciò che la Chiesa ha fatto in nome di Dio. Questo mi ha sfidato ad essere un buon esempio per chi mi circonda e a onorare Cristo in ogni cosa che faccio.

Ma la Formazione, a livello pratico, a cosa è servita?

Personalmente, la formazione mi ha incoraggiata e sfidata ad avere consapevolezza del mio ruolo come coordinatrice, a servire gli altri, a sacrificare me stessa per Cristo, a vivere una vita di preghiera, a cercare il volto di Dio, e a diffondere il vangelo senza vergogna. Sono sicura che tutti noi presenti lì abbiamo ricevuto una grande spinta a lavorare nei nostri GBU, per i nostri GBU e con i nostri GBU, per condividere Gesù da studente a studente.

A questo punto rimane una sola domanda, implicita, a cui rispondere: “Qual è la vera grandezza?”

Per scoprirlo basta guardare a Gesù, il più grande Re che abbia calpestato la Terra, il servo che lavò i piedi ai suoi discepoli.

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(Vivere e confrontarsi con l’Islam)


Francesco Maggio
è impegnato da molti anni in un servizio (ministero lo chiamiamo in gergo evangelico) di testimonianza ai musulmani. Ha fondato la SCAI, Scuola di Apologetica e Islamistica

 

Francesco, raccontaci un po’ del tuo ministero verso i musulmani; che cosa fai nei loro confronti e come è nata questa vocazione.

Durante la mia crescita nella fede cristiana ho iniziato a dialogare con i musulmani nel tentativo di condividere il messaggio del Vangelo. Tuttavia, senza un’adeguata preparazione, mi sono presto accorto che non riuscivo a portare avanti la mia testimonianza in modo efficace. Questo è un problema che accomuna molti di noi: ci troviamo spesso impreparati quando si tratta di affrontare un confronto di questo tipo. Nei nostri scambi con i musulmani la conversazione spesso prende una piega critica nei confronti di Gesù Cristo, della Trinità, della Sua divinità e delle Sacre Scritture. I musulmani tendono a mettere in discussione le nostre credenze e ciò che è scritto nella Bibbia. Basta parlare con un musulmano per accorgersene. Inoltre, il Corano stesso contiene diversi passaggi che criticano apertamente pagani, cristiani ed ebrei. La polemica sembra essere parte integrante del loro modo di confrontarsi. Mi accorgevo così che avevo bisogno di una preparazione da acquisire presso una scuola biblica focalizzata sull’evangelizzazione tra i musulmani. Abbiamo scuole bibliche che ci preparano per rispondere e per testimoniare ai mormoni, ai testimoni di Geova, agli atei ma non trovavo una scuola biblica che insegnasse a testimoniare e a rispondere ai musulmani. Per questo andai a Londra per la mia formazione missiologica. Sono passati ormai 32 anni.

 

In che modo, sinteticamente, pensi che si debba cercare un approccio con vicini e amici musulmani per parlare loro del vangelo?
Le mie riflessioni nel corso del tempo sono state le seguenti: per un approccio con i vicini e amici musulmani per parlare loro del Vangelo è essenziale partire da un atteggiamento di profondo rispetto e amicizia. Nell’evangelizzazione, infatti, il metodo più diffuso è il rapporto di amicizia, un rapporto in cui introdurre gradualmente il messaggio del Vangelo

È importante ricordare che non stiamo cercando di “vincere una discussione” o imporre le nostre convinzioni, ma piuttosto di condividere la nostra esperienza di fede in modo genuino e amorevole.

Un buon punto di partenza è allora essere disposti ad ascoltare. Spesso, la migliore apertura è mostrare interesse per le loro esperienze religiose (semplici domande, come perché pregate 5 volte al giorno, e altre domande). Questo crea un terreno fertile per un confronto sincero sul quale entrambi possono esprimersi senza sentirsi giudicati. Durante la conversazione, personalmente, cerco di testimoniare la mia fede in modo chiaro, semplice e personale. Spiego cosa significa per me il vangelo: non come un insieme di regole, ma come la storia di Dio che in Cristo mi ha cambiato la vita e mi ha assicurato la salvezza secondo i meriti di suo Figlio.

Cerco di dire loro che il vangelo è più di un messaggio religioso; è una relazione viva con Gesù, fonte di salvezza eterna. Credo dunque che ognuno debba raccontare il modo in cui la propria vita è stata trasformata e come si continua a sperimentare il suo perdono e la sua grazia ogni giorno.

È anche importante ricordare di non diluire il messaggio per cercare di compiacere. Siamo chiamati a essere onesti riguardo alla verità del vangelo, anche se può essere difficile o sfidante. Come dice 1 Pietro 3:15, dobbiamo essere sempre pronti a dare una risposta riguardo alla speranza che è in noi, ma farlo con gentilezza e rispetto.

Molto spesso, i musulmani convinti si presentano come sfidanti, tendendo a trascinare gli interlocutori in polemiche contro la Verità. Come dicevo, generalmente non siamo preparati né abituati a rispondere loro, e spesso ci ritroviamo a fuggire dal confronto. Tuttavia, possiamo trovare ispirazione dai profeti e dai servitori di Dio nelle Scritture.

Pensiamo, ad esempio, al profeta Elia, che affrontò i profeti di Baal. Elia scelse di rimanere saldo sul terreno della Verità e dimostrò un potente segno del potere di Dio. Allo stesso modo, il profeta Geremia si trovò spesso di fronte a falsi profeti, e rimase fermo nella proclamazione del messaggio di Dio.

Anche Gesù affrontò i Farisei, i quali cercavano continuamente di metterlo in difficoltà con domande insidiose, simili alle sfide che spesso ci pongono i musulmani convinti. Gesù rispose sempre con saggezza, non cadendo mai nelle trappole.

Mi viene in mente anche l’apostolo Paolo, che a sua volta si confrontò con i filosofi di Atene. Paolo non cercò di polemizzare, ma di spiegare la Verità con pazienza e chiarezza. Egli studiò la loro narrativa e le loro credenze, basate sulle idee di poeti e profeti precedenti, e utilizzò questa conoscenza per costruire un ponte verso il Vangelo.

Mi sono dunque accorto che per raggiungere efficacemente i cuori dei musulmani è fondamentale abbandonare metodi ormai superati. Il nostro uditorio, i nostri amici, oggi sono musulmani di seconda e terza generazione; nei nostri atenei sanno come spiazzare forbitamente e filosoficamente gli argomenti biblici. Usano diverse e scientificamente raffinate argomentazioni, differenti da quelle utilizzate dai loro padri. I musulmani di oggi sono universitari, avvocati, professori, ingegneri, laureandi, sono persone di cultura.
I nostri giovani credenti universitari li incontrano ogni giorno. Alcuni di questi musulmani di seconda e terza generazione sono divenuti anche personalità politiche.
Il nostro obiettivo deve essere quello di permettere al messaggio del Vangelo di penetrare profondamente nelle anime di chi lo ascolta, distinguendolo dalle sterili discussioni verbali e dalle polemiche. È essenziale riportare il Vangelo al suo giusto posto, ponendolo al centro del dialogo.

Ma chi di noi è in grado di trasmettere questo messaggio in maniera chiara e incisiva in pochi minuti?

Infine, è fondamentale avere pazienza e fiducia nel fatto che non siamo noi a cambiare i cuori, ma solo Dio può fare questo miracolo. La nostra responsabilità è seminare con amore e verità, pregando affinché sia lo Spirito Santo a operare nelle vite delle persone, recipienti possibili della svariata Grazia di Dio.

Il successo non si misura dalle conversioni immediate, ma dall’onestà e dall’amore con cui riusciamo a riflettere Cristo.

 

Ritieni che oltre alla spinta evangelistica sia lecito e giusto per i cristiani evangelici impegnarsi, insieme ai musulmani, per capire in che modo poter convivere pacificamente tra di loro in una stessa comunità sociale?

È essenziale affermare che per i cristiani evangelici la Verità è unica e si trova nella Bibbia, e questa verità non può essere alterata o compromessa in alcuna circostanza. Detto questo, è non solo possibile, ma anche giusto impegnarsi con i musulmani per esplorare insieme come convivere pacificamente all’interno della stessa comunità sociale. La convivenza pacifica non richiede di rinunciare alle nostre convinzioni di fede in Cristo, ma piuttosto ci chiama a vivere e testimoniare la nostra fede con autenticità, chiarezza e amore.

Il mio obiettivo è sempre quello di mostrare l’amore di Cristo, anche a musulmani che hanno convinzioni religiose fortemente polemiche. Questo amore si manifesta attraverso il rispetto scendendo sul livello della loro offensiva non per vincere gli argomenti ma renderli ubbidienti alla Verità e per aprire il cuore dei musulmani polemisti al Vangelo, sempre rimanendo fedeli ai principi biblici.

In 2 Corinzi 10:5*, è scritto: “Noi distruggiamo i ragionamenti e ogni altezza che si eleva contro la conoscenza di Dio, e facciamo prigioniero ogni pensiero fino a renderlo ubbidiente a Cristo.”

Nello stesso tempo come dice la Scrittura: “Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini” (Romani 12:18).
Siamo chiamati a cercare la pace e la convivenza, contribuendo al benessere della comunità senza mai compromettere la verità in cui crediamo.

Francesco Maggio terrà un Seminario al 17° Convegno Studi GBU dal titolo: Gesù di Nazaret e Maometto: vite parallele?

L’articolo Tre domande a Francesco Maggio proviene da DiRS GBU.

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CONFRONTARSI

Durante il decennio segnato dall’attivismo dei nuovi atei (oggi si registra un riposizionamento di questi filosofi o scienziati su posizioni che potremmo definire di “ateismo cristiano” o di “cristianesimo ateo”, che è tutto dire …) è andata in scena una particolare modalità di confronto, quella del dibattito/duello tra “campioni”. Un campione della fede cristiana e un campione della posizione opposta, per lo più “atea”. Ma non sono mancati duelli con esponenti di altre religioni. Sicuramente il nome più blasonato per questo tipo di confronto è stato quello di John Lennox. Su You Tube si trovano una lunga serie di dibattiti del matematico di Oxford con i principali esponenti del nuovo ateismo. Ma non sono mancati degli emuli nostrani! Abbiamo anche avuto ministeri che si sono specializzati in questo tipo di confronto: penso per esempio a Veritas Forum.
L’idea che soggiace a questi esperimenti è quella di segnare la presenza della testimonianza cristiana in uno spazio pubblico, come per esempio un’aula universitaria, non certamente con l’intento di convincere l’avversario (potrebbe anche accadere, naturalmente, tutto è possibile) quanto piuttosto quello di gettare un seme negli ascoltatori per quanto attiene la rispettabilità (John Locke avrebbe detto “ragionevolezza”) del cristianesimo.

Si potrebbero evocare altri esempi storici di “confronto”. Penso per esempio alle antiche assemblee germaniche del basso medioevo (le diete) che divennero protagoniste della diffusione sociale delle idee della Riforma (la Dieta di Worms, per esempio). Si trattava di passaggi giuridici e pubblici nei quali un’intera popolazione cittadina poteva poi determinarsi ad accogliere la Riforma, o a rigettarla (accadde così in molte città libere, tra cui Ginevra); oppure contesti in cui c’era un confronto istituzionale tra Papato, Impero e Principi, sempre alla presenza di qualche professore di teologia. Accadeva infatti che ci si trovava tra i piedi un Lutero, un Calvino, piuttosto che uno Zwingli, etc.

Confronti–duello. Sicuramente benedetti ma che si staccavano e si staccano dal tessuto in cui è calata la vita dei protagonisti e soprattutto degli ascoltatori. Si tratta di confronti tra idee, molto spesso tra “ismi” (Cristianesimo vs Ateismo), senza nulla togliere alla bravura e alla capacità dei protagonisti (e penso in particolare a Lennox) di cercare di riportare il confronto sempre sui temi legati alla vita tutta intera e non solo alla vita della mente (vedi Vivere e confrontarsi con … Vivere).

Il confronto a cui alludiamo, al contrario, parte proprio dal contesto vitale.
Questa fondamentale differenza è espressa molto bene da un pensatore olandese a cui spesso si fa riferimento come a un campione di dogmatica e di teoria teologica (Herman Bavinck). La citazione è tratta da un piccolo libro capolavoro di John Stott (Missione cristiana nel mondo moderno), in cui Stott analizza quattro parole relative alla missione cristiana, tra cui spicca la parola dialogo (sicuramente un sinonimo del nostro “confrontarsi con”:

«Il mio interesse non è mai diretto al buddismo ma a una persona vivente e al suo buddismo; non stabilisco mai un contatto con l’Islam, ma con un musulmano e il suo maomettismo» (H. Bavinck sull’elenctica – la scienza che smaschera davanti al mondo pagano tutte le false religioni rivelandole come peccato contro Dio … e chiama il mondo pagano alla conoscenza del vero Dio –, citato in J. Stott, Missione, p. 85).

Ecco che qui troviamo l’incipit del confronto che vorremmo stimolare nella testimonianza cristiana.

Si tratta di un confronto che passa al lato e si distingue anche dagli approcci “identitari” (per esempio gli approcci identitari al cattolicesimo – AIC) in cui si vuole dimostrare che, teologicamente, il protestantesimo è superiore al cattolicesimo, etc.. Negli approcci identitari, colui che si confronta non si confronta mai come persona che incontra un altro tu ma semplicemente come un esponente di una tradizione che invita l’interlocutore a verificare quale sia la tradizione migliore. Diatriba! Questo tipo di diatriba ha un suo retroterra filosofico e teologico di cui ci occuperemo in un altro momento.

Forse si potrebbe dire che il confronto con, quale passaggio interno alla testimonianza cristiana abbia visto negli ultimi 50 anni, almeno per quanto concerne la testimonianza dei cristiani evangelici, una certa oscillazione.
Dalla forma stigmatizzata sempre da John Stott che parlava per gli evangelici della strategia dei “conigli”: si usciva dalla propria tana (si dice confort zone?) per una rapida incursione a suon di proclamazione del vangelo, “sparata” a un uditorio che non conosceva per niente questi interlocutori estemporanei, per poi tornare nella propria tana, vale a dire a disinteressarsi delle cose del mondo.
All’approccio appunto identitario con il quale si è giunti, oggi, a una certa presunzione di superiorità con la quale si vorrebbe mostrare al mondo che noi ci siamo, dobbiamo contare di più, abbiamo le giuste idee espresse con le corrette parole mentre di fronte, e separati da noi senza tema di contaminazioni o ponti di collegamento, ci stanno sistemi di credenze pervasi di confusione. Farebbero bene, questi sistemi, a venire alla nostra scuola. Questo tipo di confronto potrebbe valere nei confronti del cattolicesimo ma anche nei confronti del mondo musulmano. Nel primo caso vanteremmo il blasone della Riforma, nel secondo la superiorità dei valori occidentali (ebraico-cristiani).

Ci sono almeno tre elementi che caratterizzano il confronto che sorge dalla vita (vivere e confrontarsi con …) e che vorremmo sottolineare.

 

  1. Persone che si parlano e parlano di se stesse.

Lo abbiamo letto in Bavinck: un tu incontra un altro tu. Chi mi sta di fronte non è l’Islam ma Mohamed e il singolare modo che egli ha di incarnare il suo credo. È risaputo che l’Islam è un mosaico di culture e tradizioni condizionate da contesti geografici e sociali molti differenziati. Queste culture circondano il nocciolo duro dei cinque pilastri del credo islamico ma non si sovrappongono perfettamente a esso. Per cui l’interlocutore senegalese vive il suo islamismo in maniera diversa da un filippino, da un arabo, o da un convertito europeo.

Questo fa si che, molto spesso, i cristiani che vivono in contesto islamico o che provengono da tale contesto, una volta che approdano alla fede vivente in Gesù, mostrano di non essere principalmente interessati a ripulire le incrostazioni culturali dell’Islam. Ciò permette di dire a Dave Garrison, islamista ed esperto di missione tra i musulmani, che:

«per molti musulmani, l’Islam [inteso come cultura, ndc] è centrale nel modo di vivere della gente. È la loro madre. La loro famiglia. La loro comunità. E non hanno problemi con l’Islam. Ciò che ora vogliono fare è seguire Gesù e amare di più i loro parenti per trascinarli alla fede. Ho trovato pochissime persone che volevano affrontare l’Islam [in quanto cultura]. Sentivano solo che quella era una battaglia secondaria. La vera battaglia era seguire Gesù e diffondere Gesù». (Thimoty C. Morgan, Why Muslims are becoming the best Evangelist, Intervista a Dave Garrison, Christianity Today, https://www.christianitytoday.com/2014/04/why-muslims-are-becoming-best-evangelists/)

Anche per quanto concerne il versante cristiano, in un confronto tra due “tu”, non si parla astrattamente di Cristianesimo ma si parla di che cosa il cristianesimo ha prodotto e sta producendo nelle vite di chi crede e sta parlando; e per converso ascoltiamo quello che il sistema di fede del nostro interlocutore sta producendo nella sua vita e raccontiamo ciò che il cristianesimo sta producendo nella nostra vita.

Questo permette di mostrare il modo in cui il messaggio del vangelo (che naturalmente non scompare dietro il racconto dell’esperienza personale) agisce a livello delle persone; si potrà mostrare che Gesù è una persona vivente. E potremo ascoltare e individuare i punti in cui il credo del nostro interlocutore manifesta dei vuoti.

La vita, il “vivere con”, diviene dunque la condizione di possibilità per un confronto di questo genere. Emil Shehadeh, oratore del Convegno Studi di quest’anno, nel suo lavoro di analisi delle dinamiche di conversione dal mondo islamico, trova che l’amicizia sia la dinamica più efficace. Quella ricercata maggiormente dagli stessi convertiti dall’Islam.

 

 

  1. Metto in gioco la mia identità

«Fino a che rido delle sue sciocche superstizioni, lo guardo dall’alto in basso; non ho ancora trovato la chiave per entrare nella sua anima. Ma non appena capisco che ciò che egli fa in modi notevolmente ingenui e fanciulleschi, pure io lo faccio più e più volte sotto una diversa forma, non appena mi pongo accanto a lui – allora posso nel nome di Cristo dichiararmi in disaccordo con lui e convincerlo di peccato, come Cristo fece con me e come continua a fare giorno dopo giorno» (Bavink in J. Stott, Ibid., p. 85)

È sempre Bavinck che parla. Il “confrontarsi con” esige che non si resti aggrappati al proprio recinto identitario, ma che ci si sposti, che si rischi, abbandonandolo e rinunciando alla propria identità. L’orizzonte all’interno del quale deve svolgersi il confronto è il vangelo. E il vangelo non è di nessuno, neanche degli “evangelicali”. Il confronto non si svolge all’insegna della Riforma né tanto meno all’insegna dei valori occidentali. Il confronto adotta la postura che Paolo ha indicato ai Corinzi nel capitolo 9 della Prima Lettera che porta quel nome. Il confronto vede il cristiano come un soggetto mobile, disposto a rinunciare a ogni cosa per il vangelo; disposto a seguire e concordare con l’interlocutore, magari quando questi si lamenta e condanna i tanti errori commessi dai cristiani identitari: dalle crociate alle guerre di religione.

Si è vero, loro [per esempio i musulmani] hanno il jihad, hanno i testi che maledicono gli infedeli (ebrei e cristiani).
Ma sono solo i credenti in Gesù ad avere Gesù!!!
A loro tocca additare la presenza di un regno che non è di questo mondo e che essi dovrebbero incarnare.

Rinunciare al “noi” è dunque una vera e propria conversione semantica. Non ti sto parlando a nome di un “noi”; siamo io e te di fronte al vangelo. Io ti apro il mio cuore, ti mostro quanto sono stato perdonato, ti mostro il peggio di me stesso affinché tu possa vedere quanto grande è l’amore di Gesù Cristo.

 

  1. Racconto una storia migliore

Jonathan Lamb, riprendendo le riflessioni che Glynn Harrison (A Better Story: God, sex and human flourishing, 2017) fa a sostegno dell’etica sessuale cristiana, rilancia la tesi che in un frangente storico come il nostro la morale cristiana relativa alle relazioni d’amore appare completamente screditata; per questo motivo dobbiamo imparare a raccontare una storia migliore.

Negli ultimi venti o trent’anni: «il nostro tono è spesso suonato duro e freddo. Perfino narcisistico».

Il primo rimedio è un necessario ascolto da prestare a quanti differiscono da noi: «Nelle guerre culturali spesso ci si è concentrati troppo, su tutti i fronti, sul “rispondere” e troppo poco sull’“ascoltare”». Gli attivisti, su tutti i versanti del dibattito, profondono ogni loro energia nell’«oscura arte della persuasione». Tuttavia, «non dobbiamo essere sordi all’invito scritturale ad ascoltare prima di parlare e a essere pronti a rispettare la buona fede di quanti potrebbero avere posizioni diverse dalle nostre» (In J. Lamb, Che siano uno, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU).

Ingelosire (Rom 11:11), è questo il concetto che Paolo elabora nei famosi capitoli della Lettera ai Romani in cui parla del rapporto tra Cristiani e popolo ebraico. La sostituzione apparente dei primi al secondo (la metafora dell’ulivo) ha solo un unico obiettivo: far sì che gli Ebrei provino gelosia per il rapporto che i Cristiani hanno intessuto con YHWH, con un’intimità dovuta solo e unicamente a Jeshua. Ma questa è stata un’utopia nella storia, contraddetta ahimè da ben altri sentimenti, con una scia di incomprensioni che continua ancora al giorno d’oggi.

Ma la proposta di una storia migliore implica la rimozione di alibi e fraintesi, tutti passaggi obbligati di un “confrontarsi con” in cui siano dei “tu” che si incontrano, e in cui le identità non sono barriere ma costruzioni virtuali aggirabili. Sono i cristiani in primis, che possono fare questo, che non temono di perdere niente, avendo guadagnato tutto con Cristo.

Che sia possibile una storia migliore da raccontare è dato da un indizio che emerge qui e là nella cultura occidentale: esso è rappresentato da quei pensatori di varia provenienza che sono disposti a identificare nel cristianesimo elementi in grado di giustificare la possibilità di un fiorire umano (penso qui in particolare a Miroslav Volf). Questa possibilità solo il cristianesimo sembra garantirla.

Ecco una sfida nella sfida: è vero il cristianesimo ha risorse per il fiorire umano.

Ma quale cristianesimo?

Il vivere e il confrontarsi con … ha il vantaggio di rifuggire dall’equivoco rappresentato da un cristianesimo nominale o culturale. Poiché un discepolo di Gesù nella vita quanto nel confronto non avrà altro scopo che incarnare la vita nuova del Risorto e del suo Regno, e non saprebbe che farsene delle ideologie dei valori cristiani, facili da proclamare quanto altrettanto facili da contraddire … con la vita.

 

 

 

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(Vivere e confrontarsi con l’Islam)

Da storico del cristianesimo antico le tue ricerche ti hanno spinto oltre il secolo della nascita dell’Islam (VII d.C.), nonché oltre i confini geografici della tradizionale storiografia sulle origini del cristianesimo [qui citerò Cristianesimi e Christiana Clio].

In Cristianesimo e Islam. Fatti e antefatti (2016) ricerchi e descrivi le radici pre–islamiche dell’Islam.
La domanda concerne non il come (bisogna leggere il libro) ma le ragioni, il perché, per quanto sia possibile a uno storico rispondere a una simile domanda.

 

  1. Perché nasce una religione (che ha l’aura in premessa di un’irenica fratellanza – sono parole tue) nell’alveo di un mondo che conosceva la diffusione sempre più ampia di una fede, quella cristiana, che avrebbe dovuto essere il punto di ritrovo e di rinnovamento di una nuova umanità, di un “uomo nuovo” come lo descrive Paolo (Efesini)?Mi sono interessato dei rapporti tra l’islàm nascente e la galassia cristiana all’epoca del mio insegnamento presso l’Università degli studi di Napoli l’Orientale. Qui era attivo un Corso di laurea in Studi islamici (credo unico in Italia) e non pochi allievi venivano a interrogarmi, in generale, del rapporto tra le due religioni. Non m’impegnai, come si è soliti, sugli aspetti dottrinali soltanto, ma mi studiai di collocare il problema nel suo contesto storico aurorale. Partii dall’affermazione di un autore siriaco di lingua greca, Giovanni Damasceno, che il mondo del primitivo islàm aveva ben conosciuto. Questa religione, da lui chiamata degli ‘ismailiti’, veniva rubricata tra le ‘eresie’ di quelle che pullulavano nel panorama cristiano del tempo suo. Quasi sempre gli studiosi oggi tralasciano questa informazione e preferiscono schierarsi in due opposte falangi: da un lato i ‘crociati’ che demonizzano in blocco la fede islamica e ognuno che la professa, dall’altro gli ‘ecumenici’ che, in nome di un irenismo ingenuo, pervengono a un “volgiamoci bene” tanto generico quanto sterile. Nel mio libro illustro come l’esperienza di Maometto abbia affondato, e profondamente, le sue radici nel caleidoscopio delle sette giudeo cristiane dell’Arabia del suo tempo. Si tratta di un cristianesimo che potremmo definire ‘ereticale’ poiché difforme dai dettami teologici degli imperatori di Bisanzio ma che lì, tra deserti e oasi, sperduti monasteri e carovane itineranti, prosperava. Una lettura, anche superficiale, del Corano ci consente di cogliere gli echi della letteratura cara a quei cristiani, sono testi che noi oggi chiamiamo apocrifi ma che lì e allora godevano ampia circolazione. Un paziente lavoro di collazione, di cui rendo ragione nel libro edito dai GBU, mi ha consentito di ravvisare le corrispondenze tra le due esperienze religiose e con queste un rapporto di continuità. Poi, naturalmente, le interazioni tra gli uomini e le loro idee subiscono variazioni e conoscono incontri e scontri nella cittadella della storia, ma questa è un’altra vicenda.

 

  1. Gli errori del cristianesimo dei primi secoli, che in qualche modo sembrerebbero costituire degli antefatti alla nascita dell’islàm possono essere identificati ancora oggi nel modo in cui il “mondo cristiano” si confronta con il mondo islamico?Non parlerei di “errori del cristianesimo” tout court ma preferirei far riferimento agli atteggiamenti diversificati di gruppi cristiani in un’epoca nella quale religione e politica erano fuse e confuse. Ancora oggi, a differenza di quanto avviene nei paesi d’afferenza cristiana, possiamo ravvisare questa indistinzione di piani in quelle comunità islamiche dove non si distingue la legge di Allah dalla legge civile. Si era in un’epoca dove si credeva in una e una sola verità, ritenendo coerentemente tutto il resto errore o eresia e, inoltre, considerando quest’ultima come pericolo da estirpare. Era lontana l’epoca nostra nella quale le ragioni del dialogo prevalgono su quelle della differenziazione considerata prodroma dello scontro. La rapidissima diffusione del dominio degli arabi e la conseguente affermazione della loro religione furono facilitate dall’insofferenza di numerosissime popolazioni del vicino oriente e dell’Africa mediterranea verso il potere bizantino il quale imponeva la sua ortodossia con la forza della coercizione e vessava economicamente i sudditi di terre remote da Costantinopoli. Le dispute teologiche ‘bizantine’ sembravano astruse, e così una cristologia che riduceva Gesù a uomo profeta e una teologia enormemente semplificata, quale quella islamica, apparve a molti una prospettiva attraente. Naturalmente, in sèguito, le scimitarre affilate fecero anche la loro parte presso i dhimmi, cristiani sottomessi pian piano e indotti ad abbracciare la fede di Maometto. Un grande storico belga, Henri Pirenne, ha sostenuto, non senza una parte di verità, che la vera cesura tra il mondo antico e quello medievale sia costituita non dalla caduta dell’impero romano (da altri storici considerata ‘silenziosa’) bensì dall’espansione dell’islàm in un Mediterraneo che allora vide mutare profondamente il suo volto.

 

  1. Noi crediamo che il messaggio del vangelo sia la risposta a qualsiasi problema di ordine spirituale e morale e questa risposta è costituita del messaggio e dall’opera di Gesù. Suggerimenti su come condividere questo messaggio ad amici e conoscenti musulmani?Se vogliamo prender sul serio il vangelo dobbiamo credere che Gesù sia, lui stesso, la via, la verità e la vita; affermazione da sottoscrivere con difficoltà in una società, quale la nostra, dove si declinano al plurale questi termini, con particolare riferimento al termine ‘verità’, della quale si ritiene che ognuno ne possegga una sua fettina condita con la salsa propria. Bisogna prima di tutto allontanarsi dall’atteggiamento che chiamerei da “battaglia di Lepanto”, cioè da un’ostilità preconcetta, e ciò in base, prima ancora che del precetto evangelico di amore per il prossimo, anche in forza dell’ovvia considerazione del fatto che persone per bene e mascalzoni sono distribuiti e assortiti in ogni etnia, popolo e religione. Noi ‘occidentali’ abbiamo la grande responsabilità di confrontarci con il mondo islamico, ma ogni serio confronto si basa su una chiarezza identitaria dei dialoganti. Ora una società, quale la nostra, a metà strada tra tradizione cristiana e ateismo, secolarizzazione e relativismo rischia di non avere un volto chiaro con il quale guardare con interesse e spirito costruttivo all’altro il quale, invece, la propria identità la conserva. Avere autoconsapevolezza non significa armarsi contro l’altro; tutt’altro: significa disporsi ad ascoltare, ad imparare e crescere culturalmente e spiritualmente. Il Corano andrebbe letto con attenzione al suo contesto storico, proprio come noi siamo soliti fare con la Bibbia. Questo metodo, lo si chiami “storico critico” o “storico grammaticale”, è per noi il frutto di secoli di riflessione e d’indagine razionale così come di esercizio di fede. La condivisione di questo metodo potrebbe costituire un antidoto a perniciosi fondamentalismi. Dal canto mio tenderei a valorizzare il rapporto di filiazione tra le due fedi ma, si tenga ben presente, questo che per noi è un atteggiamento di fratellanza e imparentamento suona addirittura blasfemo per i nostri amici islamici i quali non tollerano che si neghi la provenienza delle rivelazioni affidate a Maometto direttamente da Dio e mai per tradizione recepita. Insomma, mentre noi cristiani non abbiamo difficoltà ad ammettere l’ebraicità di Gesù e il cordone ombelicale che lega la sua predicazione e la sua chiesa al precedente giudaismo, un musulmano rigoroso mai avrebbe tal atteggiamento in merito al rapporto tra la sua fede e quella cristiana. Mi si consentirà un pensiero finale: noi che siamo chiamati a proclamare il vangelo sappiamo che il nostro compito non è quello di convertire (compito che spetta a Dio solo) bensì quello di testimoniare. E il miglior condimento della testimonianza è sempre l’amore. Valga ciò verso ognuno che dialoghi con noi, musulmano o no.

Giancarlo Rinaldi ha insegnato Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Si è interessato in particolare al rapporto tra cristianesimo e paganesimo con particolare attenzione alla percezione del secondo nei confronti della diffusione della fede cristiana. Per le Edizioni GBU ha pubblicato Cristianesimi nell’antichità (2008 e ristampe).

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Il quarto congresso di Losanna si tiene nel centro congressi di Incheon, la città che ha l’aeroporto di Seul. Se uno passeggia per la città si trova proiettato nel futuro. Non si troveranno monumenti storici, ma palazzi ultramoderni (io stesso ho dormito in un B&B al 28° piano), vialoni adatti per far scorrere un traffico sostenuto, molti parchi ed una grande pulizia ed ordine. La Corea del Sud e, in particolare, la zona attorno a Seul, è un paese ricco. Ma il motivo per cui il Congresso è stato fatto in questo luogo ce lo spiega Alister McGrath nell’ultimo capitolo in La Riforma protestante e le sue idee sovversive in cui, parlando del protestantesimo del XX secolo spiega che il caso coreano rappresenta uno tra quelli in più rapida crescita con influenze determinanti anche per la società in cui si vive.

Per raccontare questo progresso, le chiese coreane l’altra sera (giovedì) hanno presentato uno spettacolo teatrale (con musiche, parte recitate e uso della multimedialità) intitolato Twelve Stones (dodici pietre). Le 12 pietre rappresentano i momenti più importanti dell’evangelismo coreano. 

Si è spiegato come, a fine XIX secolo, dopo vari tentativi e dopo aver gà tradotto il testo biblico in precedenza nella lingua coreana, il cristianesimo fosse arrivato grazie soprattutto alla presenza di missionari presbiteriani e metodisti che, oltre a fondare chiese, avevano anche iniziato a costruire scuole, aprendo, ad esempio, la prima istituzione educativa femminile ad inizio XX secolo. Il movimento cristiano era presente, tollerato ed anche in crescita. Risulta interessante dire che la maggiore crescita si ebbe proprio a Pyongyang, tanto che si parla proprio di risveglio riferito all’attuale capitale della Corea del Nord. 

Nonostante la rapida crescita, l’invasione giapponese (che iniziò negli anni venti) creò una crisi all’interno del protestantesimo coreano che ricorda alcune situazioni che si crearono nell’impero romano nel cristianesimo. I Giapponesi che ancora allora vedevano con una certa ostilità il cristianesimo, continuarono a permettere il culto evangelico, permisero ad alcune scuole di rimanere aperte, ma obbligarono i pastori ed i credenti a fare un giuramento scintoista. La maggior parte di essi obbedirono, ma alcuni resistettero essendo poi di fatto perseguitati.

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nonostante la conflittualità tra coloro che avevano giurato e quelli rimasti fedeli, il cristianesimo riprese a crescere, questa volta nella parte Sud. Il Paese fu poi ferito dal conflitto in Corea tra il 1959 ed il 1953. Mentre il regime paternalista/comunista vietò il cristianesimo nella Corea del Nord, a partire dal 1953 ci fu un vero e proprio risveglio con una crescita costante del cristianesimo che portò i credenti, negli anni 1990 ad essere il primo gruppo religioso, superando i Confuciani (retaggio del vecchio regno coreano) e Buddisti (insediati da più tempo sul territorio). La crescita del cristianesimo nella Corea del Sud ha aiutato anche il processo di democratizzazione e di sviluppo economico che ha reso questo paese uno dei più ricchi dell’Est asiatico, partendo da una situazione di povertà dopo la guerra.

Le ferite rimangono aperte e proprio negli anni 1990, dopo un’apparente indifferenza, tornano ad esserci rapporti con la Corea del Nord, colpita duramente dalla siccità ed in cui la carestia stava facendo morire la gente di fame. La Corea del Nord pertanto fu costretta ad accettare gli aiuti dei Paesi più ricchi. Dal punto di vista della Chiesa questo significa l’apertura di un vulnus, ma anche la constatazione che a Nord c’erano dei credenti perseguitati che, ancora oggi, si riuniscono segretamente e costituiscono la cosiddetta “chiesa sotterranea”.

Lo spettacolo (fatto anche di ottimo materiale documentario) non ha nascosto la crisi della chiesa coreana che è iniziata già agli inizi del XXI secolo per alcuni scandali legati a vicende di pastori e, infine, dall’epidemia di covid che, dopo la chiusura dei locali, ha visto drasticamente ridurre la frequenze dei locali di culto del 30%. Proprio per questa è ora di raccogliere nuove sfide per il tempo presente ed alcune di queste sfide che ha raccolto la chiesa coreana (come quella dell’evangelizzazione attraverso digitale) sono diventate anche quelle del Movimento di Losanna.

Si è trattato, quindi di un viaggio nella storia fatto con uno spettacolo di alta qualità che ha avuto anche la virtù di non nascondere quelli che sono stati i problemi che ha affrontato la chiesa coreana e non si sono neanche occultati quelli che sono gli attuali problemi che somigliano molto a quelli di qualsiasi realtà secolarizzata paragonabile a quelle del mondo occidentale. 

La chiesa coreana, quindi, può essere vista come un esempio di ciò che accade agli esseri umani quando annunciano il Vangelo con i loro limiti. Una storia esemplare, pertanto, sia per quelli che sono stati i suoi successi, sia per quelli che sono stati i suoi fallimenti. 

L’insegnamento che se ne può trarre è quello che la nostra storia va vista sempre con attenzione, non cercando solo di essere elogiativi, ma mostrando le nostre debolezze per guardare realmente avanti ed accettare le sfide del presente, rimettendo al centro della predicazione l’intero Vangelo.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

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