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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Questa affermazione potrebbe ben assurgere allo status di quaestio degna delle migliori dispute teologiche medievali. In effetti, da un punto di vista dogmatico, ci sarebbe molto da discutere, incrociando i dati della dottrina della creazione con il corredo di quali fossero le dotazioni della creatura umana a immagine di Dio che poi sono andate perse con la caduta nel peccato, con quelli della dottrina del peccato e dell’antropologia, su quale sia la portata epistemica del peccato. Se cioè in questi sia ricompreso anche il rifiuto di credere nell’esistenza di Dio (incredulità), postura riconducibile a un’interpretazione piana del termine ateismo.

Ma in queste righe non mi interessa tanto la posta in gioco teologica, anche se personalmente, a leggere Romani 1, una certa idea ce l’ho e propende verso il corno della negazione, vale a dire che non sembrerebbe contemplata nella condizione di depravazione totale, nella condizione di caduta nel peccato, la non credenza, la negazione dell’esistenza di Dio.

Ragion per cui si pone il problema della sua origine: da dove viene la negazione professata della non esistenza di Dio?

L’affermazione vuole semplicemente porre il problema in questi termini: l’ateo non inizia la sua riflessione sul mondo a partire dal presupposto che Dio non esiste. Affermazione questa che in qualche modo vuole passare al lato all’esperimento attribuito a Ugo Grozio o più in generale allo scetticismo del Seicento: etsi Deus non daretur.

«Dio non esiste» sarebbe al contrario la conclusione di un percorso di varia natura: logico–argomentativo, esistenziale, fenomenologico, razionalistico, psicologico, sociologico, scientifico, etc. La rilevazione di questo spostamento, dal presupposto alla conclusione, è probabile che non avvenga nell’arco della speculazione o dell’esistenza di un solo individuo, di un solo pensatore – sulla possibilità di commisurare esistenza e speculazione filosofica del singolo, si guardi allo scritto ebraico e biblico di Qoelet.

La rilevazione potrebbe avvenire nel considerare dei fenomeni che vadano oltre le singole biografie, che coinvolgano periodi storici o scansioni temporali e culturali (si pensi agli anni in cui era in voga il nuovo ateismo!).

Questa possibilità, vale a dire che l’affermazione «Dio non esiste» sia una conclusione e una meta del percorso della mente umana piuttosto che un presupposto o un punto di partenza, spiazza totalmente l’impresa apologetica e in particolare l’apologetica evangelica degli ultimi vent’anni. Questa, infatti, è stata incentrata molto sulla mossa di poter dimostrare, magari dialogando, argomentando, dibattendo che no, non bisogna partire dal presupposto che Dio non esiste, ma dal presupposto opposto, Dio esiste, e ci sono molte cose che lo dimostrerebbero. Addirittura, una vera e propria scuola apologetica si è intestata questa strategia, definendosi appunto, presupposizionalismo.

Ebbene, che cosa cambierebbe se, invece di considerare la posizione atea un punto di partenza, la considereremmo al contrario un punto di arrivo, a volte di vero e proprio approdo?

In primo luogo, avremmo un indizio sulla possibilità di costruire una eziologia dell’ateismo; e qui scopriremmo che molto spesso la posizione atea è seconda rispetto alle posizioni teistiche variamente articolate nel corso della millenaria avventura della teologia, ma anche filosofia, cristiana.

Scopriremmo anche che alcune posizioni atee sono, legittimamente, conclusioni raggiunte a partire da costruzioni dogmatiche che tanto dicono di Dio quanto si allontanano dall’esperienza diretta del divino e, in particolare, dall’esperienza del Dio della Bibbia.

In secondo luogo, si aprirebbe la possibilità di ripercorrere, con tanta umiltà da parte dell’apologeta, il percorso che ha condotto alla conclusione ateista. Che cosa voleva dire veramente Nietzsche, quando fa dire a Zaratustra che «Dio è morto»? Con chi ce l’aveva l’altro maestro del sospetto, collega del filosofo del nichilismo, quando affermava che la «religione è l’oppio dei popoli»? Possiamo far nostro l’avvertimento freudiano sulle tante illusioni che albergano il discorso religioso, incluso il gergo della teologia cristiana.

L’ontoteologia tanto aborrita da gran parte della filosofia contemporanea è veramente un frutto indigesto del lavoro della teologia cristiana che ci presenta un Dio davanti al quale non possiamo più rivolgere preghiere e, quindi, meglio da rimuovere come uno dei deliri della mentalità violenta del pensiero occidentale?

Ci vuole un grande bagno di umiltà per ascoltare la conclusione dell’ateo e poi chiedergli, va bene, le tue conclusioni appaiono corrette, ma vogliamo ripercorrere la strada insieme per vedere se il Dio della Bibbia coincida totalmente con il dio dell’ontoteologia? Se c’è ancora una differenza, una pascaliana differenza, tra il dio dei filosofi e il Dio di Abraamo, Isacco e Giacobbe?

Forse un aiuto in un simile rovesciamento di prospettiva può venirci dall’illuminante fatica di Paolo Ricca che nel suo Dio. Apologia (Claudiana 2022) ci fornisce un esempio, soprattutto nella prima parte, Dio nella modernità (pp. 31–151), in cui entra all’interno di molti percorsi ateisti della modernità tracciando bilanci e trovando inaspettate possibilità apologetiche.

Un libro sicuramente non esente da spunti su cui continuare a riflettere, soprattutto per il debito che paga a Karl Barth, pensatore non molto distante da quella corrente del presupposizionalismo a cui si faceva riferimento sopra, ma tuttavia un libro che dovrebbero leggere e meditare tutti coloro che hanno a che fare con gli studenti universitari nella speranza di condividere con loro Gesù da studente a studente.

Se poi non bastasse, allora non possiamo non segnalare che, proprio il tema dell’ateismo e del vivere con e insieme agli atei, è il tema del XVI Convegno di Studi GBU (7–10 dicembre 2023) «Vivere e confrontarsi con l’ateismo».

Raccogliamo la sfida: andiamo in cerca di coloro che, forse, un po’ anche per colpa nostra, pur non essendo nati atei, sono diventati tali!

L’articolo Atei non si nasce … si diventa! proviene da DiRS GBU.

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di Valerio Bernardi

Nelle testate giornalistiche di fine e inizio anno, almeno in Italia, le notizie che hanno maggiormente spiccato sono quelle della morte di due personaggi celebri: Pelé e Benedetto XVI.

Lasciando momentaneamente da parte il tentativo di un bilancio sul primo, cercherò di tracciare un breve profilo valutativo di quello che è stato il primo Papa emerito della storia: Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Tentare di tracciare un bilancio del suo operato significa cercare di tracciare un bilancio del cattolicesimo post-conciliare e risulta impresa ardua. Partirò da due episodi significativi per me e, penso, rappresentativi di quello che ha fatto Papa Benedetto XVI.

Ho avuto la possibilità di sentire Ratzinger, quando era cardinale e rivestiva, sotto Giovanni Paolo II, la carica di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (ovvero era il capo dell’ex Sant’Uffizio e tribunale dell’Inquisizione) qui a Bari in una conferenza intitolata Unità e pluralità nella Chiesa. Sicuramente durante il suo eloquio si poteva dedurre che si trovava di fronte ad un teologo profondamente erudito e ben a conoscenza dei meccanismi della Chiesa in cui militava, ma, a me, giovane evangelico faceva sorgere diversi dubbi soprattutto quando, di fatto, negava la possibilità di qualsiasi pensiero dissenziente nei confronti del Magistero della Chiesa, ribadendo l’importanza del suo ruolo e della Curia nello stabilire quali fossero le basi della fede cattolica. Si trattava del Ratzinger che, appena qualche mese prima, aveva condannato in maniera ferma i Teologi della liberazione dell’America Latina, sostenendo che (forse anche giustamente) non ci poteva essere una conciliazione tra Marx ed il Magistero della Chiesa, ma, allo stesso tempo, ignorando le opzioni da cui era nata quella teologia e la questione della povertà che è sempre stata e deve sempre essere al centro del dibattito cristiano sin dai tempi biblici.

Il secondo ricordo, più vicino nel tempo, riguarda le sue dimissioni. Nella scuola dove insegno, nonostante la maggior parte dei ragazzi non sia normalmente interessata a questioni religiose e siano molto critici nei confronti della Chiesa Cattolica, le dimissioni di un Papa ha suscitato scalpore. Per questo motivo gli studenti hanno deciso di dedicare una loro assemblea di Istituto alla questione e, tramite la loro docente di religione, sono riusciti ad invitare Don Nicola Bux, un importante esponente del clero vicino a Comunione e Liberazione e collaboratore del Pontefice mentre era cardinale e Prefetto del Sant’Uffizio. Nonostante le varie dicerie sulla questione delle dimissioni (incapacità di governare la Chiesa, scandalo della pedofilia etc. etc.) Bux ha dato forse una delle migliori spiegazioni dell’accaduto: Ratzinger vedeva declinare la sua salute e, in tutta coscienza, non se la sentiva di continuare a governare senza vigore la Chiesa Cattolica.

Questi due episodi, a parte la lettura di diversi suoi testi e discorsi sono quelli che mi rimarranno impressi quando, anche in futuro, ricorderò Ratzinger. Ovviamente ci sono tante altre cose da poter discutere e voglio qui ricordarne qualcuna.

In primo luogo, Ratzinger è stato un teologo tedesco, formatosi in Baviera e docente alla facoltà teologica cattolica di Tubinga, uno dei più prestigiosi atenei tedeschi, dove è stato collega per diversi anni di Hans Küng, condividendone le posizioni progressiste almeno sino alla metà degli anni 1970, quando soffermandosi negli studi sul ruolo della Chiesa ha iniziato a reinterpretare alcune delle cose ribadite dal Concilio Vaticano II, si è allontanato dalle posizioni di critica nei confronti del Magistero e del ruolo del Pontefice ed ha ribadito un concetto di chiesa sacramentale che rimane uno dei pilastri del Cattolicesimo. La sua conversione non è stata repentina né frutto di un cambio di casacca per questioni squisitamente politiche (anche se è vero che ciò gli ha permesso di far carriera nella Curia), quanto un autentico timore dello sfaldamento della Chiesa Cattolica.

Questo lo ha gradualmente portato a divenire uno dei maggiori teologi dell’ala conservatrice della Chiesa Cattolica, condannando qualsiasi tentativo di andare al di fuori di schemi tradizionali. Allo stesso tempo, però, Ratzinger è stato colui che ha cercato di dialogare con il mondo secolarizzato occidentale. Lo ha fatto in diverse occasioni ed è entrato in dialogo sia con Habermas in Germania che con Flores d’Arcais in Italia. I suoi tentativi erano portati avanti anche da quello che, a mio parere, rimane il più importante documento ufficiale da lui scritto (anche se non ufficialmente) che è l’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio. In tale scritto il teologo tedesco è entrato in dialogo con il pensiero contemporaneo, cercando di ribadire un concetto di razionalità diverso da quello voluto dall’Illuminismo occidentale. La proposta è risultata interessante anche se il costante richiamo alla tradizione tomista come una sorta di “filosofia” ufficiale della Chiesa, appare limitante e forse troppo ristretta per un pensiero come quello evangelico che si è lasciato indietro l’impalcatura realista del periodo medievale.

Le testate giornalistiche italiane (in particolare Repubblica che non ha mai brillato per le sue competenze in campo religioso) continuano a ricordare il famoso discorso di Ratisbona fatto da Pontefice e lo ricollegano ad una sorta di antislamismo. Se è vero che Benedetto XVI in un passaggio di quel famoso discorso faceva riferimento all’Islam ed al fatto che tale religione non ricorresse alla ragione e non chiedesse alla fede l’uso dell’intelletto, è vero che l’intero discorso era una serrata critica al pensiero occidentale contemporaneo che era ricollegato in particolar modo al Protestantesimo e ad una linea di pensiero che partiva da Lutero ed arrivava fino a Kant in cui Dio era stato abbandonato a favore dell’uomo. Ratzinger (che in altri discorsi ha avuto parole di elogio per Lutero) ribadiva una vecchia linea di pensiero che riportava la responsabilità della secolarizzazione dell’Occidente alla Riforma Protestante, vista sempre con rispetto dal pensatore tedesco, ma anche guardata con una certa diffidenza.

Questo è, a grandi linee (se vogliamo anche in maniera sin troppo sintetica) il percorso di un grande personaggio per la Chiesa Cattolica. Cosa possiamo dire noi da evangelici? Intanto come spesso accade, a prescindere dal credere o meno nei rapporti ecumenici e di dialogo con la Chiesa Cattolica, il pensiero di Benedetto XVI va trattato con rispetto e lo si deve leggere con attenzione anche nei suoi tentativi divulgativi della fede che non sono mancati (non dimentichiamo che da Pontefice ha scritto delle monografie dedicate alla figura di Gesù, sicuramente discutibili in alcune conclusioni, ma molto interessanti perché si tratta, anche in questo caso, della prima volta che un Pontefice affermava di aver scritto libri da studioso e non da Capo della Chiesa). Leggendo i suoi testi è chiaro che le sue tesi rimangono pienamente all’interno della tradizione cattolica e, per questo, la sua concezione di Chiesa, il suo cedere in alcuni momenti al culto mariano, la sua idea di Magistero sono, da un punto di vista evangelico criticabili. Vanno però apprezzati il suo tentativo di dialogo con la società contemporanea, l’idea di render ragione della propria fede, quella di voler divulgare il suo pensiero. E, in ultimo, rimarrà sicuramente nella memoria dei posteri il suo atto più rivoluzionario: le sue dimissioni. Benché tradizionalista, Benedetto XVI ha rotto con una tradizione millenaria ed ha mutato l’idea di pontificato proprio abbandonando il soglio pontificio ed ammettendo che non si può dirigere una Chiesa in tarda età ed in condizioni precarie di salute. Probabilmente questo sarà uno dei suoi lasciti più significativi, oltre quelli della sua opera.

(Valerio Bernardi – Dirs GBU)

L’articolo La morte del papa-teologo. L’opinione di un evangelico. proviene da DiRS GBU.

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Sono passati più di duecento anni da quando il filosofo Emmanuel Kant, nella Critica della Ragion pura, nell’Appendice alla Dialettica trascendentale, dopo aver delimitato “criticamente” il campo del sapere che poi va a sostanziare la scienza, cercò di fare i conti con le “idee” della ragione. Le idee, prodotto intellettivo dalla natura sfuggente e che possono richiamare, ineludibilmente, altre dimensioni dell’esistente, non hanno il crisma di ciò che può condurre alla costituzione di un sapere, come i concetti; tuttavia, sono lì, influenzano, condizionano

Tra esse ce n’è una che è forse più ineludibile di tutte, l’idea di Dio!

Ecco allora che Kant scopre, per queste idee, un altro ruolo, un’altra funzione, quello della regolazione. Non portano a niente, però aiutano a mettere ordine e sistematicità in ciò che conosciamo, che veniamo a conoscere, ci spingono verso un focus, un obiettivo. Regolano il nostro sapere non dogmaticamente ma come impulso, come direzione.

Può tutto questo armamentario concettuale, qui delineato in maniera certamente superficiale, essere trasportato dal campo del sapere, dove Kant lo concepì, ad altri campi, a quello della morale (dove Kant immaginava ben altro), a quello della politica, a quello del vivere associato degli uomini, al tema della pace e della guerra?

Forse non sono il primo a fare questa comparazione ma penso che l’ideale regolativo di kantiana ascendenza possa ben esprimere il posto concettuale che potrebbe occupare il tema della pace in questo momento (scrivo all’indomani della grande manifestazione del 5 novembre a Roma organizzata da Europe for peace).
Il tentativo nasce dal tormento reale e non superficiale che chiunque, e in particolare anche un cristiano che vuole essere sensibile alla globalità del pensiero biblico (noi lo chiamiamo “il consiglio di Dio, At 20:27) avverte e prova nei confronti della guerra in Ucraina. Le condizioni storiche e geopolitiche acuiscono il tormento intellettuale. Sono pochi i paragoni possibili per l’aggressione della Federazione russa. Forse, con molti distinguo, e andando indietro negli anni, se teniamo conto di ciò che è accaduto dal 1991, anno della disgregazione della vecchia Unione sovietica, una crisi che avrebbe potuto avere uno sviluppo simile (ma che non lo ha avuto) si registrò trent’anni prima, nel caso dei missili sovietici a Cuba (anni ’60).

Oggi siamo di fronte a una situazione anomala; i profili relativi alla giustizia sono abbastanza netti: c’è il diritto internazionale, c’è l’autodeterminazione dei popoli, anche a difendersi, c’è lo scontro tra “democrazie” e “autocrazie” tra regimi di libertà (come quello nel quale il sottoscritto può scrivere quello che sta scrivendo, professare la propria fede – si ricordi: la libertà di culto è la madre di tutte le libertà occidentali!) e regimi che reprimono le libertà, guarda caso, anche la libertà di religione, soprattutto quando la religione viene assunta a stampella ideologica della guerra.

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Ma i profili relativi alla pace non sono così netti. La pace è al più un desideratum aleatorio affidato, da chi sul campo dirige le operazioni – di guerra, a un fatalistico domani che verrà, se verrà, considerato lo spettro dell’olocausto nucleare. Può essere utile al riguardo leggere l’ultimo libro di Massimo Rubboli (qui di fianco la cover)

Ed è qui che l’ideale regolativo kantiano potrebbe aiutare. La pace è e deve essere un ideale. Negativamente questo significa che la pace appare senza alcunché di definibile e percettibile: dove potremmo noi rilevare percezioni di pace che andrebbero a sostanziare un concetto, un sapere e delle azioni concrete di pace? Mosca dovrebbe essere il primo posto in cui rilevare queste percezioni, ma assolutamente nulla. E altrove? Si fa a fatica a precipitare la pace dal campo dell’ideale a quello del sapere, dalle idee al concetto.

Positivamente, però, è possibile che questo ideale giunga a regolare il pensiero e l’azione già qui e ora. Quali percorsi questo ideale sta illuminando? La piazza di ieri mi pare un piccolo sussulto che mette in circolo delle vibrazioni. Esse concernono le opinioni pubbliche; sono piazze, non sono ambasciate e diplomazie e tuttavia tante volte nella storia (vedi guerra in Vietnam) le opinioni pubbliche hanno scoperto dei possibili percorsi diplomatici.

La pace come ideale regolativo potrebbe anche mettere d’accordo i sostenitori dell’appoggio (anche militare) a Kiev e i sostenitori del “fermiamo le armi” ora (posizione questa che vive tutta nell’ideale); sì perché il primo, l’appoggio militare, ben si colloca in un tempo e in uno spazio determinato, sempre all’insegna dell’ideale regolativo della pace. C’è un tempo in cui è stato necessario dire no, questo non deve accadere. Che cosa sarebbe accaduto a febbraio, infatti, se l’Ucraina non avesse vissuto quella straordinaria primavera di “resistenza”?

Ma se la pace è un ideale che regola i nostri passi oggi, concretamente, allora lo spazio per la guerra (è triste parlare così) è e deve essere uno spazio e un tempo determinato. Ma il tempo e lo spazio non lo decide la guerra stessa ma lo decide l’ideale regolativo della pace. Abbiamo provato la guerra di resistenza, abbiamo vinto tutti con il popolo ucraino; adesso, facendoci condizionare dall’ideale, bisogna regolare i passi in modo diverso.

Che i governi occidentali, soprattutto europei, trovino lo scatto per creare al loro interno delle task force per la pace, piccoli gruppi di lavoro che mettano insieme magari governanti e opposizioni (altro ideale!), i quali a loro volta si interfaccino a livello continentale e planetario, che bussino alle case dei due belligeranti chiedendo loro di fornire uomini per discutere e ragionare di confini, di territori, di popolazioni, di sicurezza, di deterrenza…. Forse già la volontà di interrompere la fornitura di armi all’Ucraina potrebbe essere un qualcosa da mettere sul piatto delle trattative da intraprendere sul percorso dell’ideale della pace che regola.

È utopistico pensare tutto ciò? Certo, “utopia” e “ideale” non sono la stessa cosa, ma entrambi provengono da quel campo della “realtà” in cui non ci sono certezze, dogmi e ideologie. È il campo dell’umano, della voglia di vivere, in pace, cercando di creare lo spazio per quello che conta veramente.

E che cosa conta veramente, in questo scorcio segnato da una pandemia che ancora non ci lascia, da una crisi climatica che ha mostrato tutta la sua ferocia nella scomparsa delle stagioni, di una crisi economica e migratoria che si infiamma giorno dopo giorno?

Che cosa dobbiamo sperare (altro interrogativo kantiano)?

Nella mente di un cristiano evangelico quello che conta veramente è la possibilità di poter dire agli altri esseri umani che viviamo nell’ultimo tratto della storia quello segnato dalla morte e dalla risurrezione di Gesù Cristo; c’è una buona notizia da far circolare, da far comprendere, da incarnare per mostrare modelli di vita segnati dalla pace, quella che Gesù dà e non quella che il mondo dà (sono le parole dello stesso maestro di Nazaret, Gv 14:27).

Possiamo dire, che la pace non è un fine in sé per l’essere umano? È ancora Kant che ci mette in guardia da un ottimismo superficiale facendo appello a tutta la forza della parte pratica della ragione, allorquando si confronterà con il tema del “male radicale” presente nel mondo degli uomini, e di cui la guerra non è altro che l’espressione più parossistica. No, la pace non è un fine in sé; semmai la pace è un mezzo per altro fine. Con essa, per esempio, gli uomini possono fiorire (M. Volf), e con essa i cristiani possono mettere mano al supporto necessario della buona notizia che hanno tra le mani, la sua proclamazione.

Ecco abbiamo bisogno della pace come un ideale che regoli i nostri passi ora, perché abbiamo questo compito, urgente, per le popolazioni dell’Ucraina e della Russia, ma anche per quelle che vivono a Washington, a Berlino, come a Roma!

Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. 9 Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento (2 Pt 3:18)

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di Valerio Bernardi

Il 28 ottobre di quest’anno ricorre un centenario che gli italiani forse vorrebbero dimenticare: quello della Marcia su Roma, l’avvenimento con cui Benito Mussolini ed il Partito Nazionale Fascista salirono al potere in Italia, trasformando lo Stato liberale in una dittatura che avrà una durata ventennale e che trascinò l’Italia in un vortice di catastrofi politiche e morali che vanno dall’avventura coloniale tardiva in Etiopia, all’approvazione delle leggi razziali fino alla partecipazione, a fianco di Germania e Giappone, nel Secondo conflitto mondiale.

Cosa è stata la Marcia su Roma? Si è trattato di un evento eversivo che ha voluto forzare l’apparato istituzionale liberale (logorato dal primo conflitto mondiale) ed ha portato al potere un partito che non aveva ricevuto la maggioranza dei suffragi del popolo italiano. La Marcia su Roma in sé e per sé sarebbe stata del tutto inefficace se l’apparato militare e la Corona non avessero di fatto avallato il tentativo non firmando lo stato d’assedio della città di Roma che avrebbe permesso all’esercito di arrestare i rivoltosi e di reprimere il tentativo.

Gli storici oggi si chiedono se quanto accaduto si potesse evitare e si potesse prevedere. Per alcuni, come Emilio Gentile, la Marcia su Roma era figlia del clima di violenza scoppiata in Italia nel Primo dopoguerra ed era pertanto inevitabile, anche se non bisogna vedere Mussolini ed il Partito Fascista come i “salvatori” del Paese, quanto come coloro che già avevano in mente di costruire uno stato dittatoriale che limitasse anche le libertà personali e i diritti democratici dei cittadini. Altri come De Bernardi e Fornaro ritengono che l’evento si poteva evitare arrivando a compromessi maggiori sia da parte dei partiti di sinistra che da parte dei liberali. Tutti però sono concordi che quell’atto di “spavalderia” istituzionale ha rotto il fragile equilibrio democratico che con fatica si era costruito nella nostra Nazione e che aveva permesso ad un Paese sicuramente povero ed arretrato di garantire le libertà individuali.

Cosa ha significatoUna lunga marcia verso la libertà per gli evangelici italiani la salita al potere di Mussolini e del Partito Fascista? All’inizio sarebbe potuto sembrare che non ci sarebbero stati effetti particolari e che, anzi il “solido” anticlericalismo del futuro Duce (che aveva scritto un libro dedicato a Jan Hus proprio in chiave anticattolica) e la ricerca di un Uomo nuovo, una sorta di Nuova Nascita per l’uomo contemporaneo (ben esplicitato dal quadro del futurista Balla messo come immagine di questo scritto) potessero essere condizioni per una sorta di alleanza e, forse, per una non interferenza con gli affari religiosi. Del resto, non bisogna dimenticarlo, lo Stato italiano, almeno sino a quel momento, aveva avuto, nelle istituzioni, una certa simpatia per il mondo evangelico, proprio per il suo anticlericalismo dovuto a quanto successo nel momento dell’unificazione. Anche le istituzioni erano state piuttosto aperte nei confronti delle religioni minoritarie, tanto, ad esempio, di aver permesso la presenza di cappellani di altre religioni all’interno dell’esercito che era impegnato nel primo conflitto mondiale.

Le previsioni non si avverarono. Mussolini sapeva benissimo che per poter mantenere il potere doveva scendere a patti con la Chiesa Cattolica a danno sicuramente delle altre confessioni. Fu così che nel 1929 (solo 7 anni dopo la Marcia) Mussolini firmò i Patti Lateranensi, “riappacificandosi” con la Chiesa Cattolica e dichiarando solennemente di trovarsi in uno Stato Cattolico di tipo confessionale. Alle altre confessioni spettò la legge sui culti ammessi che, come alcuni sapranno, è ancora oggi in vigore per alcune confessioni e che, di fatto, prevedeva anche la sorveglianza da parte delle forze di pubblica sicurezza delle attività religiose.

Se la legge sui culti ammessi poteva apparire innocua, non lo saranno i provvedimenti successivi: ci riferiamo alla circolare Buffarini Guidi che di fatto permise la persecuzione dei Pentecostali italiani per motivi di “tutela della razza”. Questa circolare sarà abolita solamente nel 1955 dallo Stato italiano, con grande ritardo rispetto alla garanzie costituzionali (di come se ne è usciti ce ne ha parlato Giancarlo Rinaldi in Una lunga marcia verso la libertà che le edizioni Gbu propongono in offerta per l’occasione). Accanto ad essa non va dimenticata l’approvazione delle leggi razziali che permise la persecuzione degli Ebrei anche in Italia con tragici risultati. Ci furono dopo il 1936 diversi provvedimenti contro le missioni evangeliche straniere ritenute nemiche della patria.

Per questo motivo gli evangelici subirono una battuta d’arresto durante questo periodo in cui subirono delle vere e proprie persecuzioni e dovettero aspettare gli anni 1950 per riuscire a riprendere in parte le forze grazie anche ai massicci aiuti provenienti dai fratelli delle chiese anglo-sassoni.

Ricordare la marcia su Roma a cent’anni, quindi, per tutti noi, deve significare riflettere profondamente su quali possano essere stati gli errori che furono fatti all’epoca, su come un clima di violenza (assolutamente contrario alla predicazione del Vangelo) abbia potuto portare ad un evento che si è rivelato catastrofico, a non dover dimenticare che la proclamazione del Vangelo è una predicazione che vuole la liberazione dell’uomo e che è contro qualsiasi forma di idolatria anche quella legata al culto della personalità, al pensare che, oltre Gesù, ci possa essere un uomo della “Provvidenza” che, in un periodo di crisi, possa portare soluzioni limitando la libertà dell’individuo, quella delle comunità che su auto-organizzano e perseguitando persone di origine diversa.

(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

L’articolo La scelta eversiva che bloccò l’Italia. Riflessioni di un evangelico a 100 anni dalla Marcia su Roma proviene da DiRS GBU.

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Appunti dal XV Convegno di Studi

Gloria a Dio! Dopo due anni di pandemia in cui l’incontro annuale in presenza del Convegno Nazionale GBU a Montesilvano è stato rinviato, nei giorni del 13-15 maggio 2022 è stato possibile rivivere questo importante appuntamento dal vivo. Stesso luogo, stesso mare, volti noti alcuni, meno altri; ma stesse sensazioni di sempre, nonostante l’inusuale periodo dell’incontro svoltosi in passato in clima autunnale; stavolta il sole batteva caldo, il mare era calmo e invitante. Il periodo ha fatto sì che in quei giorni non fossimo i soli residenti dell’hotel: lottatori di varie categorie di combattimento e motociclisti di Harley Davidson tenevano in contemporanea i loro raduni. Il diavolo e l’acqua santa sembrerebbe… Ma i Gruppi Biblici Universitari ci hanno sempre abituato a ben altro: mai a categorizzare ma a sfidare proprio i nostri preconcetti, a discutere di noi stessi e della nostra identità in Cristo, a guardare in che modo pensiamo e viviamo la nostra fede, in rapporto alla società che ci circonda. In pratica, niente diavoli e niente acquasanta, tutti sulla stessa tipologia di barca, con la sola differenza del timoniere a cui si affida la propria imbarcazione. Anche quest’anno il GBU ha organizzato le tematiche e gli incontri raccogliendo le sfide della contemporaneità, permettendo un’analisi del nostro vivere la fede, non solo nella nostra intima relazione con il Signore, ma anche all’interno della società in cui viviamo. L’oratore di quest’anno era lo psichiatra dr. Pablo Martinez, volto già noto agli amici del GBU per essere stato già oratore nel (). Purtroppo le sue condizioni di salute gli hanno impedito di essere in presenza, ma se qualcosa di buono è scaturito da questi due anni di pandemia e smart working è stato  proprio il miglioramento e l’accessibilità delle piattaforme streaming: grazie ad internet abbiamo potuto avere Pablo Martinez, in diretta esclusiva per il convegno, che parlava dal suo studio a Barcellona. Oltre al nostro fratello dalla Catalogna abbiamo avuto molti seminari in loco, tenuti dai volti più accademici, amici e componenti, del GBU; tali seminari hanno esaminato temi rilevanti e particolarmente ostici, quali il rapporto tra fede e: conflitti storici, politically correct e relazioni amorose. Per niente scontato è sottolineare come tutto sia stato trattato secondo una prospettiva puramente biblica e scritturale ma nella santa ricerca di modalità di espressione di tale fede che potessero trasmettere l’amore di Gesù.

L’ultimo seminario, la domenica mattina, è stata la testimonianza di due medici che hanno combattuto in prima linea la pandemia e di un neuroscienziato, Nicola Berretta, che ha dato una prospettiva scientifica della natura dei virus e dei vaccini, prospettiva in netto contrasto con tante teorie stravaganti che, purtroppo, hanno fin troppo preso piede tra alcuni credenti negli ultimi anni. L’incontro è online su YouTube, e l’invito è quello di ricercarlo, ascoltarlo e condividerlo. Spesso la nostra fede viene messa a dura prova, spesso la mettiamo noi in situazioni contraddittorie: la certezza è che la nostra speranza è l’onnipotenza di Dio, che è in controllo, e la nostra guida comportamentale deve essere l’amore di Gesù.

Claudio Pasquale Monopoli

 

Il tema del convegno era “curare la fede”, ovvero afferrare, proteggere e proclamare la verità. Ci sono stati diversi aspetti che mi hanno colpito, che mi hanno fatto riflettere su come io vivo la mia fede nel contesto storico e sociale in cui mi trovo, al di fuori della chiesa ma anche al suo interno. Pablo Martinez, infatti, ha portato inizialmente l’attenzione sull’epoca in cui ci troviamo, caratterizzata da un soggettivismo di fondo in cui ognuno si è artefice della propria etica, dove è difficile presentare la nostra fede come LA verità e non UNA verità tra le tante. Il risvolto morale è profondamente implicato, proprio perché ciò che viviamo nella pratica, ciò che rappresenta l’esperienza di vita che necessariamente deve rinnovarsi costantemente, è il frutto della verità che facciamo nostra. È così allora, che anche all’interno della chiesa, la Bibbia diventa solo uno strumento che orienta e indirizza e che viene relativizzata dal mondo e dai cristiani stessi. Per opporci alla distruzione della fede, quindi, è importante sapere in cosa crediamo e cosa proteggiamo: una verità RIVELATA da cui possiamo attingere meditando la Parola; una verità INCARNATA nella persona di Gesù Cristo, immagine dell’amore e della Grazia che deve formarsi progressivamente in noi e una verità ILLUMINATA tramite l’azione dello spirito santo che ci guida e ci sostiene. Come ultimo oggetto di riflessione, il dr. Martinez ha portato la storia degli amici di Daniele nella fornace come esempio pratico di una fede che sa dire no. La loro, infatti, è stata la dimostrazione di cosa significhi avere una fede integra e quindi matura, che sa discernere, che sa mettere dei limiti alla tolleranza; una fede equilibrata, radicale ma non estremista, una fede ben fondata sulla fiducia di Dio, sull’ubbidienza e sul coraggio.

Questo convegno mi ha fatto pensare molto alla componente decisionale intrinseca alla mia fede. Troppo spesso si finisce per scadere in ciò che Pablo ha definito come “mimetismo”, ovvero l’adattare la propria fede in base al contesto in cui ci si trova per sembrare “normale”. Se il dogmatismo è l’esempio di una cattiva testimonianza, allora il mimetismo ne rappresenta la morte.

Afferriamo la verità, salvaguardiamo la fede, occupiamoci di lei nella prova, sapendo che Dio soffre con noi e ci protegge.

 

Eleonora Basirico

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Prosegue la pubblicazione – settimanale – di otto paragrafi (qui il secondo) del libro del teologo di orgine croata Miroslav Volf, che sarà in libreria a Maggio, dal titolo Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie. Il libro è una raccolta di brevi scritti, alcuni dei quali hanno poi visto un loro ampliamento in libri tematici.

 

Fatevi un regalo, e mettete la Teologia della speranza di Jürgen Moltmann sotto il vostro albero di Natale (Cfr. tr. it. J. Moltmann. Teologia della speranza. Ricerca sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia, 1970). Moltmann ha pubblicato il libro in tedesco più di cinquant’anni fa. È stato tradotto in inglese tre anni dopo (1967), è diventato immediatamente una celebrità teologica negli Stati Uniti. Il libro è anche andato sulla prima pagina del New York Times1. Uno dei principali temi della Teologia della speranza è l’Avvento, e sarebbe bene che ci ricordassimo di questo libro straordinariamente importante.
L’immensa, originale popolarità del libro deve molto al fatto che quando fu pubblicato, la “speranza” era nell’aria. Era l’“era Kennedy” negli Stati Uniti e il periodo del movimento dei diritti civili portato avanti da Martin Luther King jr. Il mondo occidentale stava per esperire il potere dei movimenti studenteschi radicali. La “Primavera di Praga” sarebbe arrivata presto in Cecoslovacchia, frutto di una crescente democratizzazione delle società socialiste dell’allora defunto Secondo Mondo. E nel Terzo Mondo dei tardi anni ‘60, la decolonizzazione era in pieno movimento e gli intellettuali giocavano con le idee di Marx. La Teologia della speranza cavalcava un’ondata globale di speranza sociale. Come Moltmann ha detto, il libro aveva il suo proprio kairos, o il momento opportuno.
Ma kairos è una benedizione ambivalente per un libro. Dal lato positivo, spinge il libro davanti all’attenzione pubblica. Dal lato negativo, schiaccia la sua interpretazione in un modello determinato. Chiunque parla del libro, ma praticamente nessuno lo apprezza e lo comprende in maniera appropriata.
Con qualche importante eccezione (per esempio quella del movimento dei diritti civili) ciò che era nell’aria, quando apparve Teologia della speranza, non era speranza, ma ottimismo. Le due cose sono facilmente confondibili. Sia l’ottimismo sia la speranza includono aspettative positive riguardo al futuro. Ma, come Moltmann ha sostenuto in maniera persuasiva, sono prese di posizione radicalmente diverse verso la realtà.
L’ottimismo è basato sulla causa «estrapolativa e il pensiero effettivo». Traiamo conclusioni sul futuro sulla base dell’esperienza del passato e del presente, guidati dalla convinzione che gli eventi possano essere spiegati come effetti di cause precedenti. Dal momento che “questo” è accaduto, concludiamo che “quello” dovrebbe accadere. Se un’estrapolazione è corretta, l’ottimismo è ben fondato. Sin da quando mio figlio Nathanael poteva prendere Il piccolo orso e leggerlo quando era all’asilo, potevo legittimamente essere ottimista che sarebbe andato ragionevolmente bene in prima elementare. Se l’estrapolazione non è corretta, l’ottimismo non ha buone basi, è illusorio. Aaron, che ha due anni, è molto bravo nel lanciare una palla. Ma sarebbe sciocco da parte mia scommettere che otterrà un contratto multimilionario con una squadra di calcio e avrà cura di me dopo il pensionamento.
Le nostre aspettative sul futuro sono basate per la maggior parte su tale pensiero estrapolativo. Vediamo lo splendore arancio all’orizzonte e ci aspettiamo che la mattina sarà immersa nel sole. Un tale ottimismo informato e ben fondato è importante per la nostra vita privata e professionale, per il funzionamento delle famiglie, per l’economia e per la politica. Ma l’ottimismo non è speranza.
Uno dei più durevoli contributi della Teologia della speranza di Moltmann è stato quello di insistere che la speranza, al contrario dell’ottimismo, è indipendente dalle circostanze in cui le persone vivono. La speranza non è basata sulle possibilità della situazione e sulla corretta estrapolazione per il futuro. La speranza è basata sulla fedeltà di Dio e perciò sull’efficacia della promessa di Dio. E questo mi riporta al tema dell’Avvento.
Moltmann distingueva tra due maniere in cui il futuro si rapporta a noi. La parola latina futurum ne esprime una. «Il futuro nel senso di futurum si sviluppa a partire dal passato e dal presente, in quanto passato e presente hanno dentro essi stessi la potenzialità di divenire e sono “pregni di futuro”». La parola latina adventus esprime l’altra maniera in cui il futuro è relazionato con noi. Il futuro nel senso di adventus è il futuro che viene non dal campo di ciò che è o di ciò che era, ma dal campo di ciò che non è ancora, «dal di fuori», da Dio.
L’ottimismo è basato sulle possibilità delle cose come dovranno essere; la speranza è basata sulle possibilità di Dio senza tener conto di come sono le cose. La speranza può sorgere anche nella valle dell’ombra della morte; infatti è proprio lì che si manifesta realmente. La figura della speranza nel Nuovo Testamento è Abramo, che ha sperato contro ogni speranza perché credeva nel Dio «che fa rivivere i morti, e chiama all’esistenza le cose che non sono» (Rom 4:17–18). La speranza prospera anche in situazioni in cui, per il pensiero estrapolativo di causa–effetto, si dovrebbe concludere soltanto con una totale disperazione. Perché? Perché la speranza è basata sul Dio che viene nelle tenebre per scacciarle con la luce divina.
Ogni anno nella stagione dell’Avvento leggiamo il profeta Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre, vede una gran luce; su quelli che abitavano il paese dell’ombra della morte, la luce risplende» (Is 9:1). In ciò è racchiuso tutto il significato del Natale, qualcosa di radicalmente nuovo che non può essere generato dalle condizioni di questo mondo. Viene. Non lo possiamo estrapolare. Dio lo ha promesso.
Se le tenebre sono discese sopra di noi e sopra il nostro mondo non ci occorre tentare di sostenere che le cose non sono così male come sembrano o cercare di essere disperatamente ottimisti. Ricordiamoci invece di un semplice fatto: la luce di Chi era all’inizio con Dio brilla nelle tenebre e le tenebre non prevarranno. Se ci occorre una lunga e plausibile spiegazione per supportare questo invito, scartate quel libro di Moltmann che è sotto l’albero di Natale, prendete qualcosa di caldo da bere e entrate nel mondo dell’Avvento, della promessa, della speranza.

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Ascoltare il mondo

Nell’ascoltare la Parola, la prima anta del dittico stottiano (vedi qui), non siamo riusciti a identificare una teologia “evangelica” della guerra; e come si potrebbe? Saremmo presuntuosi, vista la lunga tradizione della riflessione cristiana sulla “guerra giusta”, che è sempre una teoria di guerra, che poco deve al dettato biblico nel suo insieme, a meno di non cadere nelle trappole ermenutiche di alcune tradizioni teologiche che non hanno il senso della progressione della rivelazione biblica tanto da prefigurare una riproposizione teonomica dell’AT, oppure immaginano una sospensione della legge di Cristo.

Già, perché dal nostro sguardo gettato nella Bibbia nell’intento di ascoltarla in tempo di guerra, non abbiamo potuto ignorare l’imponente figura del Figlio di Dio incarnato (incomparabile, lo definiva sempre John Stott in un altro suo libro). E’ lui, il Figlio di Dio incarnato, inchiodato e innalzato, e confessato dai cristiani come Signore di questo mondo, a rappresentare il contributo biblico essenziale in ogni tempo, anche in tempi di guerra: Gesù Cristo Regna!

C’è la guerra? Ahimè; ma i cristiani parlano e voglinoo incarnare la vita nuova del vangelo, di Gesù Cristo.

Ma come, e dove? Se si va nelle zone di guerra ci sarebbe solo un’opzione, l’azione umanitaria e sanitaria (ricordate Desmond Doss, l’obiettore di coscienza di Hacksaw Ridge?). Già questo non sarebbe mica niente.
Ma al mondo non c’è solo la sanità e la dimensione umanitaria e, dunque, nuovamente, come incarniamo la voce di Gesù Cristo nel fragore della battaglia?

Sicuramente l’intreccio tra abbassamento e innalzamento del Figlio di Dio rappresenta la porta d’ingresso; viviamo in un mondo in cui il Figlio di Dio regna ma lo fa con armi non di questo mondo.
Sicuramente la diplomazia, le politiche non violente, l’integrazione e il multiculturalismo (perché non una soluzione del genere nel Donbass? Una soluzione a la Quebec?) stanno tutte dalla parte di un’adesione, anche inconsapevole al Regno di giustizia e di pace di Gesù Cristo (inconsapevole: esistono i cristiani anonimi in questo campo? una versione secolare degli operatori di pace del Sermone sul Monte?).

A un cristiano non dovrebbero interessare le argomentazioni di chi, pur riconoscendo la responsabilità della Russia nella drammatica invasione dell’Ucraina, cerca di trovare ragioni o spiegazioni nel comportamento della Nato o nel delirio di onnipotenza del padrone della nuova Russia.

Personalmente non mi convince la prima ipotesi, alla quale si potrebbe rispondere con un’argomentazione simmetrica che porta ad azzerare le posizioni ideologiche che si contrappongono: se è sbagliato che la Nato si avvicini alla Russia, perché sarebbe giusto che la Russia si avvicini alla Nato?; trovo abbastanza inquietante la seconda ipotesi – quella dell’espansione di una sorta di impero zarista (non lo nego: sono schierato; ma spero di dimostrare che le ragioni dello schieramento non sono politiche; speriamo!).

A un cristiano dovrebbe invece interessare una domanda cristologica: che ne è di Gesù Cristo e del suo Vangelo nel mondo in cui viviamo? A San Paolo, come a Denver, a Londra come a Rostov, passando per Kiev e Varsavia; a Kabul come a Pechino, Tokio e Melbourne, e naturalmente Mosca.

E’ una domanda geopolitica che discende direttamente dalla preghiera che Paolo insegna a Timoteo: bisogna pregare per i governanti (per Zelesky, Putin e compagnia cantando) affinche, così sostiene il grande apostolo:
possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità. 3 Questo è buono e gradito davanti a Dio, nostro Salvatore, 4 il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità. 5 Infatti c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, 6 che ha dato se stesso come prezzo di riscatto per tutti; questa è la testimonianza resa a suo tempo, 7 e della quale io fui costituito predicatore e apostolo (io dico il vero, non mento), per istruire gli stranieri nella fede e nella verità (1 Tm 2).

Qui ce n’è per tutti, anche per coloro che pensano che la dignità possa equivalere al quietismo consumistico delle società occidentali. Ce n’è per tutti perché la valutazione dei regni di questo mondo non è geo-politica ma geo-teologica. Che ne è di Gesù Cristo nelle varie terre del globo terracqueo?

Negli ultimi tempi in alcuni circoli evangelici si è parlato molto di un risveglio dell’Europa di un revive Europa affinché questa terra venga strappata al secolarismo che l’attanaglia. Ma pensiamo per un attimo a questo anelito, e pensiamolo in chiave cristologica: che cosa significa?
Significa forse che l’Europa deve tornare ai fasti (ne­­-fasti) del Sacro Romano Impero? Che deve iscrivere nelle proprie carte d’identità, per forza, di essere una terra cristiana? E magari legiferare contro la corruzione del genere umano a partire da gay etc… Ma a questo punto si capisce bene dove si va a parare; le abbiamo sentite queste cose, negli ultimi tempi, dalle parti di Mosca.

Oppure forse vorrà dire avere la libertà di professare la verità del Vangelo, magari a un angolo di Hyde Park, oppure con le pittoresche tende evangelistiche nei polverosi paesi del sud Italia come avveniva negli anni ’70, ’80. Noi che siamo figli di una generazione che quando parlava di Gesù Cristo poteva ancora suscitare la veemenza di qualche parroco o vescovo di Santa Romana Chiesa, sappiamo che cosa significa interpretare cristologicamente una terra: significa desiderare di avere la libertà di parlare di Gesù Cristo.

E non è forse l’Europa, la perenne incompiuta, uno degli ultimi posti in cui poter parlare liberamente di Gesù Cristo a una popolazione secolarizzata, anzi, poterlo fare proprio in ragione del secolarismo laicista? Neanche negli USA di Trump o nel Brasile di Bolsonaro, figuriamoci nella Russia di Putin (nell’Ucraina di Zelesky forse sì?) si poteva fare una cosa del genere, negli ultimi tempi, senza rischiare di essere confusi con i fautori dello slogan Dio-Patria e Famiglia che è una sorta di anti-vangelo.

Se è corretta questa prospettiva geo-teologica cristologica, allora a doversi svegliare sono altre terre e non l’Europa!

Che bello vivere in un posto in cui è possibile usufruire della libertà di religione e di culto. E, se posso dire la mia anche in campo politico, sono contento di vivere in un posto in cui governi non sanno che pesci prendere: tra l’alternativa dell’olocausto nucleare e la necessità di trovare un modo per fermare la guerra. Questa è la realtà; se l’Europa scovolasse da una parte o dall’altra sarebbe in entrambi i casi un errore.

Eccolo qui, a mio giudizio, il suono che vogliamo ascoltare quando ascoltiamo il mondo: vogliamo la libertà di professare il Signore Gesù Cristo; e non c’importa se intorno a noi proliferano le manifestazioni dei peccati sessuali (vs. Kirill): per questo c’è il Vangelo!

La libertà di religione una volta si diceva che era la madre di tutte le libertà! Ecco che cosa deve interessare un cristiano, soprattutto evangelico e in particolare italiano. E’ questo criterio che ci dice da che parte stare. Non ci sono sé non ci sono ma!
Chi ha ascoltato e vissuto le epoche della cortina di ferro, chi ha ascoltato Paul Ricoeur raccontare dei suoi viaggi in incognito per incontrare personalità della cultura, ma anche delle fedi a Praga, sotto la statua di Jan Hus (ma guarda), non ha dubbi quando intravede gli spettri di quella odiosa restrizione della libertà di religione e di culto.

Ma bisogna combattere per la libertà di religione?
E’ difficile rispondere a questa domanda. Sicuramente Gesù Cristo non vuole i cappellani militari e la benedizione dei cannoni. No, questo no; di questo sono convinto!

Nella nostra storia risorgimentale abbiamo molti esempi di cristiani che nel considerarsi cittadini del cielo, hanno seguito Garibaldi per costruire una patria … in cui professare la propria fede; o hanno appoggiato Cavour (in Crimea sic!). E non si pensi che gli orchi ostili erano solo i cattolici: si pensi ai Padri Pellegrini, a quello che lasciavano in Inghilterra e a quello che rimuovevano nel Nuovo Mondo. O si pensi alla riflessione di un Roger Williams contro la Sanguinaria dottrina della persecuzione per causa di coscienza.

Forse, come in molti altri campi, piuttosto che cercare risposte globali possiamo rivolgerci alle coscienze dei singoli. Sappiamo che in tutti gli eserciti del mondo (penso a quelli occidentali) ci sono molti cristiani che esprimono la loro esperienza di fede con il linguaggio della nuova nascita (born again). Che cosa dire loro?

Forse possiamo ripetere l’invito al ravvedimento di Giovanni Battista

Lo interrogarono pure dei soldati, dicendo: «E noi, che dobbiamo fare?» Ed egli a loro: «Non fate estorsioni, non opprimete nessuno con false denuncie, e contentatevi della vostra paga

Chissà se dalle parti di Bucha o a Mariupol, qualcuno si è ricordato o si sta ricordando di queste parole e non si è macchiato, e non si sta macchiando, le mani di sangue.

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Fyodor Raychynets è un pastore ed un teologo battista a Kiev ed è capo Dipartimento dell’Evangelical Theological Seminary situato nei sobborghi a nord di Kiev, a circa 20 km dal centro. Fyodor posta quotidianamente aggiornamenti e riflessioni sulla sua pagina Facebook, che terminano, dopo una riflessione sulla situazione della guerra, con una preghiera in Ucraino. Il 13 marzo è stato intervistato dal teologo Miroslav Volf ed ha rilasciato la sua testimonianza su quanto sta accadendo. Riportiamo alcuni dei brani significativi di questa intervista che può essere ascoltata e letta integralmente sul sito del podcast, curato dallo Yale Center for Faith and Culture, al seguente link, https://podcasts.apple.com/us/podcast/a-voice-from-kyiv-fyodor-raychynets-faithful/id1505076294?i=1000554072619. Attualmente Fyodor continua a pubblicare un post ogni giorno su FB per aggiornare sulle sue impressioni sul conflitto da credente e da cittadino dell’Ucraina. Non necessariamente dobbiamo essere in accordo con tutto quello che afferma (comunione “aperta” o spiccato nazionalismo in alcune affermazioni, giustificato dalle circostanze probabilmente), ma la sua rimane una forte testimonianza che merita di essere letta.

Alla domanda sulla situazione bellica del luogo in cui si trova ha così risposto:

[…] Oggi è stato particolarmente straziante perché il nostro seminario è stato colpito. Un missile lo ha colpito e poi è esploso. Il raggio dell’esplosione è stato di circa 30-50 metri. Pertanto tutte le finestre si sono rotte. E così ci sono un sacco di vetri rotti tutti attorno, mattoni rotti, alberi divelti. […]. Per dirlo con un’espressione: si tratta di una scena apocalittica, capisci? Se vorresti vedere un film con una scena apocalittica, lo potresti fare qui ora.

Una testimonianza particolare è stata quella della celebrazione della Cena del Signore aperta durante la guerra e con i soldati di cui il teologo ucraino dice:

“Sono stato invitato giovedì pomeriggio a servire ai militari la Cena del Signore. E siamo andati andati lì ed è stata un’esperienza travolgente per me, perché nei Balcani, ho iniziato a credere in ciò che chiamiamo una Cena del Signore aperta: dove ognuno è il benvenuto, e quando c’è qualcosa di scandaloso nella Cena del Signore, lì c’è l’evento. Perché ci sono sempre persone che non dovrebbero essere lì secondo la nostra prospettiva teologica o il nostro credo teologico e così via. Quando siamo andati lì e ogni volta che mi sono trovato in questo tipo di situazione in cui servo la Cena del Signore, dico sempre alle persone, chiunque esse siano e di qualunque chiesa siano od anche a coloro che non appartengono a nessuna chiesa che io verrò a loro con il pane e dirò “Questo è il corpo di Cristo rotto per te” e devono solo dire “Amen”. E penso che ogni volta che dicono “Amen” sono d’accordo. Quel corpo di Cristo è stato spezzato anche per loro. E dovunque è accaduto, specialmente ieri, quando, servendo la Cena del Signore la stavo spiegando, c’è sempre una persona che non ha alcun tipo di formazione religiosa. E quando la servivamo loro lì, commentavamo quello che facevamo. Abbiamo semplicemente detto. “Questo è come facciamo. Siamo venuti a voi e diciamo “Questo è il sangue di Cristo sparso per voi”. E quando la persona (non credente) ha detto “Amen” è stata un’esperienza toccante. Credo che siamo soltanto stati uno strumento in questo tipo di situazione. E c’è una più grande invisibile presenza della grazia di Dio che può fare qualcosa che noi non possiamo fare. Per me in questa situazione, è più importante fare questo salto di fede, un passo verso la fede. E farlo quando le persone lo chiedono. E poiché ci dicono che vogliono prendere parte alla Cena del Signore prima della battaglia non diciamo che lo faremo.

Sulle responsabilità di Putin e della Russia per il conflitto Fyodor ha così commentato:

“Oggi ero veramente dispiaciuto nel leggere le notizie dalla Russia che 700 rettori, o presidenti delle Università russe, hanno firmato una lettera per appoggiare la guerra di Putin. Pertanto ovviamente non è solo un problema di Putin. E’ un problema di portata più ampia. Quando gli intellettuali appoggiano questo tipo di aggressione, abbiamo un problema serio. Non soltanto con quello che potremmo chiamare un dittatore da bunker. Voglio dire una persona che si è chiusa in un bunker che ha quindi perso il senso della realtà. Ha perso contatto con il mondo. Ma guardando alcune riprese video, quando i giornalisti escono per le strade di Mosca e San Pietroburgo, e questi sono i luoghi dove la maggior parte dell’élite culturale risiede, e chiedono alle persone cosa pensano della guerra in Ucraina, le loro risposte sono molto deludenti per noi. Perché ci dicono chiaramente che non vi è soltanto una persona ossessionata. Questa persona ha l’appoggio per questo tipo di aggressione. Ed è storicamente radicato, perché gli Ucraini sono stati sempre stati una spina nel fianco dei Russi per la loro libera volontà. Noi amiamo la libertà. Amiamo questa libertà che ci porta al caos. Il caos politico, o qualsiasi caos, è come siamo noi. Questo sono gli Ucraini. E questo amore della libertà, questo amore per la democrazia, è quello che ci ha portato a eleggere un clown come nostro Presidente! Questa è una cosa che dà molto fastidio ai Russi. E penso che ci sia, voglio esprimerlo in questa maniera, che ci sia un Putin collettivo. […] Non si tratta soltanto di una persona ossessionata. Perché la nostra élite sta cercando di contattare la loro élite e di dire: “La gente andasse per le strade. Dite che siete contrari a questa guerra crudele, che siete contro questo amore che uccide il fratello e contro la guerra” e così via. […] Possiamo dire che il problema è che i Russi hanno un re nelle loro teste. E il problema degli Ucraina è che non hanno nessun re nelle loro teste. E questo per dirla in breve. Perché, quando pensassimo che il nostro presidente sta diventando un imperatore, lo cacceremo immediatamente, come abbiamo fatto nel 2014. E pertanto nella nostra situazione, non possiamo avere Putin.”

Volf ha poi chiesto al Raychinets un parere sulla posizione della Chiesa Ortodossa a proposito del conflitto.

“[…] Il patriarca Kirill sta appoggiando apertamente Putin. Infatti conosco alcuni miei amici, del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che mi hanno inviato notizie di alcuni tentativi di contattare il Patriarca e di chiedergli a voce, almeno a voce, la sua posizione. Se fosse pro o contro la guerra e che rendesse chiara la sua posizione. Bene, c’è stato silenzio, Ma come sai, il silenzio in tempi di crisi morale non è un segnale positivo. Ma facciamo un altro esempio: in Ucraina, abbiamo tre rami della Chiesa Ortodossa. In realtà ora ne abbiamo due, ma c’è una piccola parte che è un terzo ramo della Chiesa Ortodossa. Ma ce n’è una che chiamiamo Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca. Queste parti avevano una chiarissima posizione sulla guerra. E’ comprensibile, perché sarebbe la fine della Chiesa in Ucraina. Ma dall’altro lato, abbiamo la parte russa che resta in silenzio. Ma ciò che ci ha preoccupato come evangelici è che non soltanto la Chiesa Ortodossa è silente, ma che i leader più importanti delle chiese evangeliche sono rimasti in silenzio. E questo ci ha dato molto fastidio. Come diciamo in Ucraina, la guerra non è iniziata 18 giorni fa, ma 8 anni fa. E per tutti questi 8 anni, hanno appoggiato Putin nella ambizione imperiale di ingoiarsi l’Ucraina. Ma ciò che ci preoccupa anche è  che l’Ucraina non è il suo obiettivo finale. E questo l’Europa non l’ha colto ed è un peccato.”

L’intervista si conclude con un’esortazione all’Occidente di agire per fermare il conflitto in qualsiasi maniera. Ecco cosa viene affermato.

“[…] nella parte occidentale del mondo, nelle democrazie liberali, il pubblico dovrebbe costringere i governi a fare qualcosa.  E l’unico messaggio che vorrei comunicare che vorrei comunicare è, in primo luogo, che non dovrebbero avere paura di Putin, perché gli ucraini hanno fatto scoprire che la seconda forza militare del mondo non è la seconda forza militare del mondo. E’ soltanto un bluff, il grande bluff di Putin. Pensavano che in due tre giorni avrebbero occupato l’Ucraina. Che avrebbero occupato Kiev, Se avessero ucciso il nostro presidente, avrebbero cambiato il governo e controllerebbero l’Ucraina. Ora siamo al diciottesimo giorno in cui ci confrontiamo con questa superpotenza militare e non è così forte come ci si è stato detto. Questa è la prima cosa. La Nato può vedere che non è così forte come pensavano. La seconda cosa è che non si fermerà in Ucraina. Questo chiediamo, quando preghiamo l’Occidente “Chiudete i nostri cieli”, ci piacerebbe che lo facessero per aiutarci. Ma vi è qualcosa che ci lascia delusi dall’Occidente. Il fatto che sono con noi, che hanno compassione. Che ci aiuterebbero realmente, ma che non lo fanno. Non so cosa non va con la politica in questo mondo.”

In una situazione di guerra, la fede è messa sempre alla prova. Alla domanda di come si vive la fede in una situazione di conflitto reale, di come quotidianamente un teologo vive durante un periodo di guerra, questa è stata la risposta.

“Ho lottato con la mia fede nel mio percorso teologico e pastorale. Perché per me, è stato sempre importante nella teologia, nella nostra convinzione, di essere sincero. […] E’ una sfida sostenere una fede nella situazione dove c’è la sensazione che non puoi controllare nulla di ciò che sta accadendo. Non puoi cambiare nulla. Non puoi avere alcuna influenza sulla situazione che la cambierebbe nella maniera che tu vorresti. […] Ma dall’altro lato, penso che in quella situazione, quando tu non hai il controllo di nulla, quando giaci nel tuo letto e non sai se il luogo dove tu starai stanotte rimarrà in piedi sino alla mattina, e quando la mattina sei stanco e non vuoi fare nulla, vuoi stare solo seduto in un luogo sicuro, e non pensi minimamente di uscire. Quando però ti ricordi di queste persone e ti ricordi dei loro bisogni, e ricevi delle telefonate su cosa hanno bisogno e confidi nel Signore, allora dici “andrò”. E se morissi, almeno morirò per la giusta causa. Stavo cercando di aiutare qualcuno. Non è così semplice come può apparire […] La tua fede è sfidata dall’affermazione di un soldato che dice: “Tu vai lì sotto la tua propria responsabilità”. E’ così. Ed allora non sai se andare o rimanere. O hai paure di andare, o rischi la tua vita e tu vai perché qualcuno ha bisogno della tua presenza. E non si tratta dei tuoi parenti. Queste sono persone che non hai conosciuto se non qualche giorno, e forse non avevi idea della loro esistenza sino a ieri, ma ci sono dei legami con queste persone. E non le puoi abbandonare. Non puoi tradirle. Tu sei un pastore, E si sa, che non è l’unica storia, perché molti pastori hanno lasciato Kiev sin dall’inizio della guerra. Non so se torneranno, come possano guardare negli occhi la gente quando l’hanno abbandonato in questa situazione miserabile. […] Questa è la fede che ti sfida ogni giorno. “Ok. Puoi andare o restare sicuro”. Ho centinaia di esempi che posso citare. Un mio amico in Inghilterra, dice: “So che non lo farai. So che non mi ascolterai, ma vorrei che ti trasvestissi da donna e lasciassi il tuo paese.” Lo sai che come uomo non posso lasciarlo. Ho amici negli Stati Uniti che hanno trovato avvocati che mi vorrebbero aiutare ad immigrare dal paese, ed ho amici in Canada e dovunque che hanno detto: “Fyodor, scappa. Salvati”. E anche questo sfida la tua fede. Ma ti dà anche noia. Questi inviti ti ossessionano. Va semplicemente in un posto sicuro. Potresti essere utile altrove, non soltanto qui. Pertanto non c’è una grande fede. Questa è una sfida. C’è la sfida quotidiana di quando i soldati di avvertono, quanto la gente ti avvisa, quando tua madre ti chiama e ti dice. “Cosa? Sei pazzo? Cosa fai ancora lì? Vieni a casa. E’ sicuro qui. Tuo figlio ti sta aspettando”. E così sei messo alla prova. La tua fede è messa alla prova, non soltanto dalle circostanze, ma anche dalla situazione, anche dai tuoi amati. Da coloro che ti sono più vicini. Mi ricordo della parola di Gesù sul fatto che proprio i tuoi familiari ti daranno più grattacapi e così via. Così questa è la maniera in cui leggo il Vangelo. Leggo il Vangelo di Gesù quando è venuto fuori dal deserto e che quello non era la fine della sua tentazione. Era solo l’inizio. E che sarebbe stato tentato da coloro che gli sarebbero stati più vicini, da coloro che gli sarebbero stati accanto. Lo avrebbero tentato a non vivere nella maniera in cui viveva, a non prendere il sentiero che aveva preso e così via. Così la mia fede è messa alla prova, dalla situazione, ma anche dai miei parenti e dai miei amici sparsi nel mondo.”

Per aggiornare questa testimonianza pubblichiamo, tradotti, anche due degli ultimi post che Fyodor Raychynets ha pubblicato sul conflitto su Facebook.

“Kiev. 42° giorno di guerra. Quando ho iniziato a scrivere post quotidiani qui, sapevo che sarebbe arrivato un giorno in cui non avrei voluto scrivere nulla, e ci sono stati diversi giorni del genere, ma gli eventi che accadevano intorno a me tutto il tempo, hanno portato qualcosa di nuovo su cui volevo riflettere , primo per me stesso, e ovviamente da condividere con gli amici… Oggi è uno di quei giorni… Durante la mia permanenza nei Balcani, mi sono ricordata di una semplice verità che credo sia stata detta o da Mesho Selimovich (che mi piaceva leggere), o da Ivo Andric (unico scrittore balcanico a ricevere il premio Nobel per la letteratura): “Ciò che non è scritto, non esiste” e poi da qualche parte ho letto o sentito che “una stupida matita è meglio di qualsiasi ricordo umano”. Ciò ha cambiato il mio atteggiamento nel sistemare gli eventi della vita su carta. […] Ora è diventato più sicuro muoversi, quando si sta a Kiev, e speriamo presto sarà altrettanto sicuro muoversi nella zona, ma la stanchezza è arrivata non fisica, ma emotiva…. ed è stanchezza non tanto per quello che è stato fatto, ma per quello che si è visto e sentito…Stanchezza, vuoto e riluttanza a dire, scrivere qualsiasi cosa… non perché non c’è niente da dire o scrivere… e perché dalle tue stesse parole, e quelle degli altri non lo rendono più facile… nessuna parola o silenzio può aiutare… non ci sono parole per esprimere tutto, ma è impossibile rimanere in silenzio al riguardo… sperando che passi anche questo… devo solo continuare a imparare con esso ora vivi in qualche modo…La guerra è quando è difficile trovare parole adeguate per descrivere ciò che si prova, si vive, ed è ancora più difficile rimanere in silenzio al riguardo…”

“Kiev. 45° giorno di guerra in Ucraina. Un altro Shabbat senza shalom… invece di shalom qualche allarme interiore poco chiaro dal silenzio che è presente nella zona… anche questo è il primo sabato che non facciamo comunioni a militari e cappellani. La scorsa settimana è stata emotivamente molto controversa e instabile… Durante questa settimana, abbiamo visto i risultati dei bombardamenti di massa, visitando Buca, Borodianka, Gostomel, Irpinov e altro ancora. Le cose che sentiamo da un mese.. che ho visto e mi ha terrorizzato per la portata della distruzione… La settimana è iniziata con buone notizie sulla liberazione della regione di Kiev e si è conclusa con cattive notizie da Kramatorsk… bombardamenti con bombe alla stazione dove si trovavano cittadini pacifici (per lo più donne con bambini), mentre cercavano di evacuare…Quanti altri hanno bisogno del mondo di Buca, Borodyanok, Gostomel, Irpinov, Kramatorskiv per capire finalmente che il linguaggio non riguarda da tempo la guerra, ma un crimine di massa contro l’umanità nel XXI secolo?  Conosci la stanchezza delle buone azioni utili? È una sorta di simbolo di stanchezza fisica, emotiva e morale… questa stanchezza è il risultato di una certa consapevolezza da 40 giorni che la scala del disastro umanitario e del bisogno è così enorme, e il tuo aiuto e la tua buona azione sono così miserabili, e non sei in grado di cambiare nulla in questa evidente sproporzione…Stanco di affrontare emozioni che ancora non sai come affrontare tutti i giorni… Stanco delle domande morali a cui non avevi mai pensato prima, e devi ammettere ormai che non hai le risposte a queste domande… stanco del numero di domande a Dio che ti riecheggiano… Stanco di voler fare qualcosa solo per distrarti dalle emozioni e dai pensieri che ti feriscono..

Dio salvi l’Ucraina, prenditi cura dei suoi difensori, del suo popolo che soffre, dai fuoco a tutti coloro che sono rimasti feriti in questa guerra e non sono in grado di affrontare la dolorosa perdita… Donaci la pace desiderata, non solo la pace, ma una pace giusta…

E tutto il resto amici, se Dio vuole, dopo la vittoria…

(testo tradotto e curato da Valerio Bernardi)

L’articolo Una voce da Kiev, la testimonianza di del teologo ucraino Fyodor Raychynets proviene da DiRS GBU.

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di Giacomo Carlo Di Gaetano

Si deve l’espressione “duplice ascolto” a John Stott, il reverendo evangelico anglicano che ha influenzato enormemente il movimento evangelico del ‘900. Con questa espressione egli voleva indicare la necessità che i cristiani si ponessero nella condizione di un ascolto duplice nei confronti della Bibbia e nei confronti del mondo in cui vivono; questo al fine di far si che la loro testimonianza fosse a un tempo biblicamente fondata e autenticamente rilevante per le donne e gli uomini di oggi. Stott non era il primo ad aver indicato questa duplicità della sensibilità cristiana. Qualcun altro prima di lui (forse Oscar Culmann) aveva usato l’immagine del cristiano con la Bibbia in una mano e con il giornale sotto il braccio.

Queste immagini sono suggestive e rimandano a un tempo in cui i cristiani, in pieno benessere economico e sociale, si chiedono in che modo la loro testimonianza può essere radicale, può fare la differenza. A me paiono immagini che si collocano perfettamente in un tempo di pace in cui meditare, quietamente, e leggere il giornale, sono attività che possono essere svolte senza molti patemi d’animo. La parola d’ordine è influenzare, essere presenti, contare!

Ma, mi chiedo, proprio nei giorni in cui fanno il giro del web le immagini di Bucha, in Ucraina, esiste una versione del “duplice ascolto” per i tempi di guerra?

Che cosa potremmo ascoltare dalla Bibbia, affinché la nostra testimonianza possa essere rilevante anche mentre il rombo assordante della guerra è ciò che ascoltiamo, al giorno d’oggi?
Proviamoci.

Ascoltare la Bibbia/parola di Dio

Da dove cominciare? Un po’ come per altre questioni (penso alle migrazioni), viene il dubbio: si comincia dall’AT, con le sue definizioni di nazione (Gen 10), di popolo eletto (Gen 12), con le legislazioni precipue sui confini (Torah), con i racconti di guerre di conquista (Giosuè), di atti eroici (quante volte avete ascoltato il riferimento a Davide e Golia, per narrare il conflitto russo-ucraino)? Con i racconti del coinvolgimento divino (Il Signore degli eserciti) e del mondo soprannaturale?

O si comincia con il NT, e in quale punto? Con il testo/pretesto manifesto del pacifismo (la parola di Gesù a Pietro sulla spada che ferisce e fa perire e dunque da riporre nel fodero); con l’insegnamento sulla radice ultima della forza legittima di Romani 13 (da cui la tradizione della guerra “giusta”); dalla visione del potere umano come di un potere bestiale (Apocalisse) e, di contro, dalla visione dell’autorità che indicò Gesù ai discepoli (le nazioni hanno chi li governa … ma così non sia fra di voi)?

Come sempre, abbiamo bisogno di chiavi di lettura globali che, pur partendo da precisi punti (possono anche essere dei singoli versi …) siano in grado di permetterci la ricostruzione di una cornice di senso per l’intero insegnamento biblico, in presenza della guerra. Questa operazione è legittima e sembra sia il compito di precise discipline teologiche come la teologia sistematica e, ancor più, la teologia biblica. Premesso che queste discipline si mantengano libere dall’ossequio a tradizioni teologiche preconfezionate (teologia riformata, dispensazionalismo, etc.); tradizioni che rivelano una particolare fragilità proprio quando si confrontano con il tema della guerra (basta leggere la storia delle teologie evangeliche per rendersi conto della loro fragilità nei confronti del tema della guerra).

Se dunque abbiamo bisogno di chiavi di lettura globali, qui mi permetto di indicarne due.

  1. Nell’etica del NT appare preponderante la dimensione soggettiva e individuale delle relazioni (basti pensare al frutto dello Spirito e ai frutti della carne di Galati 5; al Sermone sul Monte). A differenza dell’AT, dove emerge una dimensione più collettiva (c’è un soggetto “popolo”). Questo naturalmente non significa che nell’AT non sia presente un messaggio per l’individuo e che nel NT sia assente la dimensione collettiva.
  2. Emerge una prospettiva diacronica: le cose di Dio si muovono nella storia, c’è un percorso, una direzione (Oscar Cullmann in Cristo e il tempo e in altri lavori ce lo ha mirabilmente insegnato), c’è una storia della redenzione. C’è un’epoca di altri tempi, con la promessa e l’annuncio, della salvezza e del giudizio, c’è un presente carico di realizzazione ma anche gravido di futuro; c’è un già e non ancora; c’è un eschaton, un tempo ultimo, il nostro, nel quale si intravede però, e ancora, una fase ultimissima.

Bisogna provare a combinare i due piani: per esempio, la dimensione del soggetto, preponderante nel NT, è annunciata nelle pieghe del percorso storico veterotestamentario (amore per Dio e amore per il prossimo), e soprattutto perché a un certo punto si guarda a un Soggetto per eccellenza, il Messia, all’uomo nato per diventare Re, come articolava Dorothy Sayers nella sua lettura del Vangelo di Matteo, enfatizzando, nella vicenda terrena di Gesù, lo scontro con il potere violento e guerrafondaio: all’inizio (cap. 2, Erode, i magi, la famiglia sacra e la strage degli innocenti), e alla fine (cap. 27, sei tu il re dei giudei? Il mio regno non è di questo mondo ..).

Ecco, è la natura del Soggetto per eccellenza, il Messia, confessato come il Signore dalla comunità delle origini a essere forse la chiave di volta per un ascolto attento della Parola, in tempo di guerra, che coniughi dimensione diacronica e concentrazione sull’individuo.

Seguiamo questa pista.

Nella proposizione del suo nome (Salvatore del popolo) e dei suoi titoli, Figlio dell’uomo, tra gli altri, Gesù riassume in sé la partecipazione alle vicende umane tipica dell’AT, dove si parlava del Signore degli Eserciti, e ne rivela la direzione ultima nonché la sua modalità d’azione (Principe della pace). Lì, nell’AT, lo vedevamo presentarsi come un guerriero (a Mosè, a Giosuè), come ombra dietro ai monarchi espansionisti Davide e Salomone. Ma non va dimenticato, tra l’altro, che il Signore degli Eserciti non era tale solo all’esterno ma lo era anche all’interno, per il suo popolo, che non risparmiava quando legava la sua identità a fattori etnici e nazionalistici e se non allontanava l’idolatria, la vera madre di tutte le guerre.
Questi temi rappresenteranno una costante nella predicazione di Gesù e nel conflitto con le autorità politiche e religiose del suo tempo.

Un tempo, dunque, Dio era Dio degli eserciti non perché e semplicemente era al comando di uno specifico esercito contro altri eserciti; ribadiamolo: poteva anche sbaragliarlo, il suo esercito, in presenza di una contaminazione (la disfatta di Ai nel libro di Giosuè), poteva anche mandarlo in esilio se non rispettava l’orfano e la vedova (tra l’altro). Il Dio degli eserciti e padre di una nazione insegnava, già in un’epoca di brutalità efferate, e che non conosceva le convenzioni internazionali – che tra l’altro non vengono rispettate neanche oggi – che bisognava prepararsi ad amare anche i nemici, che bisognava andare a Ninive a predicare appunto ai nemici (Giona).

Il Dio degli eserciti non era nazionalista ma universalista, aveva di mira il dominio del mondo: si pensi alla figura del Figlio d’uomo di Daniele 13!

Ma questa è proprio l’istanza del Messia, di Gesù, il dominio del mondo, la sottomissione dei poteri mondani e di quelli ultra-mondani e sub-mondani (Ap. 4) non però mediante un esercito ma mediante la “spada” della Parola. Gesù, dunque, e non altri soggetti collettivi come per esempio la chiesa, è il Soggetto che, ereditando le istanze antiche diviene, suo malgrado e in ragione della portata universale del suo dominio, nemico degli imperi e della guerra: dell’Impero romano, subito, ma poi di tutti gli altri che si sono succeduti nella storia, a Oriente come a Occidente, fino agli estremi di queste latitudini. Fossero essi sacri e romani, Wasp, pagani o impregnati di ideologia religiose, del Sol levante o del Jiiad o della Grande Russia…

E infatti è il vangelo di Gesù Cristo e non la cristianità, la realtà che si è sparsa nel mondo e che rappresenta l’unica “forza” che trasformando gli individui può condizionarne le vicende geopolitiche. Con la seconda, la cristianità, sono arrivati le crociate, i conquistadores, e la Compagnia delle indie …. Non avevano a che fare con Gesù e con il vangelo, nonostante gli stendardi con la croce. Con il primo, con il vangelo, al contrario, è arrivato in tutto il mondo il frutto dello Spirito Santo, la testimonianza silenziosa ma feconda dei cristiani del giorno dopo giorno, di coloro che sono stati luce e sale nelle pieghe della storia, nella prosperità economica (à la John Stott) ma anche nei conflitti, come nelle guerre.

E attraverso di loro che si palesa quella strana parola della Lettera agli Ebrei (cap 2) in cui si indica Gesù come il vero Signore della storia, anche se sotto segni contrari:

Avendogli sottoposto tutte le cose, Dio non ha lasciato nulla che non gli sia soggetto. Al presente però non vediamo ancora che tutte le cose gli siano sottoposte; però vediamo colui che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e di onore a motivo della morte che ha sofferto, affinché, per la grazia di Dio, gustasse la morte per tutti.

Cerchiamo nella Bibbia (la vogliamo ascoltare) un punto di sintesi di una riflessione sulla guerra e scopriamo che sia la figura di Gesù a essere questo punto di sintesi. Gesù è colui che sta di fronte al tema della guerra russo–ucraina (ricordiamoci che dobbiamo ancora ascoltare il mondo, e lo faremo prossimamente). In che modo allora è coinvolto Gesù nel conflitto? Sicuramente non nei grotteschi balbettii delle chiese con i loro impasti di criptopaganesimo (con tutto il rispetto per la venerazione di madonne, icone e segreti mariani), oppure con le formule stereotipate e sterili di organismi vari (con tutto il rispetto per Consigli ecumenici e Alleanze di vario genere).

Gesù è coinvolto nel conflitto, a mio giudizio, in due forse tre modi:
– nei furgoni e nelle carovane che portano aiuti (in quelle religiose come in quelle laiche e secolari);

– Gesù è coinvolto nella testimonianza da fede a fede tra la gente, tra le persone, come unico conforto nella vita e nella morte grazie alla comunicazione del vangelo che, è certo, i credenti in Gesù Cristo stanno facendo anche ora, nell’ora più buia; negli scantinati, come facevano nell’ormai distrutta Facoltà Battista di Irpin;

– Gesù è presente in un grido che guarda all’eschaton, un grido, forse, millenarista, sì, perché no? Abbiamo visto la tua azione nell’umiltà, nella croce, Signore, l’abbiamo confessata e vogliamo incarnarla; ma, ti preghiamo, facci vedere, almeno per un tempo, che cosa avrebbe potuto essere la terra se avesse regnato il Figlio di Dio; è vero che il lupo potrebbe sedersi accanto all’agnello? Che dalle spade si potrebbero costruire vomeri? Questo desideriamo vederlo, nel mentre assistiamo alla macelleria della guerra.

Ma se di fronte alla guerra la Bibbia si suggerisce di guardare “cristologicamente” e se il Cristo che conosciamo, confessiamo e imitiamo è quello della croce, che ci chiede, oggi, di esprimerlo in questi termini (la croce e la non violenza), pur avendo la consapevolezza della sua potenza e nutrendo la speranza di vederlo in azione, allora si pone necessariamente una riflessione per il giorno d’oggi. Come combinare la croce con il giornale e con i report che vengono dal campo di battaglia?

Ascoltare il mondo … segue

 

 

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